LETTERATURA: I MAESTRI: Le scarpe da tennis18 Settembre 2012 di Giorgio Bassani Mi telefona la giovane amica dalle calze rosse e dalla coda di cavallo, redattrice di un giornale romano della se ra. Ne ha una nuova, oggi: pretende che io scorra una ventina di fotografie d’attua lità (me le farà avere subito dice â—, per mezzo del motociclista), e le sappia poi di re « ¡n giornata » quale di esse mi interessi di più, e per ché. La mia risposta le ser ve per una « grande » inchiesta che sta conducendo fra gli « scrittori ». « Sii carino, dài », supplica dall’altro capo del filo, spie gando tutta la grazia della pronuncia toscana. Non sono trascorsi venti minuti, ed ho già alla porta il preavvisato motociclista: un giovanotto alto, grosso, con giubba di pelle, casco di cuoio, guantoni, occhialoni, e le guance arrossate dal primo freddo autunnale. Più o meno, le foto hanno tutte a che fare con la cro naca nera. C’è il funerale della mondana accoltellata dal magnaccia poi suicida; c’è quello della moglie dell’industriale farmaceutico fatta sop primere dallo stesso per pro cura: assiso al tavolo di cuci na, c’è il serafico malversatore di miliardi cattolici colto nell’atto di tendere la boc cuccia ingorda, tale e quale un enorme nidiace, verso una forchettata di spaghetti che una mano invisibile tiene sospesa sulla sua fronte; c’è il giovane, muscoloso attore in glese, noto a tutt’oggi più per le fenomenali bevute che per i film, il quale, sotto gli oc chi della moglie bellissima, rimirante pigra e ironica da bordo della macchina (siamo a via Veneto, di notte), mu lina vanamente i pugni in direzione di un gruppo di papa razzi in fuga… Non mi è fa cile scegliere. Congedato il motociclista, comincio a rie saminare le istantanee ad una ad una, in cerca di quella che possa fare al caso mio. La prima sulla quale mi fermo ritrae un certo signor Gualtiero P. mentre sta difen dendosi, credo in una stanza della Questura, dall’accusa di essersi pubblicamente millan tato Medaglia d’Oro. E subito mi chiedo: come ho po tuto, poco fa, non prestare qualche attenzione a un’im magine come questa? Come ho fatto a non simpatizzare di primo acchito; violentemen te, con un tipo che intanto si chiama Gualtiero P. (il co gnome è cortissimo: un buffo bisillabo tronco); e poi che si è spacciato per Medaglia d’Oro; e inoltre che è vestito in quel modo, con quel po vero abito liso e spiegazzato; e, infine, sebbene inalberi in cima al cranio un ciuffo stra namente rigoglioso di capelli corvini, è un vecchio, niente da fare, avrà per lo meno settant’anni? Guardo meglio, socchiuden do addirittura le palpebre: proprio come se mi stesse dinanzi non già un individuo reale ma un personaggio di fantasia. L’operazione alla quale mi accingo, di mischia re il vero col falso, o, che è lo stesso, con l’immagina rio, mi si preannuncia que sta volta particolarmente ar bitraria, empia. Ad ogni mo do, tant’è, il signor Gualtie ro P., oltre che intelligente (lo desumo dai neri occhiet ti a capocchia di spillo che gli scintillano furbi attraverso le lenti), è senza dubbio per sona gentile e comprensiva: molto più .gentile e compren sivo, lui, di tanti altri modelli presi dalla vita ai quali, da che scrivo novelle, racconti e romanzi, ho dovuto rifarmi. Se gli accadrà di leggere que ste righe, da lui ispirate e a lui dedicate, sono sicuro che compatirà. * Siamo dunque in Questura, in un ufficio qualsiasi. La stanza è divisa in due parti nette: una in luce, l’altra in ombra. Degli astanti, il solo signor P., seduto davanti alla scrivania del commissario, sta dal lato della luce. Il com missario e i tre questurini che assistono all’interrogato rio (uno dei questurini, che la fa da fotografo, scatta ogni tanto un flash), stanno tutti quanti dal lato dell’om bra, sagome appena distingui bili. Sono anche essi qualsia si: meridionali, ce n’è tanti. In ogni caso abbastanza cor tesi: bonarii, e in fondo di vertiti. Poco da fare, oggi, in Que stura. Per di più, l’ora è mor ta. Da dietro il suo tavolo, il commissario osserva il signor P. con una certa simpatia. Non gli ci vuol molto per capire: oltre che vecchio, e povero in canna, il soggetto è evidentemente denutrito. Sorride. « Beh », comincia. « E a salute, come stiamo? Ce la caviamo? » Il signor P. è pronto alla risposta. Dice che coi suoi sessantotto anni non ha pro prio il diritto di lamentarsi. Di acciacchi importanti â— a parte i denti, ormai ridotti a tre o quattro â—, non ne ha nessuno A impensierirlo, se mai, è soltanto la sua « situazione finanziaria »: per nien te florida, quella, purtroppo. Il commissario ha davvero del tempo da perdere. Chiede: « Perché non prova a cer carsi un lavoro? ». Lavorare? â— ribatte vi vacemente il signor P. â—. Magari! Sono anni che cerca, lui! Tuttavia intendiamoci â— seguita â—: i lavori pesanti non sono il suo forte, non lo sono mai stati. Per fare il manovale o il facchino ci vo gliono muscoli, fiato, eccete ra, mentre lui, da quel lato lì… e specie adesso, poi… No