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LETTERATURA: I MAESTRI: Le scarpe da tennis

18 Settembre 2012

di Giorgio Bassani
[dal “Corriere della Sera”, domenica 3 maggio 1970]

Mi telefona la giovane amica dalle calze rosse e dalla coda di cavallo, redattrice di un giornale romano della se ­ra. Ne ha una nuova, oggi: pretende che io scorra una ventina di fotografie d’attua ­lità (me le farà avere subito dice â—, per mezzo del motociclista), e le sappia poi di ­re « ¡n giornata » quale di esse mi interessi di più, e per ­ché. La mia risposta le ser ­ve per una « grande » inchiesta che sta conducendo fra gli « scrittori ».

« Sii carino, dài », supplica dall’altro capo del filo, spie ­gando tutta la grazia della pronuncia toscana.

Non sono trascorsi venti minuti, ed ho già alla porta il preavvisato motociclista: un giovanotto alto, grosso, con giubba di pelle, casco di cuoio, guantoni, occhialoni, e le guance arrossate dal primo freddo autunnale.

Più o meno, le foto hanno tutte a che fare con la cro ­naca nera. C’è il funerale della mondana accoltellata dal magnaccia poi suicida; c’è quello della moglie dell’industriale farmaceutico fatta sop ­primere dallo stesso per pro ­cura: assiso al tavolo di cuci ­na, c’è il serafico malversatore di miliardi cattolici colto nell’atto di tendere la boc ­cuccia ingorda, tale e quale un enorme nidiace, verso una forchettata di spaghetti che una mano invisibile tiene sospesa sulla sua fronte; c’è il giovane, muscoloso attore in ­glese, noto a tutt’oggi più per ­le fenomenali bevute che per i film, il quale, sotto gli oc ­chi della moglie bellissima, rimirante pigra e ironica da bordo della macchina (siamo a via Veneto, di notte), mu ­lina vanamente i pugni in direzione di un gruppo di papa ­razzi in fuga… Non mi è fa ­cile scegliere. Congedato il motociclista, comincio a rie ­saminare le istantanee ad una ad una, in cerca di quella che possa fare al caso mio.

La prima sulla quale mi fermo ritrae un certo signor Gualtiero P. mentre sta difen ­dendosi, credo in una stanza della Questura, dall’accusa di essersi pubblicamente millan ­tato Medaglia d’Oro. E subito mi chiedo: come ho po ­tuto, poco fa, non prestare qualche attenzione a un’im ­magine come questa? Come ho fatto a non simpatizzare di primo acchito; violentemen ­te, con un tipo che intanto si chiama Gualtiero P. (il co ­gnome è cortissimo: un buffo bisillabo tronco); e poi che si è spacciato per Medaglia d’Oro; e inoltre che è vestito in quel modo, con quel po ­vero abito liso e spiegazzato; e, infine, sebbene inalberi in cima al cranio un ciuffo stra ­namente rigoglioso di capelli corvini, è un vecchio, niente da fare, avrà per lo meno settant’anni?

Guardo meglio, socchiuden ­do addirittura le palpebre: proprio come se mi stesse dinanzi non già un individuo reale ma un personaggio di fantasia. L’operazione alla quale mi accingo, di mischia ­re il vero col falso, o, che è lo stesso, con l’immagina ­rio, mi si preannuncia que ­sta volta particolarmente ar ­bitraria, empia. Ad ogni mo ­do, tant’è, il signor Gualtie ­ro P., oltre che intelligente (lo desumo dai neri occhiet ­ti a capocchia di spillo che gli scintillano furbi attraverso le lenti), è senza dubbio per ­sona gentile e comprensiva: molto più .gentile e compren ­sivo, lui, di tanti altri modelli presi dalla vita ai quali, da che scrivo novelle, racconti e romanzi, ho dovuto rifarmi. Se gli accadrà di leggere que ­ste righe, da lui ispirate e a lui dedicate, sono sicuro che compatirà.

