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LETTERATURA: I MAESTRI: Il soldato d’Annibale

21 Aprile 2018

di Mosca
[dal “Corriere della Sera”, giovedì 17 aprile 1969]

Questa Italia piccola, sem ­pre più piccola, mi stringe il cuore. Tra qualche anno, quando gli aerei saranno an ­cora più veloci, un bambino, con un salto dalle Alpi, ca ­drà sulla Sicilia.

Mi sembravi così grande, a scuola, allorché, moltiplican ­do all’infinito la tua grande carta, ti vedevo congiungere il regno dei ghiacci e le sab ­bie dei deserti, i soldati di Annibale impiegavano anni a percorrerti, un disperso vagò tutta la vita per i tuoi monti e le tue pianure, gli eremiti del Gran Sasso lo videro mi ­rare sgomento da una parte la distesa dell’Adriatico dal ­l’altra quella del Tirreno.

Vertiginosi sogni di lonta ­nanze mi rapivano dall’aula dove il maestro invano grida ­va il mio nome, e la povera voce continua oggi a inseguir ­mi, ma come uno scherno, ma come una beffa, quando dal ­l’aereo Roma-Milano, ti vedo, Italia, piccola da raccoglierti con una mano, breve come un attimo, fragile come un pas ­sero, minuti fa passavo sulla cupola di San Pietro, ora ve ­do l’isola d’Elba e, laggiù, è prossimo ad apparire l’Appen ­nino ligure dal quale fra po ­co si comincerà a frenare e a discendere per atterrare a Linate.

Le ossa del soldato disper ­so giacciono in una caverna ancora col loro sgomento, eri immensa mia cara terra, ri ­cordi i fazzoletti e i pianti alla stazione, quando alla ma ­dre il figlio che partiva in cer ­ca di lavoro sembrava non dovesse tornar più?, e non c’era bisogno di viaggi così lunghi e così decisivi per da ­re il senso della lontananza, bastava una partenza per la villeggiatura, in che nuovo mondo andavamo?, l’avrem ­mo più rivisto nostro padre che continuavamo a fissare quasi volessimo scolpircene dentro l’immagine, piccolo co ­me un punto sulla banchina ad agitare il cappello, mentre un raggio di sole incendiava la cornetta del capostazione, dallo squillo struggente come un addio?

*

Alla stazione nessuno più piange, nessuno più saluta. L’ultima lagrima l’ho vista a Reggio Calabria, lungo il vi ­so d’una vecchia, il figlio ave ­va una valigia di cartone te ­nuta chiusa con lo spago, e partiva come il soldato d’An ­nibale. Addio, addio. L’ulti ­ma Italia lunga. Dentro i ghiacciai delle Alpi giacciono in perfetto stato di conserva ­zione centinaia di elefanti. Addio, addio. Il più felice dei miei ricordi è vecchio d’oltre mezzo secolo, e insieme fre ­sco e giovane come una ron ­dine, o come il vento, quan ­do i primi di luglio si parti ­va per Vignanello, un paese sul fianco del Cimino, lonta ­no da Roma non più di set ­tanta chilometri, e la « ferro ­via », così la chiamavamo, impiegava, se tutto andava be ­ne, cinque ore a percorrerli.

La bella favola delle di ­stanze è finita, caduta come un’allodola abbattuta da un cacciatore. In cinque ore og ­gi si va quasi a Nuova York. l’Atlantico è ridotto a un La ­go Trasimeno, e questo, inve ­ce, al soldato d’Annibale, ap ­parve grande come l’Atlanti ­co. La ferrovia Roma-Nord partiva dall’ampio sterrato di Piazza della Libertà sollevan ­do lo stesso polverone che, nella Mancia, i greggi contro i quali combatteva Don Chi ­sciotte, per un tratto seguiva il Tevere, poi, via, a sinistra, con una stretta curva che fa ­ceva pericolosamente trabal ­lare l’ultimo vagone, lungo la via Cassia con le sue stazioni di Prima Porta, di Grottarossa, di Scrofano, con quelle sue scrofe nere e magre, simili a cinghiali, tutte in allegra cor ­sa dietro al treno, poi il fa ­scismo, che non ammetteva scrofe, restituì al paese l’anti ­co nome di Sacrofano, sacro tempio, anche se le scrofe ne ­re e magre continuarono, ignare, a misurarsi in veloci ­tà con l’ultimo vagone balle ­rino sempre in procinto di uscire dalle strette rotaie.

