LETTERATURA: I MAESTRI: La cresta dell’onda29 Giugno 2017 di Carlo Laurenzi La Belle Epoque non finì nel 1914; credo proprio che sia durata fino all’altro ieri, o fino a dieci anni fa. Solo i Sessanta l’hanno uccisa. Poi, quand’era il momento di scendere sul marciapiede di Deauville, il cielo in quei po meriggi di mezza estate era violetto e lugubre come in un crepuscolo di tardo autunno (dal nostro punto di vista, o di chi ami la Costa Smeralda). La pioggia era sempre immi nente, umide le aiole di bosso; ma le sedie dei bar restavano sempre all’aperto. Le occupa vano famiglie britanniche, con la beatitudine scontrosa che hanno gli inglesi in vacanza nei paesi dell’amore e del Sud. Il termometro monumentale della « Pharmacie du Centre » segnava in media nove gradi centigradi sopra lo zero. Sulla spiaggia, lunga un chilometro e larga venti metri, ombrello ni multicolori cigolavano al l’urlo del vento. Ragazze qua si nude e alcuni gentiluomini rosei erano sempre sul punto di bagnarsi; il mare era verde e inquieto, estroso di gorghi. L’Hotel Normandy era un complesso di padiglioni, ciascuno dei quali sormontato da una guglia gotica, aguzza. Il cancello del Casinò era verniciato di bianco. Al « Bar du Soleil » incontravamo soprattutto orientali. La maharani di Baroda prenotò telefo nicamente un tavolo da Cal cutta per un ballo di benefi cenza nelle sale del Casinò. Durante quel ballo, poi, al l’attrice Elvire Popesco, che si lagnava di non vendere con la celerità sperata i biglietti del la lotteria per il pane dei bam bini poveri, Hussein Pascià, uditala casualmente, si inchi nò mormorando: « Datemene per seicentomila franchi, si gnora ». A causa di ciò, Don Jaime Ramirez y Corba, desi deroso di sbalordire un’attrice molto più giovane di Elvire Popesco, puntò tre milioni di franchi alla roulette, in un colpo solo, sul nero. Venne il rosso, e Don Jaime sorrise. * Quell’estate ho pensato più di una volta alla dura estate di un uomo ritenuto frivolo. Ricordo vivamente, nella sua stagione prospera, un qua dretto che mi colpì: in un caf feuccio di Trastevere l’uomo snello telefonava in piedi, vol gendo le spalle; due giovina stri, fra gli avventori, ammic cavano verso di lui divertiti. La giacca dell’uomo era la più vistosa che sia dato indossare al di qua del carnevalesco, a scacchi, purpurei e nocciola. C’era inoltre sulla testa del l’uomo, su quei capelli nerissimi, un berretto di gusto ot tocentesco, anch’esso a quadri, con un piccolo fiocco di seta: uno di quei berretti che chia mavano alla Sherlock Holmes, avallati per breve tempo da una moda capziosa. Nonostan te ciò, il riso dei giovanotti trasteverini era benevolo e quasi rispettoso, anziché bef fardo: la cosa mi stupì fin quando l’uomo non si volse. Quando si volse riconobbi il viso fra buffo e nobile, un Werther in caricatura, gli oc chi piccini e teneri, il sorriso petulante fra grinze di pena (tutto così disarmante e mu tevole): era Walter C., l’attor comico. Talvolta dunque mi interrogo su Walter C., e an che le riflessioni su un attore comico, ahimè, mi fanno per plesso. Nella maggior parte dei ca si, sembra, la malinconia dei comici è senza mistero. Non alludo alla malinconia occa sionale, indubbiamente giustificata, di colui che abbia scel to la professione di attor comico e che, a causa della malattia di un figlioletto, righi di lacrime il suo cerone di clown: l’autore dei Pagliacci si è occupato di ciò. Alludo alla malinconia involontaria (o metafisica, come preferirei non dire) che è quasi l’ombra o il riflesso della maschera umana del comico: basta una pausa nello sproloquio di Bob Hope, e che costui fìssi con occhio vacuo la punta del pro prio naso, perché ci si denun zi la solitudine di Bob Hope, con quel suo goffo naso, fra le ragazze discinte. Il defunto Totò, il miliardario, l’impera tore di Bisanzio, era ancora più ovvio, se la sua smorfia durasse un attimo più del giu sto e si freddasse su quel men to di befana: non ci si rivela va la solitudine dell’uomo brutto ma la spaurita e catti va coscienza di certi napoleta ni famelici, giacché persino la vanità e l’amore passano in seconda linea di fronte alla fame. Chi è invece Walter C.? Non un personaggio, certo, non una maschera. Qualcuno sostiene: è un goliardo peren ne. Commuove e irrita in lui la dedizione alla giovinezza. Non l’ho mai visto recitare, ma improvvisare sempre. La vanità è probabilmente il suo limite: non dimenticate che sono un bell’uomo, anzi sono un bel ragazzo, un amabile ragazzo, e che donne famose si sono prese di me â— sembra dire, strizzando l’occhio, anche dal gorgo dei suoi sketches degradanti, quando imita gli scimmioni. Non si parlò in qualche modo di un suo idil lio, dell’abbozzo di un suo idillio con una principessa di sangue reale? Ha momenti di chiarezza elegante. Una volta udii un intervistatore porgli una do manda isterica e acuta (« In che cosa reputa Alec Guinness diverso da lei? ») e Wal ter C. rispondere: « In molto poco, giusto in quel poco che, se non mi mancasse, farebbe di me un grande attore ». In conversazione, Walter C. è identico a se stesso sulla sce na: parla molto, parla eccitatamente, e, sebbene sia fin troppo disinvolto, non è sicu ro. I suoi sfoghi culturali non sono persuasivi, ma fiduciosi e costanti. Eccelle in formule di umorismo provinciale, il che lo rende, ai più, irresistibile. « Lasciate che un giovane at tore porga i suoi complimenti devoti a un giovane regista » è capace di dire. E’ vivacissi mo e mobilissimo, quindi un poco stancante. * Da spettatore debbo comun que essergli grato: la sua fre schezza e il suo impeto sono innegabili. Nondimeno, è ve ro che in un senso più profon do le sue interpretazioni non lasciano solco; questo stupisce i critici, concordi nel ritenerlo provvisto di notevoli doti, che ha dissipato. La mia simpatia per lui nasce proprio dalla sua sostanziale fragilità di attore. Walter C. mi interessa per questo: è un testimone, appartiene alla mia generazio ne scontenta, rende esteriori con generosità i nostri rovelli più fatui. Non ha mai saputo nascondere il desiderio di es sere amato. Istintivamente ha scelto la via più cordiale, e la più ar resa, perché lo amassero: quel la di far ridere. E’ spiegabile che come attore si sia brucia to. Quando lo arrestarono, pensai a una burla; in seguito ho sofferto per lui. Letto 1245 volte. Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||