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LETTERATURA: I MAESTRI: John Barth

18 Febbraio 2016

di Romano Giachetti
[da “La fiera letteraria”, numero 29, giovedì, 18 luglio 1968]

Buffalo (New York), luglio

Fiera – Prima di parlare del suo la ­voro presente, vorremmo sapere qual ­cosa, a grandi linee, della sua storia di scrittore. Per esempio, quando decise di dedicarsi alla letteratura?

 

Barth – Non prima di arrivare al College. Al mio paese, Cambridge nel Maryland, non pensavo davvero di di ­ventare scrittore. I miei genitori era ­no gente semplice, intelligente ma semplice; non c’era nulla nell’ambien ­te di casa che mi spingesse in quella direzione. E anche quando arrivai alla Johns Hopkins University, poco dopo la seconda guerra mondiale, non ave ­vo nessuna idea circa cosa avrei fatto. Decisi di specializzarmi in giornalismo perché mi pareva un modo come un altro per guadagnarmi da vivere. Ma poi accadde una cosa curiosa. Accettai un lavoro nella biblioteca dell’Università, nella sezione classici. Era un la ­voro per modo di dire, perché mi la ­sciava un mucchio di tempo libero. Ri ­cordo che anch’io, come tanti altri, ero solito nascondermi in un soppalco pol ­veroso di quella sezione e letteralmen ­te divorare dozzine di libri. Divenne un’ossessione: più leggevo, più c’era da leggere. A un certo punto pensai che si dovesse leggere tutto, ma l’im ­presa si rivelò pazzesca. Però quel gu ­sto si era ormai ben radicato in me. Ero stato conquistato da quell’oceano di narrativa antica, e non rimpiango nemmeno un minuto di quel tempo.

 

Fiera – Fu da quella prima esperien ­za che nacquero The Floating Opera e The End of thè Road?

 

Barth – Non esattamente. I primi anni li passai come avvolto nella ra ­gnatela dei vecchi racconti. Ero affa ­scinato dalle Mille e una notte, da Chaucer, da Boccaccio. Specialmente Sheherazade era un personaggio che sentivo congeniale, e di cui dirò dopo. Ma quando decisi di provarmi a scri ­vere, avevo già fatto molta strada co ­me lettore, ed ero ormai sotto altre in ­fluenze. All’epoca in cui cominciai a lavorare a The Floating Opera, che è la storia di un uomo richiamato alle armi, nel 1937, il giorno in cui sta di ­battendo con se stesso il proprio suici ­dio, ero interessato alle esperienze let ­terarie di un poeta, Pedro Salinas, e di un narratore, Machado de Assis, che avevano ben poco in comune con il mondo accademico in cui vivevo e con le letture dei classici.

 

Fiera – Machado de Assis operava in una direzione piuttosto realistica.

 

Barth – Certo, ed era quella la dire ­zione che mi interessava allora. Anche il secondo libro, The End of the Road, appartiene a quel primo momento. In un certo senso, i due libri sono svilup ­pi diversi di uno stesso nucleo: il con ­trasto tra tesi e antitesi.

 

Fiera – Un contrasto che sembra ri ­comparire spesso nei suoi libri, come il motivo del triangolo di tipo borghe ­se. Suppongo alluda ai personaggi Jake e Joe.

 

Barth – Naturalmente. Il mondo di Jake è il rovescio perfetto di quello di Joe, l’indecisione dell’uno (che tra l’al ­tro ha un contenuto autobiografico: io divento paralizzato di fronte alle deci ­sioni minori, come per esempio com ­prare un libro anziché un altro) viene controbilanciata dall’inflessibilità e dalla rigidezza dell’altro. Il fatto poi che alla sconfitta del primo corrispon ­da la sconfitta del secondo importa so ­lo fino a un certo punto. Quello che m’importava allora era l’analisi, la più elementare possibile, della complica ­zione dei rapporti umani. Suppongo sia per questo che il triangolo moglie-marito-amante ha mantenuto a lungo per me, intatto, tutto il suo fascino: perché la dose di speculazione umana che è subito reperibile in un rapporto uomo-donna, marito-moglie, trova il più diretto sconvolgimento proprio nella comparsa del terzo incomodo. Si tratta di un’operazione semplice, ripe ­to, ma vale come indicazione di un possibile sviluppo all’infinito, che in fin dei conti è la vita di tutti.

