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LETTERATURA: I MAESTRI: La guerra continua

1 Luglio 2017

di Carlo Laurenzi
[dal “Corriere della sera”, giovedì 13 gennaio 1970]

Non mi spingerei fino al punto di considerare ammi ­revole un uomo come Mauri ­ce Girodias, editore persegui ­tato e non domo di testi por ­nografici, dedito in quanto ta ­le a un’ininterrotta mansione di lenocinio; però c’è in lui, a suo vantaggio, la consape ­volezza dell’abbiezione. Giro ­dias ha riconosciuto: « Depra ­vare e corrompere è il mio mestiere ». Ecco una cosa buona, non in sé, ma per la schiettezza.

Sui motivi che l’hanno in ­dotto a scegliere un tale me ­stiere, Girodias è altrettanto esplicito: « Ho fondato l’Olympia Press, nel 1953, perché non avevo soldi e volevo far ­ne il più presto possibile ». Di schiettezza in schiettezza, la seconda confessione è meno importante della prima dal momento che ogni prosseneta agisce a scopo di lucro, anche se pochi prosseneti lo ammet ­tono con semplicità. In ogni caso, la prima delle due am ­missioni â— « depravare e cor ­rompere è il mio mestiere » â— dovrebbe impedire che si pronunciasse su Girodias una condanna troppo indignata. Costui sa dove si trova il male né si vergogna di servirlo. Non bara. Sarebbe stolto parago ­nare Girodias a Sade, la cui devozione al male era folgo ­rante, intera, aliena da ogni vanità o cupidigia di ricchez ­za. Ma la sincerità di Giro ­dias, almeno questa cinica sin ­cerità, merita che la si lodi.

*

La confusione nel campo della pornografia è la piaga peggiore, forse la sola vera piaga; si tratta di una confu ­sione che nasce dal velleita ­rismo ma soprattutto dall’ipo ­crisia. Che si filosofeggi sulla bontà del vizio non è tollera ­bile. Che il commercio si am ­manti di lirismo è ridicolo. Personalmente, se mi capita di sfogliare qualcuna delle no ­stre riviste per uomini, nulla mi dà fastidio come la prosa dannunziana (quei redattori restano fermi a un D’Annun ­zio di maniera) che celebra le fotografie delle modelle nude, attrici « scatenate » o tristi, modelle professionali dal seno cadente. Tutto sarebbe accettabile â— la pornografia come ogni altra miseria â— se le cose fossero dette con chiarezza: in questa esigenza, sempre più delusa, dovrem ­mo ricordarci di Confucio. In ­vece si bara. Lungi dal recla ­mare una ragionevole tolle ­ranza sulle debolezze umane in un’età di confusione e ma ­lessere, si punta sull’erotismo come lavacro e riscatto. Ed è inutile che mi dilunghi su ciò: tutti abbiamo occhi e orecchi; nessun appello ci è rispar ­miato affinché ci si glori di avere recuperato la dimensio ­ne del paganesimo (e questo passi), ma soprattutto ci si consoli per avere raggiunto la redenzione (la Salvezza) at ­traverso l’abbandono all’eroti ­smo. Non c’è specchio che non rifletta l’immagine di Freud. Non c’è specchio che non sia infranto, in realtà.

Molti credono di star vi ­vendo una grande vita. La pa ­rola d’ordine è che la porno ­grafia non debba chiamarsi pornografia ma liberazione: liberazione dai tabù, dai cep ­pi, dai malintesi: liberazione che promuova l’« inverarsi to ­tale » dell’uomo. Il nostro Re ­gno è qui. Non serve l’im ­peto moralistico contro la fre ­nesia; d’altronde anche il mo ­ralismo è sospetto. Ma ci sgo ­menta la vastità come un oceano oleoso dell’inintelligenza e della mala fede, così facilmente associabili. E il provincialismo italiano nel ri ­masticare i luoghi comuni!

Le donnette che si presu ­mono scrittrici e rivendicano la dignità liberatrice del tur ­piloquio. I vecchi romanzieri che, atterriti dal proprio decli ­no, avallano la teoria di tut ­te le lussurie. Libertà di, li ­berazione da. Le nostre gab ­bie non chiudono che pappa ­galli. O qualche iena, con qualche contraddizione appa ­rente: nel mondo capitalistico libertà di e liberazione da; nel mondo rosso è giusto che imperino la rozzezza, la pu ­rezza e il rigore. La vocazio ­ne accademica tiene duro, pre ­costituisce l’alibi. Se il rosso vince, i pappagalli dionisiaci inneggeranno al Lavoro.

