LETTERATURA: I MAESTRI: Piccolo viaggio in Italia4 Luglio 2017 di Carlo Laurenzi A moltissimi è accaduto di non trovare una camera in albergo e di dover dormire su un biliardo (questo avveniva piuttosto ai viaggiatori delle generazioni passate) o in una stanza da bagno: fino a poco tempo fa mi reputavo ecce zionalmente fortunato perché, pur viaggiando abbastanza spesso, non avevo mai subita un’esperienza del genere. Ora, ho perso anch’io questa pal ma. Il pernottare in una stan za da bagno comporta qual che emozione; confesso che prima di addormentarmi mi son sentito turbato, in qual che modo, e felice, quasi co me quando da ragazzo presi posto per la prima volta in una cabina di vagone-letto. Ciò non significa che l’e sperienza dell’aver dormito nel bagno sia stata del tutto po sitiva. Mi ha colpito che la direzione dell’albergo di cui sono stato cliente affitti le stanze da bagno con una di sinvoltura la quale, senza dub bio, esula da ogni concetto di provvisorietà. La stanza da bagno che mi fu destinata si fregiava del nome fastoso di «Appartamento B-7 ». Mi ven ne consegnata una chiave mas siccia ed artistica; la mattina dopo, la somma che pagai per l’appartamento B-7 fu esosa. Non è da escludere nemmeno che il montare reti metalliche su tinozze anziché su caval letti costituisca un ripiego uti le, dal punto di vista fiscale. L’albergo in questione era un albergo di categoria lusso, in una metropoli del Sud. * Ancora nel Sud: sempre più persuaso che la cosiddetta vita di spiaggia non migliori gli uomini, registro qui una mia esperienza balneare nell’anti co reame delle Due Sicilie. Al l’amico di cui ero ospite dissi veridicamente: il vostro sole, senza dubbio, è di ottima qua lità. Inoltre, la cittadina nella quale trascorsi il week-end of fre notevoli panorami. L’architettura romanica ha lasciato tracce in quel luogo; la cattedrale alta sulle rocce, e immensa, incatena i pensie ri. Il porto, verso cui si scen de per vicoli febbrili, è chiuso come un bacino lacustre, cupo d’acque, vuoto. Edifici anti chissimi, fortezze o fondachi, si specchiano in quel mare, lungo la banchina a forma di semicerchio. Il silenzio è som mo. Dicono che secche a fior d’acqua, proprio all’imbocca tura del bacino, vietino l’ap prodo alle navi; in altri tempi dovettero esistere piloti più abili se da qui, come vuole la storia, salpò una Crociata. Ho fantasticato nelle ore crepuscolari, standomene sulla banchina del porto; credo che le mie fantasticherie siano sta te abbastanza vicine a quelle dei turisti tedeschi, fantasti cherie gotiche. Ciò che conta è come, nel verde crepuscolo, sorgesse sbigottita la luna. Un castello, simile a un nido di rapace, mi sovrastava. Sulla spiaggia, nel mattino leggero, altre considerazioni mi hanno reso dubbioso. E’ una piccola, sottile spiaggia che, in un’altra luce, sarebbe apparsa trascurabile; il blu del maestrale la faceva, a pri ma vista, quasi festosa. La cir condano e fronteggiano pro montori di tufo, brulli. Una parte del lido, la meglio cu rata, è monopolio dell’Eserci to, con un settore per gli uf ficiali e un settore per i sot tufficiali, altoparlanti, musi che, poltroncine, bibite, e at tendenti in canottiera adibiti a scacciare gli intrusi. Nella spiaggia pubblica è un certo numero di cabine con balau stra, appannaggio dei cittadini più ricchi. Addossata a una balaustra si esibiva, guardata con desiderio e con scherno, una donna bionda, molto pro sperosa, in bikini. Le altre cabine sono più modeste; sui pavimenti si ac cumula la rena degli anni. La sorvegliante delle docce è una contadina con un camice bian co, non esattamente nitido, sui poveri panni scuri. Non ho visto bagnini. L’arenile era popolato di giovani la cui mansione o condanna consi steva nel giocare