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LETTERATURA: I MAESTRI: La scala a chiocciola

8 Maggio 2018

di Mosca
[dal “Corriere della Sera”, giovedì 6 marzo 1969]

Il passaggio avvenne con estrema semplicità, fu improvviso e piacevole. M’ero da qualche anno ritirato a V., e tutte le mattine facevo lun ­ghe passeggiate per mantene ­re il corpo agile e il sangue fluido, mi lasciavo alle spalle il paese, e dopo aver percor ­so un tratto di strada abban ­donata, sempre più invasa da erbacce e da radici, prendevo un giorno l’uno, un giorno l’altro dei molti sentieri che se ne partivano, il più caro dei quali m’era quello che aveva la vita più breve.

Difatti dopo neppure un chilometro moriva nei campi, d’estate mi piacevano le fre ­sche frustate dell’erba alta, quella che, da fanciullo, mi frustava, anziché le gambe, il viso, gridavo, correvo, mi la ­sciavo cadere come in un ma ­re, nuotavo suscitando spruz ­zi di grilli e di cavallette. Da vecchio, visto da nessuno, ri ­petevo gli antichi gridi, ac ­cennavo alle antiche corse, subito m’arrestavo per conte ­nere il martellare del cuore.

Dopo l’erba alta, s’apriva un prato con pochi alberi, verdissimo, freschissimo, at ­traversato da un ruscello che pochi larghi sassi permetteva ­no di passare comodamente anche alle mie non più sicure gambe. Su quelle rive mi fer ­mavo a guardare la mia im ­magine sempre più piccola e curva, poi mi dirigevo verso un bosco di castagni tutto vi ­brante di luci e d’ombre sul soffice muschio del cui fondo mi sedevo e fantasticavo quel poco che da vecchi è ancora possibile fantasticare.

*

La mattina in cui avvenne il passaggio stavo movendo, appunto, verso il bosco quan ­do vidi, e quasi gli caddi ad ­dosso, perché ero contro sole, un giovane molto garbato che mi fece segno di no, di non andare dov’ero solito, ma di seguirlo verso una fonte la cui polla s’allargava silenziosa in trasparente laghetto, meta, una volta, di ragazzi che vi ba ­gnavano il pane da condire con olio e sale, ma prima di giungervi m’arrestò il passo una buca che l’orlo erboso non permetteva di scoprire che a brevissima distanza, nera e profonda come un pozzo, dentro la quale, invitato dal giovanotto che sorrideva, pre ­si a discendere con facilità come per un’ampia, comoda scala a chiocciola che non c’era, e dopo un tempo assai breve le tenebre si ruppero, una blanda luce mi colpì dol ­cemente gli occhi, mi trovai in un altro prato dall’erba d’un verde pallidissimo, quasi bianco, come le piante che crescono nelle cantine. In alto nessun cielo, una volta d’aria rappresa, dello stesso colore dell’erba. Il prato era fitto di gente Ai piedi della scala m’aspettava un bambino che non aveva certo più di sette anni, ma spirava dal suo viso una luce antica di secoli, di ­fatti era morto, come seppi poi, intorno al 1300.

Del suo vestito non saprei dire, né del mio, né di quello degli infiniti che si pigiavano fino all’orizzonte. Indossava ­mo tutti qualcosa senza fog ­gia, senza colore e senza tem ­po. Intorno al bambino un gruppo di vecchi in atteggia ­mento più ancora che rispet ­toso, riverente. Morti da poco, erano nuovi all’ambiente, im ­pacciati, ricordavano le reclute che pèndono dalle labbra e dallo sguardo dei sergenti. Il bambino aveva una parola, un sorriso, un garbato cenno per tutti. Come sempre face ­va, con l’ultimo arrivato, mi prese per la mano, mi con ­dusse in disparte, con poche parole m’illustrò la situazio ­ne. Il cielo, al contrario di quel che si pensa, non sta in alto, ma in basso, sotto i piedi dei vivi, domina una distesa fredda e sbiadita dove si è soli senza scampo, non si ri ­conoscono gli amici, i parenti, i congiunti più cari perché le fattezze, pur rimanendo le stesse che in vita, è come fos ­sero tutte uguali. Puoi passare accanto a tuo padre senza riconoscerlo.