 

Fiera – Ma non è forse vero che an ­che nei due romanzi più lunghi il mo ­tivo del rapporto tra tesi e antitesi regge l’impalcatura della trama?

 

Barth – Penso di sì, e penso che tut ­to il mio lavoro si sdipanerà intorno a quelle poche fila. Tuttavia, il passag ­gio dall’esperienza dei primi due libri al terzo, e conseguentemente al quar ­to, fu per me quasi radicale. Nel Sot-Weed Factor il tema si allarga a un giudizio sulla natura stessa dell’Ame ­rica contemporanea. E’ stato detto che è un’opera satirica secondo lo stile del romanzo picaresco del diciottesimo se ­colo, e in parte è vero, ma la mia in ­tenzione era di fare un’appassionata imitazione contemporanea del roman ­zo convenzionale di quell’epoca, che è satira solo secondo un’altra convenzio ­ne. In realtà i miei interessi erano ri ­volti in quel momento al romanzo co ­me documento, che è un tema di at ­tualità, qui da noi, anche oggi.

 

Fiera – Perché anche oggi?

 

Barth – Perché ci sono studenti di letteratura, da noi, che scoprono Goe ­the e Richardson in ritardo e credono di rivoluzionare le cose trattando il ro ­manzo contemporaneo come un docu ­mento da archivio, con la relativa freddezza, il conseguente distacco, e gli inevitabili poveri risultati. Per me il documento aveva e ha valore, sem ­mai, come punto di partenza: lo scrit ­tore si fa intermediario tra la storia e il lettore, ma se si limita alla registra ­zione cronologica finisce per fare della muffa. Quando io tirai fuori dal di ­menticatoio la cenere del poema The Sot-Weed Factor di Ebenezer Cooke, che nessuno ricordava se non come un mediocrissimo poeta, che in realtà cor ­rispondeva alla verità, ricreai una sto ­ria « possibile » sulla scorta di pochi dati, alcuni provati, altri immaginati. A volte lo scrittore interpreta la sto ­ria, ma interpretandola con invenzioni del tutto soggettive può anche darsi che arrivi dove lo storico non può ar ­rivare.

 

Fiera – Lo stesso vale anche per Giles?

 

Barth – In un certo senso, sì. Giles è figlio di una capra e di un computer. Nonostante che la critica sia stata in ­credibilmente favorevole a questo li ­bro, al punto da farlo diventare un best-seller, il valore documentario del ro ­manzo verrà probabilmente scoperto solo tra parecchi anni, quando questo nostro tempo presente sarà storia. In fondo, farsa e satira richiedono un certo distacco, e il mio intento base, fin da quando mi sono messo a scrive ­re, è sempre stato quello di riuscire a fondere proprio questi due elementi,’ per raggiungere la passione e la forza5 che sono essenziali a una visione tra ­gica della vita, che è parte del mio pensiero.

 

Fiera – Per tornare alla netta divi ­sione che lei sembra fare, pur mante ­nendo una certa ricorrenza di motivi, tra i primi due libri e i secondi due, che ne è dello stile propriamente det ­to, in questo passaggio?

 

