LETTERATURA: I MAESTRI: La coscienza popolare12 Dicembre 2011 di Alberto Bevilacqua La cronaca dei terribili fat ti che hanno chiuso il 1969, ha proposto, tra le mille con siderazioni, anche quella sulla coscienza popolare, intenden do quest’ultima non nelle for me equivoche, della retorica o della demagogia, ma come la capacità di un popolo, appun to (o emblematicamente di un clan), di responsabilizzarsi di fronte alle minacce che si pro spettino mortali per la sua unione, di farvi muro e di tendere alla loro eliminazione. Un tipo di processo, dunque, che dallo stato di istinto col lettivo, e cioè dalla spinta quasi biologica all’autoconservazione, arriva alla psicologia e alla spiritualità, fino alla fi ducia nella convivenza e alla voglia di un’unità che non sia politica in senso specifico â— sebbene certe provocazioni possano essere politiche, an che nel senso di un rifiuto del l’arte del governo â— ma mo rale. Un’unità nel destino uma no che riguardi specificamente il clan: dal possesso dei beni alla religione.
La coscienza popolare, cer to, può scivolare facilmente nei precipizi del nazionalismo, così come può assurgere, nei casi migliori, alle conquiste sia di classe sia di quella ci viltà intellettuale che fa, di un dato periodo storico, il classico periodo d’oro. Ma è chiaro che il suo venir meno è il segno della morte, del cancro insiti nel clan stesso. La sua mancanza apre vuoti e lacerazioni, e significa che il gruppo è stanco di essere tale, non accetta più un desti no comune e tenderà a disgre garsi in sottogruppi sparsi, an che in lotta acerrima fra di loro; a meno di non essere tenuto insieme per forza, sot to il piede di una dittatura (la classica morte di una na zione). Ora, intendiamoci, la fine di una coscienza popola re può .essere provocata, nei cittadini, anche dall’illusione esasperata della sua salda esi stenza, e da un conseguente comportamento sociale che creda a tal punto nella realtà di questa illusione, da lascia re che gli individui giochino col virus, senza essere dotati concretamente dell’antidoto: fuori di metafora, con il « ba locco » della rivoluzione, aven do in materia la più totale delle confusioni e la più to tale carenza di necessità sto rica.
La domanda, dunque, che lucidamente o inconsciamente ci si è posti all’indomani di tragedie che si sono rivelate a livello di tremenda minaccia collettiva, è stata: sopravvive o no, in noi, tale coscienza popolare? I sintomi della sua crisi erano forti: esisteva, freu dianamente parlando, quell’an goscia nevrotica che appunto Freud indica come facile a passare allo sviluppo d’angoscia, cioè fino ai più atroci drammi, che sono identici sia nell’individuo sia nel clan.
I timori potevano nascere so prattutto da qui. Ma è indub bio che la cronaca dei fatti successivi a quelli delittuosi, ha dimostrato che il meccani smo di salvezza è riuscito a scattare, e che dunque la co scienza di cui discorriamo esi ste, sia pure con i limiti o le maladies che vedremo tra poco.
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Mi è capitato di pormi in terrogativi del genere già an ni fa, in occasione di qualche mio viaggio in paesi o states americani in cui questa co scienza popolare mi sembrava come dissolta o gravemente in crisi. L’impressione che dà in concreto la sua mancanza è terribile. Ricordo ad esempio Chicago, il giorno seguente ad una drammatica manifestazione di giovani, nel ’68. Ritro vo, anzi, un appunto scritto durante le primissime ore di un’alba e testualmente lo tra scrivo. Esso dice: …solo ¡eri sera dodicimila ragazzi si av ventavano per queste strade e queste piazze, che io vede vo dall’alto come ora; sem brava che un’intera popolazio ne corresse verso la piazza che si apre sotto i miei occhi e che un’autopompa lava con i suoi pennacchi candidi, tra scinando via i rifiuti di una miseria assurda, perché non si capisce da dove siano piovuti durante la notte, in mezzo al labirinto di cemento di tutte queste case da miliardari. Mi nasce un’idea magica. Che sia la ricchezza a partorire furti vamente, e nelle tenebre, la povertà e lo squallore, come una sua vergogna, e il male contrario alla sua vita, ma che la sua vita non può fare a meno di alimentare. Non si capisce da dove possa essere caduto, per esempio, quel pic colo sacco che ora un taglio d’acqua, come una lama, la cera con furia, facendone fuo riuscire delle patate, nere e gonfie di marciume, e delle mele il cui vorticare giallo impazzito compone e subito scompone sul fondo della piaz za forme di fiori grotteschi.