*

Se questo sia una pena, non si può dire. Lo è forse il ri ­cordo della vita trascorsa che giorno per giorno s’attenua e s’allontana come dalla mente del naufrago in un’isola de ­serta fuggono ad una ad una le parole delle poesie che sa ­peva a memoria. Se manchi il libro cui ogni tanto dare un’occhiata, questo presto o tardi avviene. Già il terzo o quarto giorno dal mio arrivo nel prato, dalla lunga poesia della mia vita molte parole presero a staccarsi, come fo ­glie secche, e leggevo sul viso di quanti m’erano intorno il terrore che una folata di vento le portasse via tutte in una volta, lasciando la memoria completamente spoglia.

Ma neppure un alito di ven ­to percorreva la distesa. As ­senza d’aria, come sulla Lu ­na, e nessun bisogno di respi ­rare. « Vaghe stelle dell’Orsa, io non credea – tornare ancor per uso a rimirarvi… », già un dubbio, «a rimirarvi » o a « contemplarvi »?, non si può morire portando con sé i can ­ti del Leopardi, bisogna lavo ­rar di memoria, « …sul pater ­no giardino scintillanti, – e ra ­gionar con voi dalle finestre – di questo albergo ove… » ove che cosa?, le parole si perdevano come in un primo autunno, quando le foglie si staccano non tante insieme, ma ad una ad una.

Il bambino non suggeriva. Non conosceva nulla, nemme ­no i versi dei poeti del suo tempo. Si limitava a guar ­darti sorridendo, come dices ­se: « Non prendertela. Non è qui che cominci a dimentica ­re. Già prima di morire, cosa ricordavi più, ormai, della tua vita se non, come avviene nei vecchi, gli anni della prima fanciullezza e poche e sper ­dute immagini del tempo suc ­cessivo, tanto più dimenticato quanto più recente? ».

E’ vero. Provate, da vecchi, a riandare la vostra vita. Ec ­co, per un attimo, la parola è tornata sul ramo: « … di que ­sto albergo ove abitai fanciul ­lo… ». Ma più tardi? Comin ­ciano lunghe tenebre rotte ogni tanto da barlumi di immagini o da brandelli di barlumi. Volti senza nome, nomi senza volto, nude voci, carezze sen ­za mani, di chi sono questi capelli neri o d’oro rimasti im ­pigliati in un cespuglio d’un prato senza impronte?

*

Perché quel giorno fu di le ­tizia? Perché quell’altro pian ­si? « O speranze, speranze; ameni inganni… ». Speravo che cosa? Non ricordo. Come ti chiami tu che con mano tre ­mante accosti alle mie labbra aperte il cucchiaio della me ­dicina che dovrebbe prolun ­gare i miei giorni? Prolungar ­li perché? Per non ricordare che il tempo più lontano e più fuggito?

Ma da vivi raramente si è soli. Spesso ancora in due, ed è più facile richiamare le fo ­glie involatesi, più facile ri ­comporre frammenti di mo ­saici, una tessera ciascuno, co ­me nei giochi di pazienza, « …tornare ancor per uso a contemplarvi… », il giorno in cui ci vedemmo la prima vol ­ta, e le parole?, che parole?, ma, se non le parole, le nu ­vole che scorrevano quel cielo unico, mai più rivisto, quante volte mutarono di forma?, e si passano le giornate a cer ­car di ricordare quante, ecco perché i vecchi, spesso, sem ­brano assenti, perduti come sono dietro nuvole antiche, in ­decifrabili, uccelli di cui non rammentiamo la forma ma splendore, di tutta la vita â— cui, pur, teniamo tanto â— non resta che questo, e sì che siamo in due a ricostruirla.

Eccomi solo, senz’aria intor ­no, senza più voli né di nu ­vole né di uccelli. Chi mi sug ­gerisce? Nessuno. Ciascuno è intento, per conto proprio, a trattenere le foglie, radunar le parole, conservare le nuvole. Ti seguono cortesi, ma non affettuosi, gli occhi del bam ­bino morto nel 1300. Un pa ­drone di casa perfetto. Quan ­to da fare, per questo bambino-vecchio, con tutti questi vecchi-bambini inseguenti nu ­vole che si dissolvono!

Ci fosse una strada, sul cui ciglio sedersi, un fiume, sulla cui sponda sostare! Aiutereb ­be la memoria. C’è invece una distesa senza limiti che aiuta il disperdersi del tempo. Dopo pochi giorni, come a primavera, quando stanno per spuntare le nuove, non ho che le poche, ultime foglie dell’autunno dell’anno scorso. « O speranze… inganni… età… ». Al primo vento di marzo tutto sarà finito.

M’aggiungerò anch’io ai miliardi d’alberi secchi che popolano fin oltre gli orizzonti e poi oltre ancora, questa distesa verde pallido, quasi bianco, sotto un cielo dello stesso colore.

 


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Bart