Barth – Il problema dello stile mi impegna per parecchie ragioni. E in ­tanto sarà bene dire subito che i primi due libri, che definirei realistici da tutti i punti di vista nonostante la pre ­senza di alcuni annunci farseschi (il comico, per esempio, come timbro co ­stante del secondo libro), sono per me esperienze completamente superate, mentre non è così per il terzo e il quarto. Poi vorrei dire che il proble ­ma del realismo, secondo me, è antico e moderno come il romanzo stesso. Bi ­sogna distinguere. Prendiamo Boccac ­cio e Chaucer. A nessuno dei due man ­ca un certo coraggio: devono descrive ­re un pavido, o un avaro, e ce lo dico ­no subito, ecco il tale, era un pavido, ecco il tal’altro, era un avaro. Altri, prendiamo per esempio James, o Cecov, o Maupassant, non riuscivano a farlo, o meglio non puntavano che a evitarlo, limitandosi a lasciare che le cose raccontassero per conto loro la sostanza dei personaggi. Ora, a me sembra che anche nel nostro secolo il problema non sia cambiato. Antonioni, per andare all’estremo, gira per un’ora intorno a un personaggio con un obiettivo il più spietato possibile, ma evita accuratamente di farci sapere se si tratta di una vergine o dj una ninfo ­mane, tanto per dire. Nel campo della letteratura, prendiamo pure il mio pri ­mo libro. In The Floating Opera, se mi fossi limitato a voler dire o non di ­re certe cose, sarebbe mancata la di ­mensione che il romanzo, anche quan ­do è realismo puro (se una tale bestia esiste), ha, almeno dal mio punto di vista.

 

Fiera – La parodia del raccontare, insomma.

 

Barth – Esatto. Quel libro, possiamo dire, è la parodia di una vecchia con ­venzione letteraria. Ora, se dietro una parodia del genere non ci fosse nessu ­na intenzione seria (e invece c’è), si tratterebbe né più né meno di un di ­rottamento per venire a patti con la differenza tra arte e vita. Un modo per colmare tale divario è quello indi ­cato dai francesi, in special modo da Robbe-Grillet, che ingenuamente cre ­de di debellare con le sue teorie il rea ­lismo convenzionale. Essi tentano di eliminare dalla convenzione letteraria ogni tipo di convenzione, inclusa l’in ­terpretazione dell’autore. Sarebbe faci ­le scartare tutto quanto come follia modernistica. Ma le cose non sono così semplici, perché per esempio la diagnosi di Robbe-Grillet circa il ro ­manzo moderno mi trova d’accordo; dove non siamo più d’accordo è invece quando egli consiglia la cura. Il meto ­do epistematico dei francesi, in fondo, riporta al romanzo dell’Ottocento, mentre un’alternativa potrebbe essere, per esempio, non che il romanzo debba rappresentare la realtà, ma essere una vera rappresentazione delle distorsioni della vita.

Fiera – Ma queste scoperte francesi, sono da considerarsi superate?

 

Barth – Non quanto si crede, almeno qui da noi in America. Molti giovani autori le stanno cominciando a digeri ­re appena ora, e molti fanno una gran confusione tra i francesi e Beckett, per accennare a un’esperienza completamente diversa. Pochi si accorgono che il grande inconveniente delle teo ­rie di Robbe-Grillet è che esse limita ­no incredibilmente la portata del romanzo, escludendo per esempio l’elemento fantasia, l’elemento farsa, elementi che richiedono la presenza del ­l’autore La strada indicata da Kafka, Joyce, Mann, Becket e Borges rimane, secondo me, quella più valida, mentre quella di Hemingway e Faulkner, per fare solo nomi americani, i giovani la deridono. Davvero, non sanno che de ­riderla, non accettano più nessuna le ­zione di quel tipo. E rifiutano anche Mailer, che pure lavora tra loro. In Italia per esempio sarà interessante sapere che uno scrittore come Landolfì, e perfino uno come Buzzati, oggi, incontrano qui in America più favore degli ormai superati Moravia e Silone. Ma i giovani, si sa, sono impazienti, sono costantemente malati di moder ­nismo, alcuni invocano l’avvento di un’epoca (addirittura) di irrealismo.

 

Fiera – Una reazione di tipo alquan ­to freddo.

 

Barth – Freddo e ambiguo, che non stabilisce nessuna complicazione tra lo scrittore e il lettore. Personalmente, non m’importerà mai di uno scrittore che non riesce anche a commuovermi e il virtuosismo tecnico, o i trucchi metafisici e stilistici, non mi commuo ­vono affatto. Ecco perché Beckett e Borges, per esempio, sono dei maestri: perché sono stilisticamente originali e allo stesso tempo ti toccano, ti toccano dentro, specialmente Borges. Natural ­mente, il semplice schema narrativo che procede nel tempo con la pedante ­ria del cronista o dell’archivista, non m’interessa, perché la vita non è così. La vita ti prende, rimbalza su te, ti stringe alla gola e ti lascia andare, per riprenderti poi a un altro livello, in un’altra dimensione. Perché la lettera ­tura non dovrebbe rendere tutto que ­sto? Gli antichi conoscevano bene l’ar ­te del raccontare, e io non faccio fati ­ca ad ammettere che nel mio lavoro più recente mi trovo in un continuo rapporto con certi modelli del passato.

