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LETTERATURA: I MAESTRI: La cresta dell’onda

29 Giugno 2017

di Carlo Laurenzi
[dal “Corriere della Sera”, martedì 25 agosto 1970]

La Belle Epoque non finì nel 1914; credo proprio che sia durata fino all’altro ieri, o fino a dieci anni fa. Solo i Sessanta l’hanno uccisa.
Dieci anni fa, per esempio, partivamo da Parigi alla volta di Deauville, non immemori della proustiana Balbec, con baldanza, in un treno super-lusso e ultrarapido chiamato Train du Paradis, drappeggi azzurri ai finestrini, cromatu ­re, dorature. Si traversava la Normandia, la più materna e pacifica Francia. Facevamo sosta a Lisieux il cui tempio carmelitano sorto in onore di Santa Teresa sovrasta la linea ferroviaria con le sue cupole, ma l’incubo era provvisorio. Alla stazione di Lisieux scen ­devano i viaggiatori reietti, la mèta dei quali era Caen. Riprendevamo la corsa, e ai lati della via, sui muri dei caso ­lari campestri, si moltiplica ­vano scritte come « Fra poco a Deauville » o « Benvenuti sulla spiaggia fiorita ». Estasi e impazienza si dipingevano sui volti delle viaggiatrici. Non accadeva mai che il con ­voglio non rispettasse l’orario, eppure si aveva costantemen ­te l’impressione di arrivare in ritardo.

Poi, quand’era il momento di scendere sul marciapiede di Deauville, il cielo in quei po ­meriggi di mezza estate era violetto e lugubre come in un crepuscolo di tardo autunno (dal nostro punto di vista, o di chi ami la Costa Smeralda). La pioggia era sempre immi ­nente, umide le aiole di bosso; ma le sedie dei bar restavano sempre all’aperto. Le occupa ­vano famiglie britanniche, con la beatitudine scontrosa che hanno gli inglesi in vacanza nei paesi dell’amore e del Sud. Il termometro monumentale della « Pharmacie du Centre » segnava in media nove gradi centigradi sopra lo zero. Sulla spiaggia, lunga un chilometro e larga venti metri, ombrello ­ni multicolori cigolavano al ­l’urlo del vento. Ragazze qua ­si nude e alcuni gentiluomini rosei erano sempre sul punto di bagnarsi; il mare era verde e inquieto, estroso di gorghi. L’Hotel Normandy era un complesso di padiglioni, ciascuno dei quali sormontato da una guglia gotica, aguzza.

Il cancello del Casinò era verniciato di bianco. Al « Bar du Soleil » incontravamo soprattutto orientali. La maharani di Baroda prenotò telefo ­nicamente un tavolo da Cal ­cutta per un ballo di benefi ­cenza nelle sale del Casinò. Durante quel ballo, poi, al ­l’attrice Elvire Popesco, che si lagnava di non vendere con la celerità sperata i biglietti del ­la lotteria per il pane dei bam ­bini poveri, Hussein Pascià, uditala casualmente, si inchi ­nò mormorando: « Datemene per seicentomila franchi, si ­gnora ». A causa di ciò, Don Jaime Ramirez y Corba, desi ­deroso di sbalordire un’attrice molto più giovane di Elvire Popesco, puntò tre milioni di franchi alla roulette, in un colpo solo, sul nero. Venne il rosso, e Don Jaime sorrise.

*

Quell’estate ho pensato più di una volta alla dura estate di un uomo ritenuto frivolo.

Ricordo vivamente, nella sua stagione prospera, un qua ­dretto che mi colpì: in un caf ­feuccio di Trastevere l’uomo snello telefonava in piedi, vol ­gendo le spalle; due giovina ­stri, fra gli avventori, ammic ­cavano verso di lui divertiti. La giacca dell’uomo era la più vistosa che sia dato indossare al di qua del carnevalesco, a scacchi, purpurei e nocciola. C’era inoltre sulla testa del ­l’uomo, su quei capelli nerissimi, un berretto di gusto ot ­tocentesco, anch’esso a quadri, con un piccolo fiocco di seta: uno di quei berretti che chia ­mavano alla Sherlock Holmes, avallati per breve tempo da una moda capziosa. Nonostan ­te ciò, il riso dei giovanotti trasteverini era benevolo e quasi rispettoso, anziché bef ­fardo: la cosa mi stupì fin quando l’uomo non si volse. Quando si volse riconobbi il viso fra buffo e nobile, un Werther in caricatura, gli oc ­chi piccini e teneri, il sorriso petulante fra grinze di pena (tutto così disarmante e mu ­tevole): era Walter C., l’attor comico. Talvolta dunque mi interrogo su Walter C., e an ­che le riflessioni su un attore comico, ahimè, mi fanno per ­plesso.

