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LETTERATURA: STORIA: I MAESTRI: La città di Geremia

24 Giugno 2017

di Carlo Laurenzi
[dal “Corriere della Sera”, sabato 26 aprile 1969]

Ogni qual volta mi fermo a Sovana, mi ricordo di Famagosta anzi di Magosa co ­me la chiamano i turchi. Magosa e Sovana hanno la me ­desima aria bianca: ambedue sono luoghi disfatti. Il silen ­zio di Magosa è più altero, ma la perdizione di Sovana è forse più irrimediabile.

Che importa se il mare di Cipro penetra Famagosta, che importa se un’Etruria pietro ­sa, ricca di tombe, cinge So ­vana. Ambedue sono il pas ­sato e il deserto. Ambedue, in dimensioni diseguali, sono amplissime. I ruderi di trecentosessantacinque chiese cri ­stiane, una sola delle quali mutata in moschea, si levano a Magosa. Sovana, le cui ma ­cerie permangono consacrate, ospita secondo l’ultimo com ­puto duecentoventiquattro abi ­tanti, e il suo spazio potreb ­be accoglierne diecimila. Tan ­to sterminio eccita i poeti della provincia maremmana: « Brandello d’anima a ferir l’azzurro – senza tempo af ­fondata nel silenzio – si di ­stacca la tua immobilità », co ­sì un poeta maremmano apo ­strofa la rovina del castello Aldobrandesco. I pitiglianesi, che in parte discendono da ebrei trapiantati nel secolo XV, hanno donato a Sovana una definizione biblica, « la città di Geremia ».

*

Geremia fu percosso, im ­prigionato, chiuso in una ci ­sterna fangosa; poi i babilo ­nesi tollerarono che restasse solo con gli infermi e con i poveri a piangere in una spo ­polata, offesa Gerusalemme. Ma Gerusalemme serbava un’arca, era pur sempre il ri ­chiamo, mentre le piaghe di Sovana non dolgono più.

Non ho veduto nessun luo ­go, in Italia, subire cambia ­menti di tanto poco rilievo come Sovana in questi ulti ­mi anni, così voraci. Certo, è stata costruita una scuola, orribile. Hanno aperto, nel ­l’unica via del paese, un ne ­gozio di scarpe la cui vetri ­na ha qualche presunzione. Su alcuni tetti sono spunta ­te le antenne dei televisori; la locanda ha un’insegna di ­versa. Mi sembra che il ca ­talogo delle novità si esau ­risca con queste annotazioni. Sovana è ancora tutta in quel ­la sua unica via che comin ­cia con la Rocca Aldobrandesca, si allarga nella piazza del Pretorio, si richiude, ter ­mina allo sperone dove sor ­ge il Duomo, dai lenti restau ­ri. L’aria è lattiginosa; una ruvida primavera fiorisce nei pruni.

Le case sono tutte antiche e quasi tutte cadenti. Ho l’im ­pressione che il parco mac ­chine dei sovanesi sia costi ­tuito da non più di quattro automobili. Il selciato della strada, che fu di un bel mat ­tone a spinapesce, cede ai sassi e alla polvere. Anche se i sovanesi sono tutti sugli usci, l’apparenza del paese è di vuoto. Le donne sono per lo più vestite di nero. Uno dei miei rimpianti è di non avere mai sostato abbastan ­za a lungo a Sovana per sta ­bilire un colloquio con la gente del paese: tramandano che la loro origine sia neo ­greca, giacché i granduchi medicei si adoprarono a ri ­popolare Sovana con colonie di profughi da Maina nella Morea. L’aspetto di questi abitanti è mite: l’estenuazio ­ne di Sovana, florida in epo ­ca etrusca e potente nel Me ­dioevo, si era già consumata quando i loro avi furono de ­dotti fra questi simulacri. Il dramma di una piccola Ge ­rusalemme li elude, proprio come l’agonia di Famagosta non riguarda i turchi di Magosa, eredi làceri dei conqui ­statori. Nessuna geremiade si innalza. Nessuna malinconia storicistica comporterà che si chiudano gli occhi di fronte al fatto consolante che l’este ­nuazione di Sovana, non di ­versamente dall’estenuazione di Famagosta, è la pace.