tare inoltre che i P., una vol ta, erano una « signora fami glia », con tanto di apparta mento proprio a via dell’Arancio. In conclusione: lavorare sì, eccome, però a determina te condizioni. Oh, trovare un impieguccio tranquillo, da adoperare la testa e basta, da star seduti! « Capisco », fa il commis sario, piegando le labbra in una smorfia. Dato anche il mestiere, non è che l’uomo sia particolar mente sensibile: per forza. Ciò nondimeno è lui, a questo pun to, chissà perché, a sentirsi d’un tratto imbarazzato. Tira fuori il pacchetto delle siga rette, si allunga attraverso il tavolo a offrirne una al signor P. (che accetta con entusia smo), ne sceglie un’altra per sé. Dà poi da accendere. Ac cende lui stesso. Il colloquio ha preso una strana piega â— sta dicendosi â—; strana e antipatica. Comunque stop. E’ tempo di tagliar corto, di affrontare una buona volta l’argomento base. Senonché, prolungandosi an cora il suo silenzio, è lo stesso signor P. ad assumere l’ini ziativa, ad aiutarlo. « Creda, signor commissa rio, è stato uno scherzo… », attacca a voce bassa. Ammicca, nel contempo: co me a raccomandare che prima di giudicarlo si tenga il debito conto dei suoi occhiali cer chiati di tartaruga, di ottima inarca, della cravatta passa bile, della camicia sufficientemente pulita, della perfetta ra satura delle guance e del men to, della biro che gli spunta dal taschino della giacca, la quale attesta, se pure ce ne fosse bisogno, che lui ha stu diato, sa scrivere, e persino delle unghie, che sono lunghet te, è vero, ma non per incuria, giacché da Roma in giù por tare le unghie un po’ lunghe, con prevalenza di quella del mignolo, è rimasto un segno di distinzione. Nonostante tut to teme che possa andargli male, è chiaro. Eh, certo â— riprende infatti a dire, dopo un sospiro â—. Il vestito scuro a righe, preso cinque anni fa a piazza Vittorio, occorrerebbe stirarlo, lo sa anche lui molto bene: specie nei pantaloni. Tuttavia come fare? Quando si vive soli, senza nessuna donna per casa, moglie, figlia o serva che sia, e quando, poi, nella fattispecie, non esiste â— e sogghigna â— casa di sorta in che modo arrivare a…? No, non stiamo a guardargli le scarpe, per piacere; sono da tennis, sissignori. Il fatto è che le scarpe di pelle costano un occhio. E, in fondo, che im portanza hanno da avere delle scarpe di tela, quando il re sto risulta più che dignitoso? * Torna ad ammiccare. Rac coglie a mucchietto le dita della mano destra, scheletri che, si stringe nelle spalle grame. « Mi deve credere, signor commissario », ripete. « E’ sta to soprattutto per scherzare. Avevo sparato che ero Meda glia d’Oro per impressionarli un poco. Si erano messi a sfottermi per via delle scarpe, e allora io… Però, mica facevo sul serio… mica volevo… ». Per motivi di ovvia pruden za non aggiunge altro. Eppure, se potesse parlare liberamente, se, invece d’un funzionario di polizia, gli stesse dinanzi un’al tra persona qualunque (me, per esempio), non si ferme rebbe qui, ne sono sicuro. Uno può benissimo â— direbbe, e a me non resterebbe che annuire, che incoraggiarlo con re plicati moti del .capo a sfo garsi, a vuotare il sacco â—, uno può benissimo non avere, in tasca, tanto da pagarsi le indispensabili venti Nazionali quotidiane, non avere il più modesto diploma da esibire, avere ormai sessantotto anni, essere obbligato a trascorrere le notti o alla stazione, o alla posta centrale, o al dormitorio pubblico, e infine, per soddi sfare l’appetito, vedersi co stretto quasi ogni giorno a bussare alla porta di certi fra ti, che loro, Deo gratias, una minestra calda la passano sempre. Ma non per ciò è necessario che uno così debba rinunciare completamente a tenersi un tantino su di fronte al prossimo! Anche lui avrà pure il diritto di conservare un minimo di rispetto per se stesso! Ecco cosa direbbe il signor P., io suppongo, soltanto che si trovasse qui, in questa stan za, seduto tranquillamente di là dal mio tavolo. Ma avrebbe poi finito davvero? Il suo sacco, con questo, l’avrebbe vuotato proprio tutto? «Che diamine », sbotta a un tratto aggressivo, puntan domi addosso l’indice ossuto, bruno di nicotina. « Se lei, professore, quella volta delle scarpe da tennis si fosse tro vato nelle mie condizioni, non l’avrebbe detta anche lei, una piccola balla? E non la dirà lo stesso, sia sincero, tutte le volte che ne ha bisogno? ». Lui, quella volta â— prose gue, con aria contrita â—, la balla l’aveva mollata un po’ grossa, è vero: una balla che, ehm… poteva fare a meno di… già… anche per il riguardo do vuto ai molti che… indubbia mente. Senonché di Medaglie d’Oro ce n’è tante â— soggiunge su bito, tornando al ghigno pro tervo di poc’anzi, da vecchio, fraterno rottame della vita â—, ce n’è talmente tante, in giro, con tutte le guerre in cui la nostra Italia è andata a cac ciarsi dalla Libia in poi! Sia mo giusti: una più una meno, in fin dei conti, che diffe renza fa? Letto 4475 volte. Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||