LETTERATURA: I MAESTRI: Le corna del diavolo27 Novembre 2012 di Piero Chiara Le rive del nostro lago ap partennero, nei secoli scorsi e fino all’età napoleonica, a poche grandi famiglie: i Bor romeo di Milano che stende vano i loro possessi da Arona a Stresa a Cannerò, e più tar di i Crivelli, anch’essi mila nesi, che cominciavano ad avere terra verso Angera e ne possedevano, lungo la sponda lombarda, fino al con fine svizzero. Con la soppressione delle proprietà feudali le grandi unità terriere del Lago Mag giore si frazionarono e qual che famiglia borghese, venuta in luce nell’Ottocento, comin ciò a rodere coi suoi modesti insediamenti l’antico cerchio delle rive, finché i Borromeo si restrinsero alle isole e i Crivelli solo ad alcuni cippi di granito con incise le let tere P.C. (proprietà Crivelli), disseminati tra Angera e Luino. Dell’antica famiglia, che tenne in casa come precetto re il Parini, non resistono lun go il lago che i cippi, il nome di un isolotto vicino ad An gera e quello di un grande parco a Luino, già in parte distrutto, e dal quale è scom parsa la villa che fu dimora estiva dei Crivelli. * Giuseppe Crivelli Serbelloni, ultimo del suo casato, morì nei primi anni del no stro secolo, senza discendenti diretti e lasciando vedova la moglie Antonietta, nata du chessa Sfondrati Trotti Bentivoglio. Tre fragorosi cogno mi che divennero noti dopo la sua morte, perché quando la nobile signora era in vita veniva indicata semplicemen te come contessa Crivelli, sen za che nessuno nel paese immaginasse quanta parte di illustre sangue lombardo fos se rifluita nelle sue vene. Alta e severa, si poteva vederla non più di due o tre volte l’anno passare in gramaglie per le vie del borgo col suo passo lento e stentato, il capo tentennante sopra le spalle strettissime e le mani nasco ste dentro un manicotto. Le sue mete erano la chiesa o il cimitero, dove andava sempre accompagnata da qualche nobildonna della sua età che te neva in villa per compagnia, o dalle vecchie sorelle Luini, nobili anch’esse d’antica data e quasi imparentate col borgo e col suo celebre pittore. Perla Messanon le occorreva uscire, perché glie l’andava a dire in casa il parroco di San Giuseppe, ogni domenica. La sua grande villa di stile inglese, oggi scomparsa, ave va una torre esagonale e delle finestre a coppia dalle quali si poteva vedere tutto il lago. Davanti alla facciata il parco si sfoltiva per lasciar posto ad un prato in forte pendio sul quale i giardinieri disegna vano ad ogni stagione un in treccio di cordoni fioriti: un monogramma di vari colori o solo un motivo ornamentale, simile a un gran gioiello pen dente sopra un vestito verde. Gran signora di quelle d’una volta e delle quali si è per duta la semenza, la contessa Crivelli morì fra il compian to del popolo che aveva be neficato, senza lasciare il mi nimo margine per alcuna leg genda o pettegolezzo. Suo marito invece, il conte Giu seppe, morto almeno vent’anni prima di lei, un segno di estrosità, se non proprio di mal costume, l’aveva lasciato nella cronaca del paese. Si racconta, infatti, o meglio si raccontava una volta, che il conte, ex-colonnello di caval leria, era stato in gioventù gran donnaiolo; malattia del la quale non era guarito spo sando la contessa, tanto che, venendo a stare nella gran villa dei suoi antichi, si era portato dietro un’amante che teneva dentro una casina na scosta tra le piante di un bo schetto, al di là del fiume Tresa, in territorio d’altro co mune ma sempre sui suoi ter reni, che si stendevano per chilometri lungo le rive del lago. Ogni giorno, camminando sul suo, il conte si portava alla riva del Tresa, verso la foce, dove aveva fatto getta re una passerella sopra il fiume, largo in quel punto un centinaio di metri. La pas serella, così leggera che non poteva reggere più di un uomo per volta, era comparsa da un giorno all’altro, senza che nessuno avesse visto gente all’opera sul fiume. Le donne assicuravano che era stata costrui ta in una sola notte dal Dia volo, interessato a favorire i peccati del conte, per