al calcio. Erano neri, ventruti e pelosi, con l’atteggiamento di chi ap partiene a una classe alta: si sfidavano in torme di sedici contro sedici, saltavano, urla vano, colpivano la palla con furia. Non ridevano mai. A parte i ricchi protetti dalle lo ro balaustre, la spiaggia stava in loro balia. La bolgia inti moriva i bambini, le poche donne, gli anziani, ma non ho udito proteste. Violenza e inerzia regnavano. Io ero solo, non scortato da nessun citta dino illustre. * La sera della domenica fra le sei e le sette, in una città toscana, ho rivisto infine il « passeggio » come ai vecchi tempi. La gente passeggia fit tissima per il corso, che brilla di troppo neon ed è chiuso al traffico automobilistico in que ste ore, tranne che al filobus. Di cinque minuti in cinque minuti il bestione si affaccia sbuffando; la calca si allarga e impreca; il manovratore, dall’alto della cabina, ci do mina con occhi vuoti. La folla, dopo l’irruzione del filobus, si ricompone vischiosamente, si urta, si com penetra di nuovo, dilaga. Co me è ovvio, secondo la rego la del passeggio festivo in provincia, vi sono due cor renti di passeggiatori, in su e in giù, fra la piazza della sta zione e il ponte sul fiume. I crocchi che si fermano per salutarsi, o per beffarsi, crea no ingorghi nel flusso. Altri ingorghi nascono a causa dell’attrazione esercitata dalle luminarie dei cinema. Si nota no file, e perfino resse, sulle soglie dei piccoli caffè. Mai visti bar così presi d’assalto; si capisce che per molti questo cappuccino, que sto vermut trangugiati al ban cone costituiscono un rito del la domenica. Fa freddo. I gio vani hanno il bavero dell’im permeabile rialzato e gli oc chi rossi di polvere. Nulla tut tavia in questo clima è tanto immite da far dimenticare, re mota ma presente, la miseri cordia marina. Ricordo che per molti anni (cioè: non molti, ma lunghissimi e quasi immobili, gli anni dell’adole scenza) un passeggio simile a questo, una primavera e un odore simili a questi furono la mia domenica, recando l’ansia e la gioia. Anche qui, stasera, senza pietà, i passeggiatori sono per la maggior parte giovani, po co più che ragazzi. Parlano alto, con le loro voci ruvide; e gridano frasi screanzate. Eppure so come fermenti in loro il refrain del film che hanno visto, o l’immagine di un bacio, e come tutto que sto sia puro; so bene come avvengano i miracoli. Gli sguardi delle ragazze traboc cano d’astuzia e d’amore. Io non guardo nessuno; non co nosco nessuno. C’è una chiesa sul Corso; credo che si chiami il Car mine, e ha la facciata buia. Entro. Vi si officia un rito che da ragazzi eravamo soliti fre quentare, una novena; aveva mo così pochi svaghi. Questa chiesa del Carmine, stasera, è quasi deserta. Qualche don na, pochissimi uomini anzia ni, un vecchio con la papali na, due preti in funzione di ascoltatori. Nel silenzio e nel tedio, dall’altare, un predica tore parla. Vorrei che mi scuotesse; al contrario mi ir rita. Il suo tono, sgradevol mente romagnolo, è sibilante: il microfono non lo aiuta. Davvero Dio decade? Co loro che « praticano », qui, sono sempre meno. O più semplicemente, vitalisticamente, la gente fuori, i giovani che passeggiano fuori, a loro modo, glorificano Dio? La sciocca televisione, il cinema, l’affanno di una platea do menicale se una ballerina ir rompe impudica sul palcosce nico, il rancore delle partite di calcio, un bacio rubato, un goffo abbraccio sul gre to del fiume, il vantarsi di un’avventura non esistita, una sbornia di cattivo cognac, ciò glorifica Dio? Vorrei negarlo; l’invidia mi spinge a negarlo. Come sono lontani da me i loro diciott’anni, la vita. Letto 1093 volte. Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. 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