 

Fiera – In che senso?

 

Barth – Accennavo a Sheherazade, prima. Per me Sheherazade rimane il perfetto esempio della metafora del ­l’artista. Non soltanto racconta molte storie: è essa stessa personaggio di una storia. Si ha quindi una storia nel ­la storia, un racconto nel racconto, un’azione dentro un’azione. Ricordo che durante la lettura delle Mille e una notte non riuscivo mai a dimenti ­care, nemmeno per un momento, che Sheherazade raccontava mentre un al ­tro giorno passava, e che il suo rac ­conto doveva essere divertente, avvin ­cente anzi, proprio perché doveva sal ­varle la vita. E guardiamo alla com ­piutezza del personaggio stesso: per sopravvivere deve perdere la propria innocenza, è pregna del seme dell’uo ­mo e insieme è minacciata di morte. Porta dentro la vita e lotta contro la morte. E’ un’apocalisse personale, e naturalmente si svolge di notte (quel ­la collettiva di Boccaccio viene narra ­ta sul tardo pomeriggio, alla fine di un’epoca, e quella di Chaucer al matti ­no, al risveglio di un mondo: non è fantasticamente indicativo? ). Perfino il rapporto base tra uomo e donna tro ­va, in Sheherazade, la sua esemplifica ­zione più coerente.

Fiera – E’ difficile vedere tracce di queste impressioni nei suoi libri, nem ­meno negli ultimi due.

 

Barth – Infatti ho lavorato solo in questi ultimi due anni alla messa a punto di queste osservazioni. Lost in the Fun-House, il libro che uscirà tra poco, si regge in questa dimensione. Una Fun-House è un baraccone-labi ­rinto di un luna park, una di quelle serpentine fatte di specchi e gallerie buie dove ci si perde in mezzo a gran ­di risate. Da bambino mi persi davve ­ro, una volta, in un posto del genere. Deve essere stata quell’esperienza a lasciarmi il desiderio di andare più a fondo nell’analisi dell’uomo che si per ­de. Comunque, questo è un dato mar ­ginale. Più diretto, invece, è il fascino che esercita su di me (attraverso She ­herazade e i narratori dello stesso ran ­go) un congegno del tipo della scatola dentro una scatola dentro una scatola, e così via… Il racconto nel racconto nel racconto, insomma. Ho costruito infatti sette storie, si parte da Telema ­co fino a Elena corteggiata da Paride, e si torna indietro di nuovo a Telema ­co, ogni personaggio con la sua storia, come cubi di dimensioni decrescenti.

L’uomo è un insieme di storie dentro altre storie.

 

Fiera – E l’autore, che posto occupa?

 

Barth – E’ egli stesso parte del gro ­viglio di storie. Recentemente ho pre ­so a sperimentare un nuovo mezzo di comunicazione con i lettori. Il raccon ­to stampato ha una funzione, ma quel ­la funzione può essere alterata, e con essa la funzione dell’autore, mediante la lettura del racconto effettuata dalla viva voce dello scrittore. Mi spiego. Il procedimento si vale di nastri incisi appositamente, e a volte nemmeno di nastri: basta la voce dell’autore, basta ­no due altoparlanti stereofonici, ognu ­no di essi con un compito specifico. Per esempio, uno trasmette il raccon ­to stesso, l’altro il commento dell’auto ­re. Inoltre, la presenza dell’autore a volte provoca una reazione nell’ascol ­tatore che la carta stampata non può provocare nel lettore: l’ascoltatore in ­terviene direttamente nel racconto, fa domande, chiede spiegazioni, e l’auto ­re, se necessario, modifica improvvi ­sando, riprende il corso della narrazio ­ne, si prepara a nuove interruzioni.