portar selo poi via a tempo giusto. Passando sul grande ponte carraio più a monte, i paesani guardavano verso la foce e vedevano la sagoma della passerella, lieve come se fos se stata di fumo, contro il ri verbero del lago. Le donne si segnavano e gli uomini, meno disposti a veder l’opera del Diavolo in quel traliccio di assicelle e di pali, sorrideva no sornioni e invidiavano il conte, che a sessant’anni suo nati poteva concedersi gior nalmente uscite di quel ge nere. Qualcuno affermava di aver visto, verso il tramonto, la sagoma dell’anziano signore che varcava le acque, come un equilibrista, su quel filo sospeso tra le rive. Altri so stenevano d’aver notato, a notte alta, una luce che tra versava il fiume: certamente la lanterna che il conte por tava con sé per farsi lume. Ed era facile immaginarlo, chiu so in un pastrano militare sco e con in testa qualche suo vecchio colbacco, a metà passerella, quando si soffer mava un momento per sentir fremere tutta la struttura del fragile viadotto librato sopra i gorghi. Buon custode della sua ri serva d’amore, il conte andava ogni giorno a controllare l’in tegrità del deposito e magari a delibarne una presa, sag giamente, da buon intenditore e da quell’uomo sano e ga gliardo che pareva. La contessa, nelle sue stan ze, forse cognita dell’oltrag gio, vegliava in preghiera. Sa peva e taceva, come era giu sto, e la gente del paese, sa pendola colpita nei sentimenti e nell’orgoglio, non aveva ra gione d’invidiarla. Perfino i poveri che da lei ricevevano la carità, potevano dire: «Po vera contessa! ». L’amante del conte era an che lei, a quanto si diceva, una contessa, ma senza beni e finita in quella casina nel bosco dopo una vita avventu rosa. Non più giovane, ma an cora bella, era venuta ad at testarsi sul fiume per tenere in vita un suo amore o forse sol tanto perché non aveva altre risorse. I ladri di legna che l’aveva no intravista qualche volta alle finestre della sua casina e i pescatori che toccando riva all’alba presso il boschetto l’a vevano scorta una volta o due passeggiare tra l’erba, ne par lavano come d’una fata. Altri invece, più pratici del mondo o più addentro nelle cose, dicevano che si trattava di una donna qualunque che il con te teneva a portata di mano solo perché era bene in carne e gli serviva per rifarsi del l’austerità di casa sua. * Tutto andò bene per qual che anno, finché la troppa comodità di quel diversivo fu fatale al conte, che già anzia no e forse debole di cuore, avrebbe fatto meglio a star sene quieto, sotto i clipei e tra le armature che riempivano stanze e corridoi della sua vil la. Infatti, di ritorno da una delle sue visite, una notte fu colpito da un malore a metà strada. Con l’aiuto di un guardacaccia raggiunse a ma lapena la sua camera e riuscì a stendersi nel letto; ma alla mattina un cameriere lo trovò ch’era freddo. La contessa fu avvertita e accorse, dalla ca mera dove dormiva sola, a rimirare il marito che da al cune ore aveva varcato ben altro fiume e ben più arduo ponte. Due giorni dopo, e proprio durante i solenni funerali del conte, scoppiò un grande temporale e una piena im provvisa del Tresa travolse il ponticello, quasi che il Dia volo, compiuta la sua opera e non abbisognando più di quel mezzo per assicurarsi l’a nima del peccatore, avesse di sposto il nubifragio onde far perdere le tracce del buon la voro che aveva fatto dalle no stre parti. Tuttavia qualcosa rimase, perché ogni primavera e per molti anni, nei periodi di magra si potevano vedere un paio dei paletti di sostegno della passerella che sporgeva no dall’acqua uno vicino al l’altro. I timorati di Dio vi ravvisarono subito le corna del Diavolo, sprofondato nel fiu me insieme al ponticello, mentre gli scettici non sep pero vedervi altro che un sim bolo delle sofferenze della contessa. Ancora oggi, qual che volta, le due punte nere appaiono per pochi minuti sul la lastra del fiume; ma chi le scorge può pensare soltanto alle teste di due anguille che risalgono, incerte, la corrente. 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