Per noi ragazzi cominciava la lunga avventura, i campi di grano allegramente chiazzati di papaveri, i bei pini ad om ­brello con i quali Roma, scom ­parsa la cupola di San Pie ­tro, continuava il suo addio, e il primo apparire all’orizzonte di quel Soratte che Orazio, italiano di quando l’Italia era grande, descrive come fosse il Monte Bianco, « Vides ut alta stet nive candidum â— Soracte, nec iam sustineant onus â— silvae laborantes, geluque â— flumina constiterint acuto ». Niente di vero. Il Soratte non giunge neppure ai settecento metri; quando vi nevichi le candide chiazze non sono più grandi di quelle, tra il grano, dei papaveri; non ha selve, e se anche le avesse non fati ­cherebbero certo a sostenere il peso della bianca, effimera spruzzatina; mai i fiumi, da quelle parti, si sono gelati, a meno che per flumina non si intendano i fossi e i ruscelli, ma Orazio era con noi sulla ferrovia Roma-Nord inseguita dalle scrofe, con gli stessi no ­stri stupori, le stesse nostre meraviglie, lo stesso nostro de ­siderio di lontananza, d’im ­mensità, d’avventura, perciò mentiva, e non agli altri, ma a se stesso, col medesimo pia ­cere col quale noi, spòrti dai finestrini e tenuti per le gam ­be dalla mamma e dalla non ­na, ci abbandonavamo all’in ­ganno d’un monte che per es ­sere, al centro di dolci piani e di modestissimi colli, l’unica altura degna di questo nome, ha sempre fatto la figura d’un Rosa o d’un Cervino.

*

Cinque ore, dunque, da Ro ­ma a Vignanello, quando non erano sei o sette, bastando alla decrepita locomotiva il più leg ­gero soffio di vento contrario per mutare in trotto il galop ­po, e dal trotto, sulle salite, passare ad un ànsito, poveret ­ta, che aveva dell’umano, per poi fermarsi affranta sfiatan ­do vapore, come una balena colpita a morte.

Toccava allora agli uomini validi scendere e spingere, con grande nostro divertimento, da una parte, e, dall’altra, grande mio dispiacere di non essere ancora nell’età in cui si viene chiamati a spingere, la giacca consegnata alla moglie, e sotto le ascelle, a lavoro compiuto quegli aloni azzurri che oggi, forse per una diversa compo ­sizione del sudore, non ci so ­no più.

Spesso, poi, la macchina, non che semplicemente fati ­casse ad andare, ma, per un guasto, rimaneva immobile in aperta campagna, o tra grano, o fra vigneti, o in mezzo a quelle aride, gialle distese di tufo da cui si ricavano i leg ­geri e porosi blocchi coi quali in tre giorni s’inalza una casa. Tali fermate erano per noi l’avventura sognata per un anno di seguito. Avvolti in quel silenzio assoluto che cade solo sui treni fermi, correva ­mo a perdifiato verso l’orizzonte, a braccia protese, come per toccarlo, ci addentravamo fra le spighe, ci ferivamo tra gli spini, ci abbandonavamo sul ­l’erba strofinando le guance contro il fresco taglio dei suoi fili, e venivano a noi, nitide benché lontane, le voci irate degli uomini, protestavano per il ritardo, « abbiamo i nostri affari » « abbiamo i nostri impegni », che affari? che im ­pegni?, strana, stupida gente che invece d’esser felice appa ­riva seccata, aspettavamo ca ­rezzando gli alberi lo scendere della sera, i primi grilli, i pri ­mi lumi lontani, i meccanici venuti a riparare il guasto ac ­cendevano le lanterne.

S’arrivava a Vignanello ad alta notte, stanchi, trasognati, quante migliaia di chilometri era lontana Roma, quale Atlantico ce ne separava, vi saremmo mai potuti tornare?, non c’era, di chiaro, che la strada polverosa dalla stazione a casa, intorno le case buie, di là da esse la massa nera dei boschi di castagni, chi avrebbe mai potuto contare le migliaia di stelle palpitanti?, come il soldato di Annibale, sperduti in una terra immen ­sa, contro il cielo il profilo gigantesco del Cimino domi ­nato dal mistero d’una fag ­geta nel cui folto, si diceva, mai nessuno aveva ardito inol ­trarsi, quando l’Italia era gran ­de, infinita, e le distanze, una volta partiti, erano senza ri ­medio, e i ritorni lenti e dif ­ficili, quasi impossibili, come quello d’Ulisse.

 


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Bart