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LETTERATURA: I MAESTRI: Le fiabe di Hoffmann

14 Ottobre 2017

di Claudio Magris
[dal “Corriere della Sera”, domenica 17 agosto 1969]

Agli occhi di Baudelaire, «le désordonné Hoffmann, le divin Hoffmann », com’egli lo chiamava, era uno dei crea ­tori dei « catechismi d’alta estetica » moderna; un maestro dell’ « essenza del riso », di quella tragica e grottesca comicità che il poeta dei Fio ­ri del Male considerava uno dei caratteri satanici dell’uo ­mo e uno dei frutti dell’al ­bero della conoscenza. Caro a Baudelaire e a Gogol’, a Dostoevskij ed ai surrealisti francesi, Hoffmann fu, insie ­me a Heine, l’unico scrittore tedesco fra Goethe e i gran ­di della fin de siècle ad ave ­re una risonanza internazio ­nale: la sua opera, tradotta quasi completamente in fran ­cese e in russo pochi anni dopo la sua morte (1822), venne immediatamente acqui ­sita al patrimonio comune della cultura europea e ven ­ne quindi salvata da quell’iso ­lamento periferico, dovuto più a fattori sociologici d’ordine generale che a ragioni d’in ­trinseco valore estetico, che nel secolo XIX restrinse il romanzo tedesco in un am ­bito nazionale quando non regionale. E Hoffmann con ­tinua, ancor oggi, a venir letto da un vasto pubblico non specializzato, per il qua ­le la letteratura tedesca del ­l’Ottocento â— a differenza di quella francese, russa, ingle ­se o americana â— è una zo ­na pressoché ignorata.

Oggi più che mai il « nar ­ratore » Hoffmann, così ric ­co di linfe vitali e così vi ­cino alle radici del mitico e del favoloso, si presenta co ­me un originalissimo innova ­tore delle strutture stilisti ­che e come uno dei padri del romanzo moderno. Dietro lo sbrigliato inventore di ara ­beschi fantastici affiora l’ar ­tiglio dello scrittore che, gra ­zie ad una scomposizione lin ­guistica del dozzinale mate ­riale spettrale e pauroso, ap ­proda a intuizioni psicologi ­che più tardi celebrate da Freud; sotto gli ingredienti fumettistici dei romanzi not ­turni emerge l’ironia dell’ar ­tista il quale, parlando degli Elisir del Diavolo, traccia il rendiconto etico – intellettuale di una civiltà in crisi e in ­sieme l’analisi di una disso ­ciazione psichica; la parodi ­stica sovrapposizione della pa ­rabola d’un musicista votato alla disgregazione e dei com ­promessi filistei d’un benpen ­sante gatto borghese (Murr) si accosta, anche sul piano degli esperimenti formali, al clima dell’avanguardia con ­temporanea di cui anticipa, riallacciandosi a Sterne e gettando un ponte verso i grandi autori del Novecento, lo scetticismo sulle possibili ­tà della narrazione, la con ­sapevolezza del « romanzo del romanzo ». Lo scrittore ro ­mantico, che ha suggerito a Dostoevskij il tema del so ­sia, si rivela uno spirito di ­vorante ed enciclopedico, tra ­gico come può esserlo un te ­stimone dell’assurdo caos mo ­derno: lo scrittore bizzarro si profila un attento realista, che negli eccentrici fantasmi ritrae l’esilio del borghese, la sua condizione esistenziale di angelo caduto.

Inesauribile e talora privo di freno e di controllo, Hoff ­mann si misurò con i più di ­sparati generi letterari, come rivelano anche le tre opere riunite nel volume II vaso d’oro e curate con la con ­sueta finezza da Ervino Pocar (ed. Garzanti, pp. 283, L. 500). Regista e scenografo oltre che narratore, Hoff ­mann offre nelle Singolari pene d’un direttore di teatro una ricca e variegata pano ­ramica della vita spettaco ­lare della sua epoca e so ­prattutto della problematica teatrale romantica; questo racconto-dialogo segna forse uno dei momenti più contin ­genti della produzione hoffmanniana, legato com’esso è al clima del tempo e al ­l’ideale romantico dell’inter ­pretazione come immedesima ­tone: posizione decisamente invecchiata, anche se ravvi ­vata da stimolanti riferimenti culturali (Shakespeare, Gozzi), da interessanti contributi d’ordine tecnico e dalla piroetta finale che identifica teatro ideale (spersonaliz ­zazione dell’attore, antidivismo e così via) col teatro delle marionette.

Il vaso d’oro, la novella che dà il titolo al volume, costituisce invece uno dei ca ­polavori hoffmanniani, un ca ­polavoro di ambiguità di mol ­teplicità di piani e signifi ­cati, di profondità simbolica. Favola angosciosa, metafora d’una nevrosi o iridescente allegoria, a seconda della prospettiva da cui lo si legga, Il vaso d’oro intreccia cro ­naca quotidiana e avventura fantasmagorica, l’incontro del ­lo studente Anselmo con un rispettabilissimo ambiente bor ­ghese di vicepresidi, attuari di cancelleria ed archivisti e l’improvviso ingresso del me ­desimo Anselmo in un mon ­do mitico, incantato e stre ­gato.

Contrapposizione di un pa ­radiso di fiaba alla « mise ­ria tedesca » e trasfigurazio ­ne dei più complessi motivi filosofici dell’Idealismo tede ­sco, Il vaso d’oro è però so ­prattutto un grande raccon ­to a struttura simbolica in cui Hoffmann, precorrendo il Musil delle geniali analogie, traduce in chiave narrativa il processo associativo della vita psichica, l’imprevedibilità delle concatenazioni d’idee che presiedono al meccani ­smo   della   coscienza,   e, in

questo caso, di una coscienza alterata: il battente di una porta può trasformarsi in un sogghignante volto di vec ­chia e un uomo può assume ­re un deforme sembiante ani ­male, degno del tratto di un Hogarth o di un Callot.

Se ne II vaso d’oro la solu ­zione della fiaba psicologica sembra essere positiva, nel Piccolo Zaches, detto Cinabro il motivo magico-surreale (sor ­tilegi di fate benigne o ma ­lefiche, prodigi di negroman ­ti, poteri sovrannaturali) e la gustosa satira della pedantissima cultura accademi ­ca e delle minuscole corti assolute della Germania si concludono invece in una cru ­dele tragedia, nella morte del nano eroe del racconto che annega in un vaso da notte. E’ questo il senso ama ­ro in cui, per il nichilismo esistenziale di Hoffmann, la vita â— secondo la celebre e fortunata frase di Conrad â— è una cosa buffa.


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Bart