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LETTERATURA: I MAESTRI: Saba. Non datemi cattive notizie

1 Dicembre 2015

di Ottavio Cecchi
[da “La Fiera Letteraria”, numero 38, giovedì 21 settembre 1967]

Come al solito, mi sentii domanda ­re:

– Parente di Emilio?

Risposi di no, e come al solito, ag ­giunsi:

– Noi, a Firenze siamo come gli Smith in Inghilterra.

I Saba se ne stavano tutti e tre nel corridoio, con pacchi e valigie, di ­sorientati nella nuova casa. Non li avevo mai visti prima. Sapevo sol ­tanto che erano ebrei. L’uomo anzia ­no era un poeta.

L’idea che mi ero fatto di un poeta era differente. Era quella volgare: un dandy o uno straccione. D’Annunzio era un dandy. Carducci e Pascoli non erano né dandies né straccioni. Erano poeti ufficiali, gente che faceva un mestiere, insegnava all’Università, e a tempo perso faceva poesie. Mi at ­traversò la mente la storia della stro ­fe saffica.

Ho fatto a tempo a essere allievo

di un’allieva del Carducci e allievo

di un allievo del Pascoli. Tutti e due raccontavano questo aneddoto.

Una mattina, il Carducci aveva chie ­sto un esempio di strofe saffica.

Uno cominciò a recitare:

A le cineree trecce alzato il velo verde, nel libro una britanna cerca queste minacce di romane mura al cielo e al tempo.

E il Carducci incollerito: « Questo non conta, questo non conta! ».

Per il Pascoli cambiavano le parole, ma la musica era la stessa.

Quell’uomo nel corridoio non pare ­va né un dandy, né uno straccione, né un poeta ufficiale. Somigliava a un operaio.

Me ne accorsi quando lo vidi stri ­sciare lungo il muro, nel corridoio in penombra, portando una bottiglia nella mano destra. Andava a comprar ­si un po’ di vino. Per questo sfidava le pattuglie dei fascisti e, forse, un incontrò anche più pericoloso: mettia ­mo, un letterato che non si sapeva se avesse o no rivoltato la gabbana do ­po il 25 luglio, o uno di quei tali che avevano seguito la feluca dell’Accademia fino a Firenze. Con il suo berret ­to, il suo vestito un po’ vecchio e stin ­to, e con quella malinconia sul viso.

Mi passò accanto e mi dette un’oc ­chiata di sospetto.

Dissi:

– Buonasera.

La risposta non l’ebbi.

Quando tornò, si rinchiuse nella sua camera, una stanza sul mezzo del cor ­ridoio con le finestre sulla strada, e non lo vidi più per tutto il giorno.

Avevo nella mente un discorso già pronto. Portavo in tasca una carta d’identità falsa; i tempi erano confusi la gente mescolata, nessuno poteva sa ­pere il mio vero nome. Ma quando si venne alle presentazioni, mi accor ­si che non potevo mentire.

– Mi hanno detto tutto di lei. E an ­che lei, forse, sa già chi siamo noi.

– Non so nulla â— risposi; ed era, in parte, la verità: â— Né voglio sa ­perlo.

– Mio padre è Umberto Saba. Non dica a nessuno che lo ha visto.

Risposi bruscamente a questa di ­mostrazione di fiducia. Dissi che non era mia abitudine parlare di cose che non mi riguardavano. Volevo evita ­re un discorso lungo. Più a lungo era il discorso, più parlavo. A quei tempi, era meglio parlar poco.

Decisi di dire il mio vero nome.

Me l’aspettavo, non era la prima volta:

– Parente di Emilio?

La risposta sugli Smith d’Inghilter ­ra venne da sé, come tante altre vol ­te. Il nome che mi ero preparato nel ­la mente e che corrispondeva a quello della carta d’identità falsa, rimase nel limbo delle parole non dette.

Arrivai con tre libri sotto il braccio: i due volumi dei Riformatori italiani di Frederic C. Church e La gazzetta nera di Guido Piovene. Mi affacciai alla porta della stanza grande, quella che dava sul giardino, nella quale Sa ­ba passava le giornate, di solito, leg ­gendo. Anche ora, egli era accanto al ­la stufa e leggeva. Riconobbi il libro: era Panzini. Altre volte glielo avevo visto tra le mani. Non capivo perché gli piacesse uno scrittore accademico, di poca sostanza e fascista come quel ­lo.

