LETTERATURA: I MAESTRI: La colpa della tradizione27 Giugno 2017 di Carlo Laurenzi Tracciando un consuntivo del ’68, un propagandista ci nese si è compiaciuto che in Italia « migliaia di universita ri, liceali e allievi delle scuole elementari siano scesi nelle strade a ingaggiare eroiche lotte contro la polizia ». La verità non è così truculenta, almeno per quanto riguarda la rivolta dei bambini; ma chi non sa che l’Italia dei gio vani è mutata, anche se qual che riserva sull’« eroismo » sembri necessaria? Rimangono immagini di ieri che paiono lontanissime, in noi. Questa, per esempio. Un giorno, celebrandosi non ricor do quale centenario o cin quantenario, sorsero tribunette di legno in piazza San Marco, dall’alto delle quali duemila ragazzi delle scuole di Vene zia cantarono gli inni patriot tici del secolo passato. Non assistetti alla cerimonia ma la immaginai, guardando le tri bunette vuote nel sole. Mi fu facile, in un certo modo, com muovermi. Tutti sappiamo commuoverci (oggi più di ieri, forse) se pensiamo al Risor gimento tradito. * Quella stessa sera si svolse una manifestazione teatrale: fu eseguito con molta dignità El pare de Venezia, specie di bozzetto in tre atti dedicato a Daniele Manin. Un confe renziere, la cui voce era inau dibile dalla maggior parte del pubblico, glorificò Manin o comunque parlò di Manin per un lasso di tempo eccessivo. Esula da me ogni tentativo di giudicare la conferenza in sé, dal momento che non po tei coglierne una sillaba; riten go però che negli spettatori l’antipatia per le conferenze in genere â— questo cemento che unisce gli uomini â— ri sultasse rafforzata. A un certo punto parve lecito pensare che il conferenziere avrebbe anche potuto non fermarsi più: non leggeva (bisogna diffidare dei conferenzieri che non leggono: sono i meno stringati) e il tono della sua voce lasciava temere, al venticin quesimo minuto, che la trat tazione del curriculum di Da niele Manin si trovasse ancora al preambolo. Invece il conferenziere crollò, e ci fu propinato il boz zetto. El pare de Venezia è un’opera del vicentino Rossato, difensore del teatro dia lettale e per questo motivo, cosa che ai più giovani parrà a stento credibile, perseguitato dai fascisti. Esistono comme die di Rossato che molti co noscono per sentito dire, quali Nina non far la stupida e La biondina in gondoleta il cui valore le rende forse preferi bili al Pare de Venezia. Non assumo che El pare de Vene zia sia privo di meriti; il fat to è che gli elementi « epici » e gli elementi « umani » non riescono a fondervisi se non (talora) sul piano di un umo rismo probabilmente involon tario. C’è una scena del primo atto in cui Manin, uscito di fresco dal carcere e conside rato a buon diritto dai patriotti una guida spirituale, cerca di convincere un giova notto dagli istinti belluini che l’uccisione del colonnello au striaco Marinovich, progettata per l’indomani, sarebbe un bieco delitto. Il giovane ascol ta in silenzio, dopodiché ri volge al padre della città un discorso di questo tipo: « In seguito alle vostre parole, si gnor avvocato, domani il co lonnello Marinovich non mor rà. Egli morrà oggi ». Riten go che una situazione di tal genere giustifichi la perples sità della critica e rispecchi le incertezze dell’autore. Nonostante tutto ciò, finii con l’accedere alle previste emozioni risorgimentali. Dirò che gli attori di Baseggio recitavano con bravura e con impeto; nessuno ignora che il dialetto veneto può acquistare sulla scena una solenne roton dità spagnolesca. Debbo ag giungere che il teatro era la Fenice, bellissimo. I palchi erano adorni di mazzi di ga rofani, legati da nastrini tri colori. Parole come Libertà e Sacrificio echeggiavano. Uffi ciali della Marina, dell’Eser cito e dei Carabinieri, in alta uniforme, si ergevano inorgo gliti. Nude spalle femminili splendevano. Gli scettici si an darono persuadendo che, tut to sommato, l’epopea dell’in surrezione veneziana