*

Siamo dunque in Questura, in un ufficio qualsiasi. La stanza è divisa in due parti nette: una in luce, l’altra in ombra. Degli astanti, il solo signor P., seduto davanti alla scrivania del commissario, sta dal lato della luce. Il com ­missario e i tre questurini che assistono all’interrogato ­rio (uno dei questurini, che la fa da fotografo, scatta ogni tanto un flash), stanno tutti quanti dal lato dell’om ­bra, sagome appena distingui ­bili. Sono anche essi qualsia ­si: meridionali, ce n’è tanti. In ogni caso abbastanza cor ­tesi: bonarii, e in fondo di ­vertiti.

Poco da fare, oggi, in Que ­stura. Per di più, l’ora è mor ­ta. Da dietro il suo tavolo, il commissario osserva il signor P. con una certa simpatia. Non gli ci vuol molto per capire: oltre che vecchio, e povero in canna, il soggetto è evidentemente denutrito.

Sorride.

« Beh », comincia. « E a salute, come stiamo? Ce la caviamo? »

Il signor P. è pronto alla risposta. Dice che coi suoi sessantotto anni non ha pro ­prio il diritto di lamentarsi.

Di acciacchi importanti â— a parte i denti, ormai ridotti a tre o quattro â—, non ne ha nessuno A impensierirlo, se mai, è soltanto la sua « situazione finanziaria »: per nien ­te florida, quella, purtroppo.

Il commissario ha davvero del tempo da perdere. Chiede:

« Perché non prova a cer ­carsi un lavoro? ».

Lavorare? â— ribatte vi ­vacemente il signor P. â—. Magari! Sono anni che cerca, lui! Tuttavia intendiamoci â— seguita â—: i lavori pesanti non sono il suo forte, non lo sono mai stati. Per fare il manovale o il facchino ci vo ­gliono muscoli, fiato, eccete ­ra, mentre lui, da quel lato lì… e specie adesso, poi… No ­tare inoltre che i P., una vol ­ta, erano una « signora fami ­glia », con tanto di apparta ­mento proprio a via dell’Arancio. In conclusione: lavorare sì, eccome, però a determina ­te condizioni. Oh, trovare un impieguccio tranquillo, da adoperare la testa e basta, da star seduti!

« Capisco », fa il commis ­sario, piegando le labbra in una smorfia.

Dato anche il mestiere, non è che l’uomo sia particolar ­mente sensibile: per forza. Ciò nondimeno è lui, a questo pun ­to, chissà perché, a sentirsi d’un tratto imbarazzato. Tira fuori il pacchetto delle siga ­rette, si allunga attraverso il tavolo a offrirne una al signor P. (che accetta con entusia ­smo), ne sceglie un’altra per sé. Dà poi da accendere. Ac ­cende lui stesso. Il colloquio ha preso una strana piega â— sta dicendosi â—; strana e antipatica. Comunque stop. E’ tempo di tagliar corto, di affrontare una buona volta l’argomento base.

Senonché, prolungandosi an ­cora il suo silenzio, è lo stesso signor P. ad assumere l’ini ­ziativa, ad aiutarlo.

« Creda, signor commissa ­rio, è stato uno scherzo… », attacca a voce bassa.