Nella maggior parte dei ca ­si, sembra, la malinconia dei comici è senza mistero. Non alludo alla malinconia occa ­sionale, indubbiamente giustificata, di colui che abbia scel ­to la professione di attor comico e che, a causa della malattia di un figlioletto, righi di lacrime il suo cerone di clown: l’autore dei Pagliacci si è occupato di ciò. Alludo alla malinconia involontaria (o metafisica, come preferirei non dire) che è quasi l’ombra o il riflesso della maschera umana del comico: basta una pausa nello sproloquio di Bob Hope, e che costui fìssi con occhio vacuo la punta del pro ­prio naso, perché ci si denun ­zi la solitudine di Bob Hope, con quel suo goffo naso, fra le ragazze discinte. Il defunto Totò, il miliardario, l’impera ­tore di Bisanzio, era ancora più ovvio, se la sua smorfia durasse un attimo più del giu ­sto e si freddasse su quel men ­to di befana: non ci si rivela ­va la solitudine dell’uomo brutto ma la spaurita e catti ­va coscienza di certi napoleta ­ni famelici, giacché persino la vanità e l’amore passano in seconda linea di fronte alla fame.

Chi è invece Walter C.? Non un personaggio, certo, non una maschera. Qualcuno sostiene: è un goliardo peren ­ne. Commuove e irrita in lui la dedizione alla giovinezza. Non l’ho mai visto recitare, ma improvvisare sempre. La vanità è probabilmente il suo limite: non dimenticate che sono un bell’uomo, anzi sono un bel ragazzo, un amabile ragazzo, e che donne famose si sono prese di me â— sembra dire, strizzando l’occhio, anche dal gorgo dei suoi sketches degradanti, quando imita gli scimmioni. Non si parlò in qualche modo di un suo idil ­lio, dell’abbozzo di un suo idillio con una principessa di sangue reale?

Ha momenti di chiarezza elegante. Una volta udii un intervistatore porgli una do ­manda isterica e acuta (« In che cosa reputa Alec Guinness diverso da lei? ») e Wal ­ter C. rispondere: « In molto poco, giusto in quel poco che, se non mi mancasse, farebbe di me un grande attore ». In conversazione, Walter C. è identico a se stesso sulla sce ­na: parla molto, parla eccitatamente, e, sebbene sia fin troppo disinvolto, non è sicu ­ro. I suoi sfoghi culturali non sono persuasivi, ma fiduciosi e costanti. Eccelle in formule di umorismo provinciale, il che lo rende, ai più, irresistibile. « Lasciate che un giovane at ­tore porga i suoi complimenti devoti a un giovane regista » è capace di dire. E’ vivacissi ­mo e mobilissimo, quindi un poco stancante.

*

Da spettatore debbo comun ­que essergli grato: la sua fre ­schezza e il suo impeto sono innegabili. Nondimeno, è ve ­ro che in un senso più profon ­do le sue interpretazioni non lasciano solco; questo stupisce i critici, concordi nel ritenerlo provvisto di notevoli doti, che ha dissipato.  La mia simpatia per lui nasce proprio dalla sua sostanziale fragilità di attore. Walter C. mi interessa per questo: è un testimone, appartiene alla mia generazio ­ne scontenta, rende esteriori con generosità i nostri rovelli più fatui. Non ha mai saputo nascondere il desiderio di es ­sere amato.

Istintivamente ha scelto la via più cordiale, e la più ar ­resa, perché lo amassero: quel ­la di far ridere. E’ spiegabile che come attore si sia brucia ­to. Quando lo arrestarono, pensai a una burla; in seguito ho sofferto per lui.


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Bart