sarebbe stata messa in ridicolo, po niamo, da Gabriele d’Annun zio (se D’Annunzio si fosse lasciato andare a scrivere si mili cose) più di quanto la ridicolizzasse l’artigianale Ros sato. E in fondo non si poteva neanche affermare che Rossato ridicolizzasse l’insur rezione: il suo bozzetto, non privo di garbo, era povero di retorica, e non dispiacque a nessuno quel Risorgimento in pantofole. Al terzo atto fu recitata la notissima, malinconica filastrocca che comincia « E’ fosco l’aere â— il cielo è muto ». Ci furono applausi; i mazzi di garofani vennero lanciati sul palcoscenico. Un burlone che aveva progettato di spor gersi dal palco e gridare « Vi va Verdi » (a parodia degli anni mitici) non ebbe cuore di farlo. Ma che cos’è, alla fine, il fascino del teatro? Da spetta tore facile allo scoraggiamento seppure alieno dalla contesta zione pubblica, temo di aver provato di rado quel fascino; in nessun modo saprei defi nirlo. Uno spettacolo che mi col pì (forse come nessun altro) fu il Tito Andronico con Laurence Olivier e Vivien Leigh, anch’esso alla Fenice. Notai questo: che la platea, formata in buona parte di snob e di sposta volenterosamente ad annoiarsi, non ebbe bisogno di annoiarsi. La lingua di Shakespeare era incomprensibile, ma una sorta di furia musicale, dalla prima battuta tenne tutti avvinti. Fu davvero un grande gioco. Penso che la mediocrità del testo fornisse lecitamente agli attori spavalderia: un testo più alto, propizio alla rivelazione solitaria, sdegnoso del compromesso scenico, non avrebbe consentito altrettanto. Molti fra gli spettatori della Fenice ebbero, credo, la sensazione di comprendere per la prima volta ciò che significa classicità del teatro: una mi stificazione rigorosa, l’assenza delle passioni vere, la purez za e la crudeltà di una fiaba, la gioia di mentire. Sia lode al regista Peter Brook se riu scì, come sembra probabile, a travolgere in taluni spetta tori la fiducia nel realismo. C’erano in sala parecchi at tori e registi italiani; applau dirono, naturalmente. Non sa rebbe giusto, tuttavia, dubi tare del loro acume al punto di non pensare che non fos sero, in ultima analisi, consi derevolmente depressi. In un certo senso gli uomi ni del nostro teatro ebbero la rivincita subito dopo lo spettacolo, quando venne of ferto nelle Sale Apollinee del la Fenice un ricevimento in onore degli ospiti. * Fra gli ospiti scesi dal pal coscenico, parve che il solo Laurence Olivier conservasse prestigio: era in smoking, co me gli italiani, e il suo volto familiare serbava un riflesso della gloria filmica. Vivien Leigh, senza dubbio, era soa ve nell’abito bianco; ma come gli anni, appesantendole le palpebre e disseccandole il collo, traevano vendetta del genio! Nessun’altra donna del la compagnia era bella; si ri conobbe che la giovanissima moglie del regista era piutto sto graziosa, ma troppo sen suale e volgare. Maxina Audley, la pantera, sembrò sciat ta e sparuta nella ressa intorno al buffet. Gli eroi della tragedia, che erano stati atletici e balenanti, si comportarono come matricole impacciate. Avevano giacche sportive di gusto mediocre; nes suno si curava di loro. Non mi piacerebbe, ora, indulgere a un giudizio mali gno. Sono certo che gli uo mini del nostro teatro ave vano coscienza di avere assi stito poco prima a qualcosa di raro e di degno. Nondime no ritengo che la mortificazio ne, ancorché salutare, non du rasse a lungo nei loro animi. Pochi minuti furono sufficien ti perché i nostri campioni, rifocillatisi al buffet, ritrovas sero sicurezza. Avevano ca micie con pizzi, visi floridi, voci sonore. Il confronto di retto con gli eroi di Shake speare confermava che gli at tori italiani sono i più belli e i meglio vestiti del mondo. Può darsi che gli inglesi reci tino meglio; la colpa è della tradizione. E la tradizione non è contestabile, anzi da contestare? Letto 1057 volte. Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||