*

Per quanto mi concerne, sono solito fruire della pace di Sovana rifocillandomi all’osteria, dove ci si può nutrire di agnello arrostito sulla brace o di un pollo tiglio ­so, il buon pollo coriaceo di una volta. Ovviamente, non trascuro le risorse del pae ­saggio né quelle dell’arte: il tabernacolo della chiesa di Santa Maria, il palazzotto del ­l’Archivio, la loggia del Ca ­pitano, il duomo romanico. Quale ulteriore tributo si può pagare a un villaggio morto? Talora, capito a Sovana con amici. Qualche amico si com ­muove davanti a una soglia, una casa nera e chiusa come tante altre a Sovana. Una scritta, forse avventata, cer ­tifica che qui, in questo abi ­turo, nacque Ildebrando. Se chi si commuove non è indif ­ferente al travaglio della Chie ­sa, avviene allora che mor ­mori o esclami: « Ecco chi ci vorrebbe oggi: un nuovo Ildebrando ».

Affermazioni del genere mi rendono perplesso. Forse Il ­debrando non nacque a So ­vana; forse era di genia prin ­cipesca, forse figlio di un legnaiolo. Sicuramente fu un grande pontefice, forse il più grande. Ma la perplessità de ­riva soprattutto dal dubbio se si possa qualificare come vittoriosa o addirittura trion ­fante l’opera di Gregorio VII. Quando mi fermo a Sovana, sotto questo cielo spento, so ­no incline piuttosto a ricor ­dare quante volte â— con quanta pertinacia, con quan ­to eroismo â— Ildebrando sia stato sconfitto.

In fondo basterà che risfo ­gliamo i libri di scuola. L’umi ­liazione di Enrico IV ai piedi del Papa fu in realtà una mossa perspicace dell’Impe ­ratore, il quale aveva solo ventisette anni contro i ses ­santa dell’antagonista, ma pos ­sedeva un’astuzia indomabile. Si troverà che Canossa, ri ­portata ai problemi di oggi, conta ben poco: il cesaropa ­pismo non è di moda. Però, a proposito di certe dispute sacramentali, sembra che Gre ­gorio VII, mediocre teologo, non avesse molti argomenti da opporre a Berengario di Tours il quale negava la Tran ­sustanziazione postulando con sottigliezza che se Cristo fosse presente nell’Eucaristia dovrebbe moltiplicarsi e dista ­re dal cielo. Si obbietterà che Ildebrando lottava in nome della purezza morale prima che per l’ortodossia teologi ­ca: il nicolaismo era la sua idra. Eppure i preti decisi a prender moglie, o comunque a rivendicare il diritto a una loro dose di lussuria, non vennero esattamente debella ­ti. Ildebrando era uomo d’a ­zione e di potere: allora la sua ultima sconfitta fu la più intollerabile, giacché Ilde ­brando, pontefice di Roma, morì nell’inospite città di Sa ­lerno, in esilio.

E’ vero che, morendo, rias ­sunse la sua grandezza nella frase: Dilexi justitiam odi iniquitatem. Questa coerenza lo fasciò, per questo coraggio non si diede vinto. Ma che commentare, oggi? Uno dei miei conoscenti che si sono turbati a Sovana ha detto: « Più che a Gregorio VII, ormai la Chiesa dovrebbe sim ­bolicamente ispirarsi ad Ataturk: nello sfacelo dell’impe ­ro ottomano rimanga in piedi il troncone anatolico, purché sia vitale ».

Ecco un curioso parallelo con il mondo dei turchi, do ­po quello fra Sovana e Ma ­gosa. Debbo aggiungere che questo mio conoscente (e credo che la cosa sia intuibi ­le) è un prete. Si qualifica « contestatore di destra ».


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