Ammicca, nel contempo: co ­me a raccomandare che prima di giudicarlo si tenga il debito conto dei suoi occhiali cer ­chiati di tartaruga, di ottima inarca, della cravatta passa ­bile, della camicia sufficientemente pulita, della perfetta ra ­satura delle guance e del men ­to, della biro che gli spunta dal taschino della giacca, la quale attesta, se pure ce ne fosse bisogno, che lui ha stu ­diato, sa scrivere, e persino delle unghie, che sono lunghet ­te, è vero, ma non per incuria, giacché da Roma in giù por ­tare le unghie un po’ lunghe, con prevalenza di quella del mignolo, è rimasto un segno di distinzione. Nonostante tut ­to teme che possa andargli male, è chiaro. Eh, certo â— riprende infatti a dire, dopo un sospiro â—. Il vestito scuro a righe, preso cinque anni fa a piazza Vittorio, occorrerebbe stirarlo, lo sa anche lui molto bene: specie nei pantaloni. Tuttavia come fare? Quando si vive soli, senza nessuna donna per casa, moglie, figlia o serva che sia, e quando, poi, nella fattispecie, non esiste â— e sogghigna â— casa di sorta in che modo arrivare a…? No, non stiamo a guardargli le scarpe, per piacere; sono da tennis, sissignori. Il fatto è che le scarpe di pelle costano un occhio. E, in fondo, che im ­portanza hanno da avere delle scarpe di tela, quando il re ­sto risulta più che dignitoso?

*

Torna ad ammiccare. Rac ­coglie a mucchietto le dita della mano destra, scheletri ­che, si stringe nelle spalle grame.

« Mi deve credere, signor commissario », ripete. « E’ sta ­to soprattutto per scherzare. Avevo sparato che ero Meda ­glia d’Oro per impressionarli un poco. Si erano messi a sfottermi per via delle scarpe, e allora io… Però, mica facevo sul serio… mica volevo… ».

Per motivi di ovvia pruden ­za non aggiunge altro. Eppure, se potesse parlare liberamente, se, invece d’un funzionario di polizia, gli stesse dinanzi un’al ­tra persona qualunque (me, per esempio), non si ferme ­rebbe qui, ne sono sicuro. Uno può benissimo â— direbbe, e a me non resterebbe che annuire, che incoraggiarlo con re ­plicati moti del .capo a sfo ­garsi, a vuotare il sacco â—, uno può benissimo non avere, in tasca, tanto da pagarsi le indispensabili venti Nazionali quotidiane, non avere il più modesto diploma da esibire, avere ormai sessantotto anni, essere obbligato a trascorrere le notti o alla stazione, o alla posta centrale, o al dormitorio pubblico, e infine, per soddi ­sfare l’appetito, vedersi co ­stretto quasi ogni giorno a bussare alla porta di certi fra ­ti, che loro, Deo gratias, una minestra calda la passano sempre. Ma non per ciò è necessario che uno così debba rinunciare completamente a tenersi un tantino su di fronte al prossimo! Anche lui avrà pure il diritto di conservare un minimo di rispetto per se stesso!

Ecco cosa direbbe il signor P., io suppongo, soltanto che si trovasse qui, in questa stan ­za, seduto tranquillamente di là dal mio tavolo.

Ma avrebbe poi finito davvero? Il suo sacco, con questo, l’avrebbe vuotato proprio tutto?
Siamo l’uno di fronte all’altro. Ci guardiamo negli oc ­chi piuttosto a lungo.

«Che diamine », sbotta a un tratto aggressivo, puntan ­domi addosso l’indice ossuto, bruno di nicotina. « Se lei, professore, quella volta delle scarpe da tennis si fosse tro ­vato nelle mie condizioni, non l’avrebbe detta anche lei, una piccola balla? E non la dirà lo stesso, sia sincero, tutte le volte che ne ha bisogno? ».

Lui, quella volta â— prose ­gue, con aria contrita â—, la balla l’aveva mollata un po’ grossa, è vero: una balla che, ehm… poteva fare a meno di… già… anche per il riguardo  do ­vuto ai molti che… indubbia ­mente.

Senonché di Medaglie d’Oro ce n’è tante â— soggiunge su ­bito, tornando al ghigno pro ­tervo di poc’anzi, da vecchio, fraterno rottame della vita â—, ce n’è talmente tante, in giro, con tutte le guerre in cui la nostra Italia è andata a cac ­ciarsi dalla Libia in poi! Sia ­mo giusti: una più una meno, in fin dei conti, che diffe ­renza fa?


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Bart