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LETTERATURA: I MAESTRI: Piccolo viaggio in Italia

4 Luglio 2017

di Carlo Laurenzi
[dal “Corriere della Sera”, giovedì 11 settembre 1969]

A moltissimi è accaduto di non trovare una camera in albergo e di dover dormire su un biliardo (questo avveniva piuttosto ai viaggiatori delle generazioni passate) o in una stanza da bagno: fino a poco tempo fa mi reputavo ecce ­zionalmente fortunato perché, pur viaggiando abbastanza spesso, non avevo mai subita un’esperienza del genere. Ora, ho perso anch’io questa pal ­ma. Il pernottare in una stan ­za da bagno comporta qual ­che emozione; confesso che prima di addormentarmi mi son sentito turbato, in qual ­che modo, e felice, quasi co ­me quando da ragazzo presi posto per la prima volta in una cabina di vagone-letto.

Ciò non significa che l’e ­sperienza dell’aver dormito nel bagno sia stata del tutto po ­sitiva. Mi ha colpito che la direzione dell’albergo di cui sono stato cliente affitti le stanze da bagno con una di ­sinvoltura la quale, senza dub ­bio, esula da ogni concetto di provvisorietà. La stanza da bagno che mi fu destinata si fregiava del nome fastoso di «Appartamento B-7 ». Mi ven ­ne consegnata una chiave mas ­siccia ed artistica; la mattina dopo, la somma che pagai per l’appartamento B-7 fu esosa. Non è da escludere nemmeno che il montare reti metalliche su tinozze anziché su caval ­letti costituisca un ripiego uti ­le, dal punto di vista fiscale. L’albergo in questione era un albergo di categoria lusso, in una metropoli del Sud.

*

Ancora nel Sud: sempre più persuaso che la cosiddetta vita di spiaggia non migliori gli uomini, registro qui una mia esperienza balneare nell’anti ­co reame delle Due Sicilie. Al ­l’amico di cui ero ospite dissi veridicamente: il vostro sole, senza dubbio, è di ottima qua ­lità. Inoltre, la cittadina nella quale trascorsi il week-end of ­fre notevoli panorami.

L’architettura romanica ha lasciato tracce in quel luogo; la cattedrale alta sulle rocce, e immensa, incatena i pensie ­ri. Il porto, verso cui si scen ­de per vicoli febbrili, è chiuso come un bacino lacustre, cupo d’acque, vuoto. Edifici anti ­chissimi, fortezze o fondachi, si specchiano in quel mare, lungo la banchina a forma di semicerchio. Il silenzio è som ­mo. Dicono che secche a fior d’acqua, proprio all’imbocca ­tura del bacino, vietino l’ap ­prodo alle navi; in altri tempi dovettero esistere piloti più abili se da qui, come vuole la storia, salpò una Crociata.

Ho fantasticato nelle ore crepuscolari, standomene sulla banchina del porto; credo che le mie fantasticherie siano sta ­te abbastanza vicine a quelle dei turisti tedeschi, fantasti ­cherie gotiche. Ciò che conta è come, nel verde crepuscolo, sorgesse sbigottita la luna. Un castello, simile a un nido di rapace, mi sovrastava.

Sulla spiaggia, nel mattino leggero, altre considerazioni mi hanno reso dubbioso. E’ una piccola, sottile spiaggia che, in un’altra luce, sarebbe apparsa trascurabile; il blu del maestrale la faceva, a pri ­ma vista, quasi festosa. La cir ­condano e fronteggiano pro ­montori di tufo, brulli. Una parte del lido, la meglio cu ­rata, è monopolio dell’Eserci ­to, con un settore per gli uf ­ficiali e un settore per i sot ­tufficiali, altoparlanti, musi ­che, poltroncine, bibite, e at ­tendenti in canottiera adibiti a scacciare gli intrusi. Nella spiaggia pubblica è un certo numero di cabine con balau ­stra, appannaggio dei cittadini più ricchi. Addossata a una balaustra si esibiva, guardata con desiderio e con scherno, una donna bionda, molto pro ­sperosa, in bikini.