Intanto qui, nella palude italiana, si inneggia (per esempio) a Kenneth Tynan. Sei stato a Nuova York, hai visto « Oh, Calcutta »? Ecco davvero uno spettacolo dissa ­crante, quindi liberatorio. E che lezione per Nixon, e che rampino verso l’avvenire. Tut ­ti nudi sulla scena, uomini e donne. E quali atteggiamenti inequivocabili, e quale cali ­brata follia; e che saggezza nell’audacia. No, purtroppo, non vedremo « Oh, Calcut ­ta » a Milano o a Roma o a Spoleto. Appaghiamoci di meditare sui detti memorabi ­li di Kenneth Tynan:

« Io non cadrò mai nella trappola di chi sostiene che la pornografia è difendibile solo quando è qualificata co ­me arte. E’ difendibile di per se stessa, senza preoccuparsi se sia o no arte, se sia bene o male scritta. La libertà di scrivere di sesso deve inclu ­dere la libertà di scrivere male… Penso piuttosto ai manuali militari sull’uso delle baionette e piccole armi, che insegnano come infliggere le ferite più dolorose e raffinate per la maggior gloria del vo ­stro paese. Disprezzo questi libri e mi ripugna che esista gente a cui piace leggerli ».

Non ti porre quesiti sulla speciosità di questa contrap ­posizione, non obbiettare che di solito coloro i quali diffi ­dano della pornografia evita ­no altresì di compiacersi del ­la prospettiva di infliggere ferite con baionette e piccole armi. Se obbietti sei out; con Tynan vinci. Nessuno più di lui deve ritenersi liberato da e libero di. I nostri comples ­si sono stati esorcizzati da Kenneth Tynan; chiniamo le fronti.

*

Chi l’avrebbe previsto; il mio ricordo privato di Tynan è lancinante. Lo conobbi a Venezia, a un festival del ci ­nema, alcuni anni or sono. Per mezzo di una ragazza assai faccendiera, chiese di incontrarmi; un appuntamen ­to venne fissato al bar dell’Excelsior. Tynan si presen ­tò accompagnato da una don ­na ironica ma preoccupata, che credo fosse sua moglie. Lui era molto inglese, di un certo genere: dinoccolato, mol ­le, biondastro, con un panciot ­to a fiori, gli occhi bianchi, il volto delicato pronto ad avvampare di un color roso ­laccio. Ci sedemmo a un ta ­volo; c’era una bottiglia di whisky sul tavolo e Tynan sorrideva in modo cerimonio ­so, senza parlare. L’aggettivo « lancinante » si giustifica per ­ché, a un certo punto, Tynan parlò. Doveva parlare per chiedermi tre cose tranquille (utili a una sua indagine sul festival): se avevo assistito a parecchi festival; se a mio parere ci fosse una « capar ­ra » comunista sul medesimo festival; che cosa pensavo del signor Chiarini, direttore del festival. Ebbene, ogni mia esperienza sulla balbuzie e sui balbuzienti fu sconvolta. Ho colloquiato con balbuzienti subdoli, abilissimi a inventa ­re dieresi per prendere fiato, e con balbuzienti arresi e in ­guaribili, che debbono aggi ­rarsi muniti di taccuini. Mai avevo immaginato che esi ­stessero balbuzienti della fo ­ga e del furore di Tynan. Sudammo freddo in tre. La donna, che credo fosse sua moglie, pianse.

Non saprei rievocare quel ­lo spettacolo â— cui forse con ­verrebbe ancora la nefasta minuziosità zoliana â— se non per accenni. Le domande di Tynan, in linea di massima, erano formulate in inglese; ma i do e i what iniziali fu ­rono scogliere allucinanti con ­tro cui la tempesta spumeg ­gia e si infrangono navi. A causa di ciò, ma con risultati altrettanto severi, l’eloquio di Tynan si volse al francese e a uno spagnolo approssi ­mativo, nella speranza che quegli idiomi più molli con ­sentissero approdi. Si tornò all’inglese; Tynan impiegò non meno di sette minuti per pro ­nunciare la frase « What do you think about signor Chia ­rini », e quell’about (oh quell’about!) fu simile a una tor ­re altissima nel deserto, ag ­gredita da centinaia di la ­trati.

Debbo aggiungere che Ty ­nan rifiutava i suggerimenti: « about » ripetevamo melli ­flui la moglie di Tynan ed io; « a, a, a, a », si ostinava Ty ­nan con viso torvo. La scena era violenta. L’uomo strabuz ­zava gli occhi, si era allen ­tato il nodo della cravatta, batteva i denti, schiumava, tremava. Ricorse a espedienti miserabili: più volte finse di manovrare il cambio di una motocicletta, o di premere col piede sul freno di un’automobile, o di assistere a una sfilata di truppe gridando « urrà » e portando la mano destra a un’immaginaria visiera di colonnello. Si concesse intermezzi cantati (motivi degli anni trenta, come Blue Moon e all’improvviso, con limpidezza, recitò un brano di Shakespeare: era noto, del resto, che possedesse una specifica competenza scespiriana. Le mie risposte, che furono ovattate e costernate, non lo interessarono affatto; nulla lo interessava se non la sua lot ­ta col dèmone. Gli antichi aruspici avrebbero tratto vati ­cini da quel delirio. Un esor ­cista cattolico, non so se ce ne siano ancora, sarebbe sta ­to volto in fuga. Quanto agli psicanalisti, mi piacerebbe sapere da loro se, balbettan ­do come Tynan, si possa proprio considerare liberati da e liberi di; o se la guerra continui.


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Bart