Senza alzare la testa, mi fece cenno di entrare.

– Senti, ascolta, â— mi disse. Posai i miei libri sulla tavola e mi sedetti.

Gli piaceva leggere ad alta voce. Mi lesse una lunga storia. Non ascoltavo.

Saba si accorse che non ascoltavo.

Abbassò il libro e mi chiese:

– Che cosa è successo?

– Fuori? â— domandai per allonta ­nare la risposta.

La domanda non era nuova. Dac ­ché era venuto ad abitare in quella casa, chiedeva sempre novità a chiun ­que vi approdava. Erano domande piene d’ansia, che temevano le rispo ­ste. Se la notizia era una delle solite di quei giorni, colui che riferiva si prendeva una maledizione. « Non dir ­melo! Non dirmelo! â— gridava allar ­gando le vocali secondo il parlar trie ­stino. â— Che tu sia maledetto! » e an ­dava a rifugiarsi nella sua stanza. In ­vece, riusciva persino a sorridere (ra ­ramente lo vidi sorridere, in quei me ­si) se le notizie erano buone. Soprat ­tutto voleva sapere dei partigiani: dov’erano, se erano molti. Una volta che m’ingegnavo di fargli un quadro preciso delle montagne intorno a Fi ­renze, lui si tolse la pipa di bocca e fece un gesto rotondo, in aria, con la mano:

– Io, la tua città, la conosco me ­glio di te. Ci sono stato quando tu do ­vevi ancora nascere.

Non gli dissi nulla dei rastrella ­menti.

– Anche tu â— disse rispondendo al mio silenzio: â— non mi dai mai buo ­ne notizie.

E ricominciò a leggere. Non avevo mai sentito nessuno che si abbando ­nasse come lui nella cantilena della lettura. Quando chiuse il libro e mi domandò se mi fosse piaciuto quel Panzini, per fortuna non mi dette il tempo di rispondere. Avrei risposto una bugia, avrei detto di sì, e invece non sapevo neppure che cosa mi ave ­va letto.

Sicché fui contento quando, posato il libro, cominciò una di quelle sue passeggiate da prigioniero, su e giù per la stanza, parlando, accendendo e riaccendendo la pipa.

Una di quelle sere, ero tornato a ca ­sa con Ariel ou la vie de Shelley di André Maurois.

– Shelley ti piace? â— mi chiese

– Sì, mi piace, â— risposi.

– Cos’è che ti piace?

– L’Ode al vento occidentale.

Stette un poco a pensare, poi disse:

– Troppe donne, troppi fiori. Quel ­lo Shelley â— ripeté: â— troppe donne, troppi fiori.

Andò su e giù per la stanza. Poi disse:

– E del Leopardi, che cosa ti piace di più?

Anche questa domanda aveva una ragione. Avevo con me, e Saba dove ­va averlo visto, un libretto dei Canti con una brutta copertina verde. Lo avevo comprato su un barroccino di libri usati in via Verdi.

– Le ricordanze, â— dissi.

Cominciò a fare di no con la testa guardando fisso per terra. Nemmeno questa volta era d’accordo con me. Al ­la fine disse:

– Voi giovani non capite niente. Scommetto che anche a te, come a Spinella, piace Gide.

Lo temevo come una coscienza, non mi azzardavo a dare risposte lunghe, a spiegane le preferenze: dicevo sol ­tanto la verità.

– Sì, â— risposi.

Si voltò. Il viso gli si era arrossato e gli occhi gli si erano accesi per l’ira e, anche, per il fumo della pipa che, nel frattempo, si era messo a riaccendere con furia, a grandi bocca ­te. Cominciò a tossire, perché il fumo gli era andato di traverso insieme con quel sì che io avevo risposto alla sua domanda su Gide.

Smise di tossire. Tacque. Credevo che la cosa fosse finita lì, con quell’ar ­rabbiatura, e che ora mi dicesse quale poesia del Leopardi gli piacesse di più.