Come può, mi chiedo, una città simile essere capace di manifestazioni di vita talmen te remote tra di loro, senza alcun legame storico? Ai miei occhi sono apparsi, poche ore fa, dodicimila ragazzi e ragazze in una delle più scon volgenti manifestazioni di pro testa degli Stati Uniti. Ho as sistito a quella che ritenevo un’esplosione emorragica di una città, in cui pensavo coin volti tutti, sia pure in modo opposto. Sulle teste dei giova ni, tanto vive e mobili da crea re la suggestione di una co lata umana, vagavano le teste morte, fotografate e incollate ai cartelli di protesta, di ra gazzi-soldati morti nel Viet nam. Le teste morte erano mostruosamente precise, nei tratti facciali, quanto occhi, nasi, bocche si impastavano insieme, al contrario, dentro la distesa delle teste vive. Per cui ho assistito alla cosa for se più impressionante: cioè in mezzo alla fronte di un ra gazzo morto pochi mesi pri ma in battaglia, fotografato e portato in giro dai coetanei con il suo elmetto alzato alla brava, si è aperto il foro di una pallottola partita improv visamente da un’arma ignota; e la carta dell’immagine di quel morto due volte, si è squarciata di sotto: uno strap po serpentino e nero, ma la sensazione è stata che colasse dell’autentico sangue, fino al naso e al sottogola battente sulla guancia destra scura di barba…
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L’impressione di stamattina, invece, è di una Chicago che non ha mai assistito a ciò che ho descritto. Tranquille persone â— una tranquillità non semplicemente di volti e di atteggiamenti, ma di quel l’anima cittadina che fa di un individuo un uomo di una da ta città â— cominciano ad usci re dalle porte. E sono sem pre di più, anche i giovani uguali ai vecchi, e cammina no già un po’ stanchi di ciò che non hanno ancora comin ciato a fare, verso gli uffici. Sembra certo che costoro non abbiano mai visto gli altri di ieri. Come altrettanto certo sembra che la miseria lavata via nella solitudine dell’alba, in segreto nello stesso modo in cui è nata, disti migliaia di anni luce dalla città che si offre alle visioni del giorno. Richiudo la finestra e tento di dormire, con questo mio non capire che mi ossessiona come quell’assurdo geranio dietro i vetri, e devo girare la testa dall’altra parte, affondandola fortemente nel cuscino…
Ma è facile accorgersi di co me la coscienza popolare, alludo alla nostra, abbia perduto il senso del meraviglioso. Il meraviglioso è ciò che sta oltre i confini del reale; mistero che un orizzonte, qualunque esso sia, separa dall’uomo. L’occhio dell’uomo de cifra e domina razionalmente le cose fino a questo oriz zonte mentre, al di là, s’affac cia nel mare sconfinato delle ipotesi. Il concetto di meravi glioso si sposta, dunque, lun go una serie di valori e va dalla favola, che è la sua me tafora, alla speranza, alla fe licità di illudersi, via via fino all’idea di Dio. Pensiamo a ciò che rappresentava il me raviglioso per la classe popo lare: all’iroso, blasfemo o dol ce dialogo con la sorte, con il destino; alla fabulazione an che morbosa (ma affine alla favola) con il destino pari alla sfida della mano allorché scaglia i propri dadi sul ta volo. Persino uno spirito qua le Voltaire sembrava trovarsi impigliato nelle lusinghe del meraviglioso, inteso quale féisme, come fatismo, quan do scriveva: « Sembrava che a quel tempo la natura si compiacesse di creare in Francia gli ingegni più grandi di tutte le arti, riunendo a corte i più begli uomini e le più belle donne che sia no mai esistiti ». Sono parole in cui vediamo il Re Sole, il Gran Mago, gli equivoci bo schi e canali di Fontainebleau, le scuderie delle Tuileries, Perrault, le luci prospettiche di Versailles, le acque di Marly care a Saint-Simon, le por cellane del Trianon, i raccon ti di Mamma l’Oca, i ricami di Mademoiselle Lhéritier, l’erotismo malcelato nell’arca dia di Madame d’Aulnoy.
Ebbene ci serva questo ri ferimento, magari paradossale in tempi crudi come i nostri, per capire ciò che va perdendo la coscienza popolare, pur superstite nelle sue radici: cioè quel tanto di fantastico, e diciamo di poeticamente ingenuo, che soccorre l’uomo prima della rivelazione dei dolori della vita. La capacità di sperare o di illudersi insieme, se è vero che per la classe popolare il meraviglioso era provocato da sognanti aspira zioni, mentre nelle classi ari stocratiche da sognanti iden tificazioni. Insomma, siamo troppo certi di troppe cose; la fantasia ci fa paura; sem pre più concretamente avver tiamo sulle spalle l’esatto pe so dell’esistenza, talmente oc cupati a controllarlo giorno per giorno, che ogni illusione ci sembra follia. La coscienza popolare c’è, ma è diventata triste, per non dire angosciosa. Letto 1785 volte. Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||