LETTERATURA: I MAESTRI: Il terrazzino di Ada24 Aprile 2018 di Mosca Penso che dopo più di quarant’anni il riserbo, se non sul cognome, sul nome di colei che m’aprì il misterioso incan to del primo amore possa ca dere. Ada studiava da mae stra. Ricordo, più di lei, il terrazzino ch’ella mi rendeva caro, sul quale i pomeriggi d’estate soleva prendere il fre sco in compagnia della madre e della sorella. La casa era ad un piano solo, dalla rin ghiera sporgeva un melograno, le foglie s’agitavano al vento che verso sera veniva dal Ci mino del quale, guardando lei vedevo, incombente, alle sue spalle, la faggeta nera che ri copre la vetta. Un terrazzino del Goldoni, quello del « Ventaglio », fatto per un dialogo anche a bassa voce; ma io non osai mai pronunciare una parola, e non già per la presenza della ma dre e della sorella, che pur conoscevo, ed alle quali avrei almeno potuto dire « Buona se ra » o « Buon fresco », ma per la presenza sua, la quale non già che mi paralizzasse, anzi m’esaltava, ed una volta, giu ro, mi rese capace del volo che da non so quanti anni mi covavo dentro, così che il terrazzino non lo vidi di sotto in su, ma dall’alto in basso, e la vista del Cimino, lungo il cui fianco corre il paese di Vignanello, mi si scoprì tutta, e di Ada, che del volo, che pur essa aveva suscitato, non s’era accorta, vidi i capelli, umilmente tenuti appiattiti, la riga in mezzo, raccolti in croc chia dietro la nuca. Non ardii toccarli, vi soffiai sopra un poco, come fosse il vento del Cimino, e che pa rola, che parole dire al primo amore? Nel vocabolario non si trovano, le abbiamo dentro di noi, ma muoiono sulle lab bra e non ne serbiamo me moria. Così discesi muto e ripresi la strada che percorsi fino al termine, in capo alla lunga salita, dov’è la porta del Vignola, dopo di che, ripas sando sotto il terrazzino, a testa bassa, senza osar di guar dare, la ripercorsi fino all’altro capo, dov’è il castello Ruspoli, e di lì, come tutti gl’inna morati d’oltre quarant’anni fa, via di nuovo verso la porta del Vignola, e da questa an cora al castello Ruspoli, col cuore che, avvicinandosi il ter razzino, ogni volta prendeva a martellare, e così fin quasi a notte, quando, all’improvviso, senza guardarlo, sentivi il ter razzino deserto, sotto s’illumi nava una finestra, cenavano. Io non la vidi mai cenare. Io non la vidi che su quel terrazzino, e all’ospedale di Viterbo. A Vignanello tornai nel 1960, l’anno in cui gli americani mandarono in orbi ta l’Echo I. Non chiesi di lei. Sapevo che non c’era più, ma non volevo sapere dove fosse, né ora voglio sapere dove sia. L’Echo I, qualcuno ricorderà, era un pallone sonda messo in orbita per non so quali espe rimenti. Appariva della gran dezza d’una stella, e da quante popolavano il cielo della piaz za di Vignanello, piccola tra castello Ruspoli e la chie sa, si distingueva solo per la straordinaria velocità, girava intorno alla Terra in un’ora e mezzo, aveva appena sfiorato la coda del Serpente che già la vedevi, diretta verso l’Orsa minore, passare tra Lira e Vega, poi dalla Stella Polare al Camelopardo, all’Auriga, fino a confondersi col gruppo di Orione per poi, di lì a tre quarti d’ora, rispuntare presso il Serpente, grondante ancora della luce della Croce del Sud. Seguii, fino a notte alta, tre passaggi della nuova stella che, abbreviando il tempo, mi ri portava quasi tra le mani la prima giovinezza, il terrazzi no, il volo, la riga diritta tra i capelli, i giorni della festa di San Biagio che laggiù si celebra l’ultima settimana d’a gosto, le corse « a tondo » dei cavalli in una radura fra i castagni di Talano, e Ada, ch’era pallida, lo sembrava ancor più tra i giochi d’ombre e di luci sotto le foglie; i fuochi artificiali, sul prato ai piedi del paese, fresco e umi do anche di piena estate, e il viso di Ada usciva dal buio, percosso dallo splendore livi do delle fontane di bengala; lungo il corso Garibaldi â— da un lato il muro del parco del castello, dall’altro vecchie case tutte vive di balconi fioriti â— le corse « a vuoto », cioè di cavalli senza fantino aizzati da vesciche di maiale gonfie d’aria che, legate alla crinie ra, tanto più li martoriavano quanto più velocemente, sul selciato cosparso di sabbia, essi galoppavano per porre più presto termine