Invece, l’arrabbiatura era al colmo. Riprese flato, si mise la pipa in boc ­ca, alzò gli occhi e le braccia, e tra i denti gridò:

– Ma che cosa vi piace di Gide, a voi giovani! La sua omosessualità? Ri ­sposi:

– Mi piace perché ha scritto La porta stretta.

– Giuro che è il solo libro di Gide che hai letto.

– Sì, â— risposi.

Com’era venuta, l’ira se ne andò.

– Sopra il ritratto di una bella don ­na. E’ la più bella poesia di Leopardi, disse calmato.

Fece anche questa domanda:

– Cosa credi che si provi morendo per fame?

Il problema della fame, a quel tem ­po, c’era: e una volta ero rimasto sen ­za toccar cibo per giorni e notti: ave ­vo creduto di dover fare una morte orribile. Ma alla fame si oppone la ri ­cerca del cibo. Ero andato in giro per la casa vuota nella speranza di trovare qualche cosa lasciata dai pa ­droni. Però si poteva risolvere in un altro modo, questo problema: con la morte. Saba mi ribaltava i pensieri.

Feci appello all’esperienza. Dissi:

– Si prova un morso profondo nel ­lo stomaco, un dolore che non si cal ­ma mai, e nella gola qualche cosa va su e giù; la testa si vuota e pare di es ­sere ubriachi come se si fosse bevuto un paio di bicchieri a digiuno.

Saba, continuando la sua passeg ­giata in lungo e in largo per la stan ­za, tentennò la testa:

– Questa è la fame, â— disse, e mi parve di capire che anche lui ne ave ­va un’esperienza diretta: lo capii dal suo sorriso. O forse sorrideva per ­ché non capivo.

Disse poi:

– Dicono che sia una morte bellis ­sima. Anche la morte per assidera ­mento dicono sia bellissima.

Il discorso non mi pareva giusto. Nel quartiere dove abitavo, erano tor ­nati molti soldati dalla Russia: aveva ­no provato i congelamenti è dicevano di non poter dimenticare quelle sofferenze.

– Si hanno delle visioni, â— sentii che aggiungeva.

Riaccese la pipa, in quel gesto che per lui era spesso una maniera di ri ­prender fiato, di riordinare le idee o di meditare su un pensiero. Comin ­ciò a contare sulle dita i giorni della settimana dicendo soltanto la prima parte del nome del giorno e spostan ­do l’accento sulla prima sillaba. Ne venne fuori una filastrocca, una spe ­cie di cantilena in dialetto, che Saba diceva allo stesso modo delle poesie. Non seppi che conto facesse. Il tempo lo ossessionava. Seppi a chi pensava. Disse che pensava a Virgilio Giotti.

Recitò qualche verso in triestino, poi tornò sul discorso della morte per fame.

– Dice che si abbiano visioni bel ­lissime â— ricominciò â— sia nella mor ­te per fame che nella morte per fred ­do. Dopo un primo momento di sof ­ferenza, si entra in un mondo di vi ­sioni.

Puntò contro di me il cannuccio della pipa:

– Sei religioso?

Riordinai le idee.

– Il problema non m’interessa. Non credo neppure a chi dice che questa indifferenza è una maniera di essere religiosi.

Non continuò. Parlava con me, ma era un monologo.

Una volta, per giustificare le mie continue e prolungate assenze da ca ­sa, avevo detto che facevo il mercan ­te nero di carne. Nessuno ci aveva creduto, ma tutti avevano fatto finta di crederci.

Credetti giunto il momento di raccontare questa storia, che a mia volta avevo sentito da altri:

– La notte, molte ore dopo l’inizio del coprifuoco, arriva il vitello. Con ogni cautela, lo fanno fermare alla porta di una casa, poi gli legano il muso perché non si metta a muggire all’improvviso e lo spingono nell’àn ­dito. Qui comincia la seconda parte. Gli zoccoli della bestia vengono avvol ­ti con stracci, quindi i macellai im ­provvisati, tra i quali c’è sempre uno del mestiere, cominciano a spingerla per il didietro su per le scale. Dopo un bel po’, il vitello arriva all’ulti ­mo piano, dove tutto è pronto per la macellazione. Ci vuole il colpo preci ­so. Ma a questo punto, il più è fatto.

