LETTERATURA: I MAESTRI: Lettori che scrivono27 Settembre 2018 di Roberto Ridolfi Scrivere solamente per i po steri, dopo che per se stesso, senza comunicare pagina scrit ta ad anima viva: c’è chi l’ha fatto, anche tra i grandi; oggi non so quanti più lo farebbe ro: seminare senza raccoglie re, grano o zizzania che sia. I posteri, una folla lontana, senza nomi e senza volti: chi scrive non sa quali saranno i loro gusti, non conoscerà i loro giudizi. Ma una folla senza nomi e senza volti paiono a chi scri ve anche i lettori del proprio tempo. I lettori non sono co me spettatori in teatro: lo scrittore non ne riceve i con sensi o i dissensi; manca fra lui e loro una comunicazione diretta, se i lettori non scri vono allo scrittore. Lo fece quel tale che, dopo la lettura delle Odi barbare, mandò al Carducci quattro versiccioli parodianti certe trasposizioni care al poeta: Cinque m’hai fatto spendere, / caro Car ducci, lire: / cinque mi devi rendere / che m’hai rubato li re. Consensi e dissensi, perfi no quelli espressi in modo così poco esemplare, è bene che non manchino a chi scri ve: serviranno, se non altro, a popolare la sua solitudine. * Scrivere a chi scrive è ap punto il titolo di un’inchiesta che Giulio Nascimbeni pub blicò sul Corriere l’anno pas sato. Sette scrittori nostri, fra i più noti, affrontarono que sta materia dei rapporti epi stolari coi loro lettori, facen doci sapere « di che lettere si tratta, quante sono, chi le scri ve ». Ne vennero fuori delle confessioni singolari, nelle quali, naturalmente, ciascuno di essi infuse molto dei pro pri umori. Uno, per esempio, il più famoso di tutti, disse di ricevere « pochissime lettere, forse una ventina all’anno o anche meno. Scrivono: lettori che chiedono soldi (…); let tori che mi odiano, con let tere piene di parolacce ». A me, per fortuna, soldi non ne hanno mai chiesti: forse hanno fiutato che nelle tasche mie sono di passo ed è molto difficile che ve ne al berghi qualcuno; ciò confer ma una volta di più l’intelli genza e la sensibilità dei let tori. Né ho mai ricevuto pa role d’odio, non essendo tan ta la mia statura da suscitare sentimenti del genere: tutt’al più, antipatia. Parolacce, eh sì, o per dir meglio parole ingiuriose: ne ho ricevute due volte. La prima mi toccò proprio per il primo elzeviro man dato al Corriere, or sono undici anni. Quella prosa inaugurale s’intitolava Il Sa vonarola e gli altari e, per ché in essa dicevo (cosa piut tosto nota) che il Frate era stato bruciato, un anonimo mi scrisse: « Per sua regola, il martire non è stato bruciato, ma arso: vivo. Lei è un im becille ». Confesso che ci ri masi male: lì per lì, non gu stai forse a dovere la sottile differenza fra i due sinonimi; d’altra parte, la notizia inedi ta mi folgorò: arso vivo. Ca pirete, proprio io, specialista, ricevere una simile lezione dal primo venuto! E confesso che m’affrettai a nascondere la let tera più profondamente che seppi, per via di quel com plimento poco onorifico. Non mi parve di buon augurio: qui si comincia male, pensai. La seconda volta fu un paio d’anni dopo. In un elzeviro, Come le foglie, accennavo per la medesimezza del titolo alla « appassita commedia del po vero Giacosa ». Non l’avessi mai fatto! Un altro anonimo (se poi non era lo stesso) mi scrisse inferocito: «Si vergo gni! Per sua regola, Giacosa è uno dei più grandi scrittori italiani. Lei è un imbecille ». E due. Si dice che non c’è due sen za tre; ma in verità (facendo gli scongiuri del caso) il ter zo imbecille non s’è ancora fatto avanti. E se venisse fuo ri ora, dopo tanti anni, così evocato o provocato, pazien za. Con le parolacce, dunque, sono a questo punto. Parole agre o agrodolci ne ricevo, ma poche: diciamo due o tre volte l’anno, fra le centinaia di lettere che mi vengono in dirizzate a casa, al giornale e presso gli editori; parole di dissenso garbato, su questo o su quello. L’ultima volta è sta to perché avevo detto « stu pende » due gambe femminili « lunghe, sottili ». Be’, que stione di gusti: si vede che i miei sono pervertiti. E così via. Qualcuno moraleggia; al tri prende sul serio cose dette per burla; altri, per oro cola to certi miei rabeschi e ghi rigori fantastici. Ci sono poi lettere, a dir poco, bizzarre: tanto bizzar re che, a prima vista, vien fatto di prenderle per corbel lature. Per esempio uno, dalla Riviera ligure, testualmente scriveva: « Sono un assiduo lettore della terza pagina del Corriere, specie degli elzeviri. M’è entrata nella testa l’idea che qualcuna delle seguenti firme sia