Le altre cabine sono più modeste; sui pavimenti si ac ­cumula la rena degli anni. La sorvegliante delle docce è una contadina con un camice bian ­co, non esattamente nitido, sui poveri panni scuri. Non ho visto bagnini. L’arenile era popolato di giovani la cui mansione o condanna consi ­steva nel giocare al calcio. Erano neri, ventruti e pelosi, con l’atteggiamento di chi ap ­partiene a una classe alta: si sfidavano in torme di sedici contro sedici, saltavano, urla ­vano, colpivano la palla con furia. Non ridevano mai. A parte i ricchi protetti dalle lo ­ro balaustre, la spiaggia stava in loro balia. La bolgia inti ­moriva i bambini, le poche donne, gli anziani, ma non ho udito proteste. Violenza e inerzia regnavano. Io ero solo, non scortato da nessun citta ­dino illustre.

*

La sera della domenica fra le sei e le sette, in una città toscana, ho rivisto infine il « passeggio » come ai vecchi tempi. La gente passeggia fit ­tissima per il corso, che brilla di troppo neon ed è chiuso al traffico automobilistico in que ­ste ore, tranne che al filobus. Di cinque minuti in cinque minuti il bestione si affaccia sbuffando; la calca si allarga e impreca; il manovratore, dall’alto della cabina, ci do ­mina con occhi vuoti.

La folla, dopo l’irruzione del filobus, si ricompone vischiosamente, si urta, si com ­penetra di nuovo, dilaga. Co ­me è ovvio, secondo la rego ­la del passeggio festivo in provincia, vi sono due cor ­renti di passeggiatori, in su e in giù, fra la piazza della sta ­zione e il ponte sul fiume. I crocchi che si fermano per salutarsi, o per beffarsi, crea ­no ingorghi nel flusso. Altri ingorghi nascono a causa dell’attrazione esercitata dalle luminarie dei cinema. Si nota ­no file, e perfino resse, sulle soglie dei piccoli caffè.

Mai visti bar così presi d’assalto; si capisce che per molti questo cappuccino, que ­sto vermut trangugiati al ban ­cone costituiscono un rito del ­la domenica. Fa freddo. I gio ­vani hanno il bavero dell’im ­permeabile rialzato e gli oc ­chi rossi di polvere. Nulla tut ­tavia in questo clima è tanto immite da far dimenticare, re ­mota ma presente, la miseri ­cordia marina. Ricordo che per molti anni (cioè: non molti, ma lunghissimi e quasi immobili, gli anni dell’adole ­scenza) un passeggio simile a questo, una primavera e un odore simili a questi furono la mia domenica, recando l’ansia e la gioia.

Anche qui, stasera, senza pietà, i passeggiatori sono per la maggior parte giovani, po ­co più che ragazzi. Parlano alto, con le loro voci ruvide; e gridano frasi screanzate. Eppure so come fermenti in loro il refrain del film che hanno visto, o l’immagine di un bacio, e come tutto que ­sto sia puro; so bene come avvengano i miracoli. Gli sguardi delle ragazze traboc ­cano d’astuzia e d’amore. Io non guardo nessuno; non co ­nosco nessuno.

C’è una chiesa sul Corso; credo che si chiami il Car ­mine, e ha la facciata buia. Entro. Vi si officia un rito che da ragazzi eravamo soliti fre ­quentare, una novena; aveva ­mo così pochi svaghi. Questa chiesa del Carmine, stasera, è quasi deserta. Qualche don ­na, pochissimi uomini anzia ­ni, un vecchio con la papali ­na, due preti in funzione di ascoltatori. Nel silenzio e nel tedio, dall’altare, un predica ­tore parla. Vorrei che mi scuotesse; al contrario mi ir ­rita. Il suo tono, sgradevol ­mente romagnolo, è sibilante: il microfono non lo aiuta.

Davvero Dio decade? Co ­loro che « praticano », qui, sono sempre meno. O più semplicemente, vitalisticamente, la gente fuori, i giovani che passeggiano fuori, a loro modo, glorificano Dio? La sciocca televisione, il cinema, l’affanno di una platea do ­menicale se una ballerina ir ­rompe impudica sul palcosce ­nico, il rancore delle partite di calcio, un bacio rubato, un goffo abbraccio sul gre ­to del fiume, il vantarsi di un’avventura non esistita, una sbornia di cattivo cognac, ciò glorifica Dio? Vorrei negarlo; l’invidia mi spinge a negarlo. Come sono lontani da me i loro diciott’anni, la vita.


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