Saba mi ascoltava guardandomi fis ­so, con quel suo berretto tirato indie ­tro sulla nuca. Quando ebbi finito, si mise a ridere. E ridendo, mise carne e ketchup nel mio piatto.

La Lina si volse a lui e gli disse:

– Dappertutto si trovano amici, persone uguali a noi. Vedi, gli piace il ketchup, come a te. Fece una pau ­sa, come se avesse meditato tutto il discorso e ora esitasse: â— Scommetto che gli piacciono le tue poesie.

Non ebbi tempo di riflettere. Guar ­dai la Lina, poi Saba, e intanto sentii che Saba aveva cominciato a parla ­re: ma senza la consueta violenza nel ­la voce, senza disperazione.

– No, le mie poesie non gli piac ­ciono â— disse. â— Ai giovani non piac ­ciono le mie poesie. Non le capiscono.

La Lina disse:

– Io sono sicura che gli piacciono. Perché non gliele fai leggere?

E, con quel tono possessivo che, so ­la, usava nei confronti delle cose di Saba, mi disse:

– Stasera gliele do, e stanotte se le legge. Tanto non dorme, vero?

Saba insisteva:

– Io dico di no, che non gli piac ­ciono.

Ma era una debole resistenza.

Pensavo che durante le notti inson ­ni, Saba, nella sua stanza, scrivesse poesie. Non so perché, ero sicuro che la Lina volesse farmi leggere non un libro stampato, ma carte scritte a ma ­no. Era solo una inspiegabile intuizio ­ne. Era giusta, o quasi.

Non quella sera â— ci dev’essere stata resistenza da parte di Saba, che non voleva mettere le sue poesie tra le mani di un ragazzo che conosceva appena â—, ma un’altra, ebbi le poesie: un mazzetto di cartelle scritte a mac ­china, corrette a mano qua e là. Le rilessi stampate dopo la guerra: era ­no Ultime cose.

Saba mise ancora lesso e ketchup nel mio piatto.

– Tu non capisci le mie poesie, non le puoi capire, â— diceva.

Io non rispondevo. Non a me par ­lava, ma a un paio di generazioni cre ­sciute nel buio del fascismo. Non po ­tevo rispondere a nome di tanta gen ­te. Potevo rispondere, in quei giorni, solo con i fatti. Era quello che cerca ­vo di fare.

Pareva avesse scoperto il ketchup in quel momento. Ne versava in gran ­de quantità per me e per sé e ripete ­va le parole della Lina come se le avesse pronunziate lui per primo:

– Hai visto? Anche a lui piace il ketchup.

E poi, con una inattesa impennata:

– Non so capire che cosa vi piac ­cia di Gide!

Certamente erano le due passate quando sentii bussare alla porta della mia camera. Mi alzai a sedere:

– Avanti!

Apparve prima un braccio di Saba, la mano teneva un bicchiere vuoto, quindi metà della sua persona. Si era affacciato, ma non entrava; restava sulla soglia, e sul viso aveva un’espressione implorante. Aveva il suo berretto da operaio in testa, la sua giacca di tutti i giorni, e la pipa in bocca. Sotto il braccio portava i due volumi del Church.

Siccome esitava:

– Avanti, â— ripetei.

Finì di aprire la porta e venne ver ­so di me.

Non diceva nulla, soltanto tendeva il bicchiere. Doveva essersi ricordato dì quello che avevo detto su quel mio metodo per prender sonno: un paio di bicchieri di vino e, poi aspettare di scivolare nel dormiveglia. Mi alzai. Posai il libro e andai verso il tavoli ­no. Presi il fiasco e riempii il suo bic ­chiere, poi il mio. Bevvi, e bevendo vidi Saba appoggiarsi all’armadio e cominciare a bere allo stesso modo di mio nonno Giona e di tutti gli uo ­mini che hanno capito quanto il vino sia davvero amico dell’uomo. Teneva il bicchiere con il pollice e l’indice della mano destra e beveva piano, a labbra strette, per filtrare e gustare più a lungo il sapore. Quand’ebbe fi ­nito, fece un passo avanti, mise i due volumi del Church sul comodino, e mi tese di nuovo il bicchiere. Glie ­lo riempii e finii di riempire anche il mio, che avevo vuotato a metà. Il rito si ripeté. Fermo, questa volta nel mezzo della stanza, sollevò il gomito (anche questo sollevare il gomito ver ­so l’alto era un gesto antico, che ave ­vo visto mille volte: versare per ter ­ra l’ultima stilla, far vedere che si è bevuto tutto. Come un grazie detto al ­l’ospite.