uno pseudonimo e che si tratti in verità di una sola persona: Carlo Laurenzi, Indro Montanelli, Roberto Ridolfi. Se è così, non sarebbe meglio che gli articoli portas sero tutti la stessa firma? ». Mah, per ciò che mi riguarda, posso anche starci; bisogna vedere se ci stanno i colleghi: temo proprio che no. Un po’ dello stesso genere quest’altra da Varese: « Sba glierò, ma è probabile che la firma posta sotto il dialoghetto II libro e il lettore sia un lapsus. Mi sembra piuttosto un discorsetto fattomi da IN DRO. Io mi chiamo IUNIO. Tre lettere che formano il mio nome, I, N, O, sono in co mune con quello di Monta nelli: dunque collimiamo per tre quinti. Siccome ho poca salute, mi sarebbe gradito che Lei, cioè il Montanelli se la mia ipotesi sia esatta, mi ve nisse a trovare ». Seguivano saluti, firma, indirizzo e per fino il numero del telefono. Sulla busta c’era il mio nome e l’indirizzo del giornale. Il mittente credeva di fare al presunto vero autore una sor presa, ammiccandogli furbe scamente: ti conosco, masche rina. * Per me, le lettere dei let tori sono boccate d’aria buo na: quando scarseggiano, mi pare appunto che l’aria mi venga a mancare. Se dopo uno di questi elzeviri ne rice vo meno del solito, mi ven gono le ideacce: comincio a pensare che non sono più quello, che invecchio, che so no venuto a noia. E, almeno come scrittore, mi par di morire. Al contrario, mi sento rina scere quando i lettori che mi scrivono passano il solito fatal numero di venticinque. An che questa medaglia ha però il suo rovescio: dopo le prime allegrezze sopravvien lo sgomento. Non rispondere ripugna alla buona creanza e può far perdere proprio i lettori migliori, quelli che scrivono, o far perdere a loro il gusto di scrivere: che sarebbe poi come averli perduti. D’altra parte, se dovessi rispondere a tutti, non mi resterebbe il tem po di scrivere altro e i lettori li perderei lo stesso, facendo mancar loro che leggere. Non potendo a ciascuno, vorrei con queste parole rispondere a tutti. Ho detto che, per chi scri ve, i lettori non hanno nomi né volti; ed è, almeno per me, un’emozione che si ripete ogni volta quando un fascio di que ste lettere rinnova il miraco lo: dalla folla, muta confusa indistinta, si levano delle voci, si palesano dei nomi, si af facciano dei volti. Rivedo uscir da una busta, il visino grazioso di una studentessa contestatri ce, che invece di contestar le mie prose se ne compiaceva. Mi raccontava i mille casi di progetti piuttosto confusi di ri forme didattiche e di « contro corsi ». Aveva un nome bellis simo: si chiamava Aura; non s’è più fatta viva, come molte altre, dopo quel mio elzeviro intitolato Settanta. E altri volti, altri nomi. Due lettrici mi mandarono un di segnino acquerellato: due bim be sgambettanti, sollevate in alto da un volo di palloncini; e su ciascuno era il titolo di un mio elzeviro o di un libro. Un noto scrittore mi spedisce un telegramma in versi per ogni prosa che pubblico. Un lettore fervoroso vorrebbe, po vero lui, aumentare lo smer cio dei miei prodotti letterari applicandovi la sua esperien za commerciale e la sua vul canica efficienza di meridio nale milanesizzato. Una signo ra bolognese mi fa le predi che perché risparmi occhi e salute; e me le fa a nome di uno dei miei personaggi, la signora Benedettini, fingendo si una sua reincarnazione. Le donne sono le più cu riose: tempestano di doman de, vogliono sapere questo e quello, come scrivo, come vi vo. Sono sensibili ed espan sive; spesso, materne: anche quelle che potrebbero essermi figliole o addirittura nipoti. Tra gli uomini, mi stupiscono piacevolmente certi giovani, studiosi e pensosi, che espri mono in modo meno poetico concetti non molto dissimili da quello raffigurato dai pallon cini. Leggo nella lettera d’un milanese: « Lei è il mio più grande amico »; forse è vero: me, almeno, non mi conosce. E poi, lettere in lode delle pagine semplici e chiare, do po tante macchinose ed oscure che oggi si leggono; lettere che chiedono contravveleni contro i veleni che inquinano la vita, l’arte, la letteratura e perfino la poesia: lettere che ringraziano, lettere che bene dicono. Benedicono ogni scrittore che non opprima i loro animi oppressi, che non affa tichi anche le ore del loro ri poso, che non intorbidi quel poco che ci resta di limpido. E allora, dico io, siano bene detti a loro volta quei lettori che scrivono per dare a chi scrive il coraggio e la forza di andare contro la corrente della grande cloaca.
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