al suppli zio, e tra il sole gli zoccoli e gli urli, Ada bianca tra i garofani d’un balcone; la mes sa solenne che per antica tradizione si celebrava a porte sbarrate, una calca enorme, tutti prigionieri, le prime comunioni e le cresime, migliaia di candele arroventavano l’aria e piegavano quelle lunghe e spente tenute in mano dai padrini e le madrine, i bambini vestiti alla marinara cadevano svenuti come i soldati inglesi alla rivista della Regina, mentre in tanto medioevo Ada an dava su con le volute dell’in censo, io al suo fianco, rima nevamo lassù, con le schiene premute contro gli affreschi del soffitto, fra santi e cheru bini, e mi morivano sulle labbra le parole di cui non si riesce a serbare la memoria. La festa terminava con la Battaglia di San Martino. La banda municipale si divideva in due parti, una suonava in piazza, l’altra sugli spalti del castello, sul tetto della chie sa, e la prima cornetta all’ultima finestra del campanile con un riflettore che illumi nando l’ottone lo faceva d’oro. Vittorio Emanuele II attraver sava l’aria a spada sguainata spaventando le nottole, io ora vedevo ora perdevo Ada e la chiamavo gridando dentro di me mentre le note della cor netta incalzavano gli austriaci in fuga. Le s’ammalò di tifo un fra tello che avevo veduto qual che volta di sfuggita, del qua le avevo paura, era più grande di me, passati i vent’anni, lau reato in legge, le somigliava, aveva gli occhiali più poveri del mondo, sembrava li aves se cerchiati da sé di filo di ferro; lo portarono all’ospeda le di Viterbo, che non dista troppo dal palazzo papale al quale, nel 1271, venne tolto il tetto perché, esposti alle in temperie, i cardinali radunati in conclave s’affrettassero ad eleggere il pontefice. Credo sia l’edificio più leggero del mondo. Ha un loggiato aereo, tutto bifore intrecciate fra loro e traforate, che spesso non si vede, in viaggio com’è, nelle giornate di vento, sulla distesa di castagni, di viti e di noccioli che seguendo il dolce declivio delle estreme balze del Cimino porta al lago di Bolsena. Accanto a una delle bifore, incisi con un chiodo, atto incivile di cui non mi pento, sono i nostri due nomi. Il letto del fratello di Ada non era in una stanza, ma come avviene ancora in molti ospedali italiani, in un corridoio, nel quale, essendo percorso da tutti i venti, i cattivi odori non potevano ristagnare. Ada non abbandonava il fratello che la sera, al suono d’una campana, per tornare al nuovo suono, poco dopo l’alba, ancora come ai tempi di papa Gregorio X, eletto per forza, ma il corso veloce dell’Echo I non riavvicina forse tutto?, ed eccomi, come fosse ieri, apparire ai piedi del letto e dire « Ada, posso aiutarti? », e al malato non dire chi fossi, né egli me lo chiese, fuori di sé com’era per la febbre, tornava a ragionare seppur trasognato e lontano solo dopo che, avvolto nudo in un lenzuolo inzuppato d’acqua gelida, la temperatura gli era scesa da 41 a 36; così allora si curava il tifo, col freddo e col digiuno assoluto; chi sopravviveva era poco più che uno scheletro, e intorno a questo scheletro dagli occhi cerchiati di filo di ferro, noi ci affaccendammo per tre settimane, fino ai servigi più umili e più ripugnanti. Il giorno in cui dissero « É guarito » sparii, ma avevamo inciso i nomi presso la bifora. Tutte le sere io ripartivo per Vignanello, lei rimaneva presso una parente, ma una volta dopo la campana, all’ultima luce del giorno entrammo prima nella grande sala nel cui pavimento si vedono ancora buchi scavati dai cardinali rimasti senza tetto per drizzare i pali d’una tenda, poi nel loggiato da cui si vede il celeste del lago di Bolsena, desiderosi che si levasse in volo ma non si levò, e scrivemmo il nome, ma neppure nel porgerle il chiodo cercai di sfiorarle la mano. Ahimè, gliela presi pochi giorni dopo, a Vignanello, dove il prato dei fuochi artificiali fa bordo alla strada per Civita Castellana, sotto un gelso; ricordo che aveva le foglie bianche di polvere. Con le parole più meschine che si possano immaginare le dissi di amarla. Lei non rispose. Solo, arrossì un poco. Le presi la mano e movemmo così, freddi e muti, i primi e gli ultimi passi d’un cammino che non dovevamo percorrere insieme.
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