Con la voce, disse:

– Grazie.

Soffriva. Ogni notte era l’ultima, ogni giorno era l’ultimo. Lo temevo molto, non seppi dirgli una parola.

Fu lui, invece, a dire a me queste parole:

– Anche tu, una famiglia disunita.

Poi le ho trovate scritte. Sapeva poco di me, quel poco che gli aveva ­no detto le Line, ma aveva capito tut ­to: di me e delle cose di allora, di me e di una generazione cresciuta con il cuore scisso. Egli aveva già scoperto la sua contraddizione, noi dovevamo ancora crescere, maturare.

Guardò i libri sul comodino. Prese La gazzetta nera, sollevò il volume e mi fissò, per chiedermi se potesse prenderlo.

– Tu lo hai letto?

– Sì, â— risposi â— quasi tutto. Ma posso finire di leggerlo un’altra volta.

Con uno sguardo di gratitudine, mi disse:

– Grazie, sai, grazie.

Non si era dimenticato del sonnife ­ro. Si sentiva in debito dacché mi aveva detto: « Stasera le Line ti da ­ranno ancora sonnifero ». Ma io non ero tornato a casa e lui non aveva po ­tuto mantenere la promessa.

Andandosene, ripeté:

– Stasera, le Line ti daranno an ­cora sonnifero.

Uscì e si rinchiuse in camera sua. Sentii che batteva la pipa nel muro, fino a tardi. Verso l’alba, arrivò il sonno.

La Lina mi era venuta incontro nel corridoio. Doveva avermi sentito rin ­casare, e ora mi diceva:

– Di là c’è Vittorini.

Non me l’aspettavo di essere pre ­sentato a lui. Avevo la mente altro ­ve, alla mattinata che avevo trascor ­so, alla fuga lungo le strade del cen ­tro, io e un altro, inseguiti, visti da due guardie repubblichine, presi e la ­sciati in un portone: di dove, quando non avevamo visto più nessuno, né vicino a noi né per la strada, erava ­mo usciti di corsa mentre cominciava un rastrellamento. Uno a destra e uno a sinistra:

– Dài, ci vediamo domani, corri!

Mi ero infilato per le stradine di San Lorenzo, scegliendo le più stret ­te e tortuose, mutando direzione a ogni cantonata. Poi, su per via Ginori, via San Gallo, piazza Cavour. Mi ero fermato in una trattoria sotto il mo ­numento a Savonarola. C’era gente che non conoscevo e che non mi cono ­sceva, pittori e scultori di piazza Do ­natello e di via degli Artisti, tutti riu ­niti insieme in una tavolata. Io stavo in disparte, timoroso per istinto e per ragione. E se mi vedono? e se mi tro ­vano? Lì c’ero già’ stato un paio di volte. Nessuno mi chiedeva nulla, neppure le tessere. Naturalmente, niente pane, niente carne: soltanto verdura per primo piatto e per se ­condo. Dopo, filavo via.

Saranno state le quattro quando ero entrato in casa. Era un rifugio. Quan ­tunque sapessi che a quei tempi nes ­suno era sicuro in nessun luogo, in quella casa finivo per sentirmi pro ­tetto. Era diventata casa dacché c’era venuto Saba con le Line. Era di ­ventata un approdo per molta gente perseguitata. Il rischio era grande, ma nessuno pensò mai di negare l’ospita ­lità a un antifascista o a un persegui ­tato dal fascismo. Natalia Ginzburg ha ricordato nel suo Lessico famiglia ­re il giorno in cui arrivò a Firenze dopo la morte di suo marito. La casa cui approdò fu quella di Saba, iscrit ­ta presso il proprietario sotto il nome di Mario Spinella. Ero nel corridoio quando lei entrò. Ricordo il grido e i singhiozzi.