 

Fiera – E’ questo dunque il significa ­to del suo quinto libro?

 

Barth – Il mio quinto libro è un nuo ­vo passo avanti (spero) nel discorso che vado facendo dal 1956. Si compone di due brevi romanzi per così dire « per stampa », e di dodici racconti per stampa e incisione su nastro. Lo scon ­finamento di un mezzo di comunica ­zione nell’area dominata da un altro, oggigiorno, è inevitabile, sebbene certi confini vengano continuamente rispet ­tati più per tradizione che per vera necessità. Due di questi mezzi, appun ­to, sono secondo me la lettura e l’a ­scolto, o meglio ancora la stampa e la trasmissione.

 

Fiera – Ha mai pensato al comple ­mento eventuale del cinema?

 

Barth – Ci ho pensato. Ma il cinema sta alla narrativa, per dirla con una formula matematica, come la fotogra ­fia sta alla pittura. Il film e la fotogra ­fia rimangono mezzi visivi, dove la presenza dell’autore non è necessaria ­mente un elemento del loro diagram ­ma. Invece la letteratura è ancora al punto del C’est moi di Flaubert. Gli scrittori americani dell’Ottocento, do ­po Hawthorne, non lo avevano capito, e quanto a questo nemmeno la mag ­gior parte di quelli di questo secolo. Ognuno si presentava sulla scena let ­teraria, fino a ieri, con la pretesa di avere scoperto la vera letteratura, con l’intenzione di rifare il mondo. Hemin ­gway rifaceva la verginità dell’Ameri ­ca…

 

Fiera – Ha menzionato spesso i suoi studenti e il loro interesse nelle nuove ricerche che lei sta effettuando. Ma non le è inevitabile, per esempio, regi ­strare i loro umori riguardo, che so, alla guerra o alla situazione sociale?

 

Barth – Inevitabile è la parola. Ine ­vitabile e di malavoglia.

 

Fiera – La guerra tocca anche le Università.

 

Barth – Le sconvolge, direi. E io, na ­turalmente, sono contro la guerra. So ­no contro la guerra e contro la situa ­zione razziale e contro la povertà. C’è una povertà spaventosa, nel nostro Paese. Anni fa ero in un villaggio spa ­gnolo dell’Andalusia, ricordo, e ogni giorno mi pareva di vivere in un’at ­mosfera dostojevskiana: i poveri ci ve ­nivano a vedere mangiare, mettevano mani e mento sulla finestra e stavano a guardarci mangiare. La povertà non potevi evitarla, là. Ma qui, a volere, uno dimentica che esiste quasi la stes ­sa povertà: basta non andare in Harlem, nel New Mexico, in Louisiana, e si dimentica.

 

Fiera – Ma la guerra non è facile di ­menticarla.

 

Barth – No. Non è facile dimenticare che stiamo massacrando il grande so ­gno americano. Leslie Fiedler la chia ­ma la « perdita dell’innocenza dell’America ». L’innocenza mi interessa po ­co, ma l’America mi interessa. Una volta mi interessava anche di più, de ­vo dire. C’è stato un momento in cui ero coinvolto nel movimento per i di ­ritti civili, giù al mio paese nel Mary ­land, ma fu un’esperienza catastrofica perché ottenemmo ciò che la gente ot ­tiene oggi con tutte le dimostrazioni per la pace e l’uguaglianza razziale: niente. Sono, ripeto, contro tutti i so ­prusi al nostro concetto sociale, ma mi sento impotente. Per questo non lascio che il mio lavoro venga influenzato dalla situazione. Questa è cronaca, per quanto tragica. La letteratura ritrasfor ­ma più tardi la cronaca. Socialmente, il                 mio lavoro potrebbe essere definito irresponsabile, ma i libri non sono va ­lidi solo per il cemento sociologico che contengono. Con esso, si fanno libri « interessanti », come quelli di Nor ­man Mailer, ma la letteratura è fatta di libri « belli ». E’ un’altra cosa.

 


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Bart