– Quella povera Alessandra, â— dis ­se la Lina passandomi accanto. Aveva detto il nome sotto il quale, in quegli anni, si era nascosta Natalia Ginz ­burg.

Così era spesso. Molta gente perse ­guitata trovava riparo in quella casa di perseguitati: il pianterreno di un villino piccolo borghese che a me face ­va immaginare i tempi in cui Firenze era diventata capitale d’Italia, e i bu ­rocrati si facevano costruire case nel ­la prossima periferia: burocrati tori ­nesi venuti con le scartoffie dei mini ­steri e anche burocrati di altre città, nuovi di zecca, reclutati strada fa ­cendo dall’unità nazionale.

– Non vuole che glielo presenti?

Di lui e di Conversazione in Sici ­lia avevo parlato con Saba, ma più spesso ne avevo parlato nelle serate in cui tentavamo di portare in fondo una partita a carte e, invece, i ricordi, le rievocazioni, le impressioni sulle letture prendevano il sopravvento. « E’ uno dei più bei libri che abbia letto », dicevo, e poi raccontavo come lo avessi scoperto, come mi fossi indi ­gnato e rallegrato quando Il Popolo d’Italia aveva attaccato Vittorini ac ­cusandolo d’essere un pornografo, e come avessi portato quel libro in giro tra gli amici.

– Sì, â— risposi all’invito della Li ­na.

Entrammo insieme nella stanza grande. Vittorini, vestito di scuro e con i baffi, parlava appoggiandosi con un gomito al grande mobile buffet che occupava la parete opposta alla porta del giardino. Saba era seduto accanto alla tavola e lo ascoltava. Era sorridente. Dal Nord, Vittorini aveva portato buone notizie: fascisti e te ­deschi non avevano più tregua, in nessuna città, in nessun paese d’Ita ­lia.

Vittorini, quando mi vide, smise di parlare e mi guardò. Gli dovevano avere già parlato di me e dei miei entusiasmi per il suo libro. Fatto sta che quando ci tendemmo la mano, ar ­rossimmo tutti e due. Io cercai di dire qualche cosa su Conversazione in Sicilia, sulla lettura che ne avevo fatta, sulle discussioni con gli amici, e via di seguito; lui cercò di ringrazia ­re, ma era imbarazzato, esitante. Ne venne fuori un colloquio, su per giù, di questo tenore:

– Sa che è il più bel libro che io…

– Ah, per carità: è una cosa così…

– Eh, no, altroché…

Gli altri ci guardavano e credo si divertissero.

La casa di Saba, in piazza Pitti, era una specie di porto di mare. Gente che andava e veniva, uomini e donne, ragazzi e ragazze. La famiglia, alla fine, aveva trovato riparo lassù, in quell’ultimo piano. Dalle finestre, si vedeva una piazza Pitti sbiancata dal sole, polverosa, percorsa in lungo e in largo dalla gente che, nella gran ­de confusione e nella generale mi ­seria di quei giorni, si era trovata im ­provvisamente ospite nei saloni del Palazzo.

Io arrivavo in bicicletta. La mette ­vo in fondo all’androne, chiusa a chia ­ve, e salivo in cima. Cominciavamo a parlare, ma arrivava qualcuno: ab ­bracci, saluti, un’atmosfera da scam ­pato pericolo. Il discorso ricomincia ­va tra altre voci, altri discorsi.

Visto Il dittatore?

– Sì.

– Levi farà l’articolo di fondo sul ­la Nazione del popolo.

Carlo Levi aveva finito o stava ri ­leggendo Cristo si è fermato a Eboli.

Fu la Lina a parlarmene.

– E’ bello? â— le chiesi io.

– Sì, â— rispose lei.

– E’ un romanzo o che Cosa?

– Un po’ l’uno e un po’ l’altro. Parla di quando Levi era al confino a Eboli. Si avvicinò ancora di più e mi disse: â— Non è bello come una poe ­sia di Umberto.

Nella stanza, ci saranno state alme ­no dieci persone. Era una stanza con una finestra a strapiombo sulla piaz ­za, con un tavolo grande nel mezzo, un mobile di qua e uno di là, un quadro rosa di Carlo Levi alla parete, un divano dove sedevano le persone che non avevano più trovato sedie.

Saba, in quel chiacchierio, se ne stava seduto accanto alla finestra e leggeva. Ora capitava sempre più spesso che avesse negli occhi quel sorriso astuto che per un attimo gli era balenato sul viso la sera della ce ­na con il ketchup. Ma spesso la ma ­linconia lo riprendeva, ed era quan ­do pensava a Trieste, che era di là del ­la Linea gotica. Come quella mattina che lo incontrai in piazza Pitti. Anda ­va verso il portone di casa appoggian ­dosi alla mazza, con quel suo passo tal quale quello di mio nonno Giona, tutto su una parte, poggiato su una gamba sola. Lo raggiunsi, fermai la bi ­cicletta e lo salutai. Mi guardò per un attimo, quindi venne su da un pozzo di pensieri. Disse queste paro ­le:

– L’odierò sempre la tua città.

C’ero stato bene qui. Ma ora la odio.

città maledetta!

Provai una stizza incontenibile. Poi capii. Io ero a casa mia, nella mia cit ­tà, libera, povera, ferita, piena di gen ­te, di polvere, di odori nuovi: lui, in ­vece, no. Più di molti altri, io sape ­vo che razza d’inferno fossero stati i mesi trascorsi.

Non dissi nulla. Ma lui concluse:

– Non potrò mai tornare a Trieste.

S’infilò nell’androne senza dire nient’altro, e lo vidi sparire nell’oscurità delle scale.

Ora non badava ai discorsi che si facevano nella stanza. Era preso dal ­la lettura. Mi aspettavo che, all’improvviso, come spesso faceva, comin ­ciasse a leggere ad alta voce. Ma poi si alzò e venne tra noi. In quel mo ­mento, io parlavo dei comunisti e del « partito nuovo ».

Mi ascoltò fino in fondo, poi mi guardò come per scoprire se aves ­si mutato faccia. E disse:

– Va là! In politica, tu la pensi co ­me me. Sei un liberale.

– Dopo tante battaglie, il Cid muo ­re di crepacuore la domenica di Pen ­tecoste.

Andavamo su e giù nel chiostro. La ragazza era abbastanza bellina, picco ­la e rotondetta, e gestrosa

– Come comincia?

– … lorando de los ojos.

– Questi professori â— disse â— han ­no perduto tutti la testa con la politiica. Prima, nessuno se ne occupava.

Anche io pensavo che, di politica, non ci se ne dovesse più occupare. Ma non mi piaceva sentirmelo dire.

– Prima c’era il fascismo, â— ri ­sposi â— ora c’è la libertà.

– Prima c’erano gli squadristi, ora ci sono i partigiani.

Annaspai in cerca di una risposta. Non la trovai. Pensavo che sarebbe dovuto passare il tempo, gli anni e le generazioni. L’amarezza non serviva a nulla. E questa era la prima, rico ­nosciuta lezione di dialettica.

Si avvicinò un altro. Anche lui si lamentava della libertà. Diceva che non c’erano più i maestri né il rigore di un tempo.

– Se le cose stanno così, prendia ­mo noi un’iniziativa.

– Sentiamo, â— disse lui.

– Chiediamo a uno scrittore, a un poeta, a chi vuoi, di venire a parlarci della sua opera.

– Chi, per esempio?

– Qui a Firenze c’è Montale, c’è Saba.

Fece la faccia di uno che sentiva questi nomi per la prima volta.

– Che vuoi, â— divagò â— con tutto il casino che c’è in giro, c’è poco da fare.

– C’è la libertà, â— dissi io.

– Mi sembra un gran casino, â— ri ­peté lui.

La ragazza diceva:

– Cid. Arabo, sid, che viene da sayyd, che significa signore. Come morì il Cid?

(1949-1963)

Ottavio Cecchi

Copyright 1967 by Vanni Sclieiwiller, Milano.


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Bart