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LETTERATURA: I MAESTRI: L’ottica crudele di Francesco Berni

28 Settembre 2017

di Giovanni Macchia
[dal “Corriere della Sera”, domenica 22 giugno 1969]

Non ho mai arrossito, neanche dinanzi ai giovani pe ­trarchisti del mio secolo (co ­me diceva Baudelaire per Buffon), della mia ammira ­tone per la poesia di France ­sco Berni. Di essa mi sono oc ­cupato appena uscito dall’uni ­versità, e la leggevo come uno spropositato corollario a un testo che sembrava, e non era, suo perfetto rovescio: Les fleurs du mal. Scrutando oggi nei miei gusti d’allora (che non son gran che mutati), penso che l’amore della lette ­ratura eccitasse in me un de ­riso sfogo antiletterario, la ripugnanza verso la convenzio ­ne raffinatissima, il gergo, la codificazione. Non si è gran ­di scrittori, pensavo, senza una certa dose d’intimo e naturale disprezzo per la propria scrittura. Era questo il primo significato che davo al termine « realismo ». Baude ­laire, da grande poeta, resta ­va sempre in bilico tra le due esperienze: poesia pura e for ­sennato senso della realtà. Berni si rovesciava pervicace ­mente e giocosamente tutto da una parte. Ma ambedue reagivano a una scuola: il pe ­trarchismo bembiano, da un lato, e il lamartinismo e il formalismo paganeggiante, dal ­l’altro. Senza contare che tut ­ta una tematica bernesca rien ­tra per antiche strade nella grande officina baudelairiana: come cercherò di mostrare in altra sede.

Quando allora scrivevo, il Berni non godeva presso la critica universitaria (Momi ­gliano) e non universitaria (Croce) molta considerazione. Ci si curava poco dello stacco che quel poeta imponeva agli inveterati schemi della tradi ­zione burlesca per trascinarli verso il clima, non di rado ro ­vente, di una grandiosa inventività. Nella violenza con cui investiva, sotto un riso che diventava sberleffo, il calmo decoro umanistico per propor ­ci la visione derisoria, per frammenti, di un mondo ca ­povolto, egli ha per colleghi Ruzante e Rabelais. E perciò è da accogliere con gratitudi ­ne, dopo il bel saggio del Mar ­ti e la voce cosi densa e lu ­cida del Mutini nel Diziona ­rio biografico degli italiani, l’edizione delle Rime che Gior ­gio Bárberi Squarotti ha pre ­parato recentemente per Ei ­naudi (pp. 213, L. 2500). Per la prima volta la poesia del Berni viene affrontata alla luce di una critica moder ­na e modernamente attrezza ­ta. E con i migliori risultati. Ad un’ampia e acuta introdu ­zione ove il problema critico della poesia bernesca viene osservato secondo le più diver ­se angolazioni, segue analiti ­camente un felice commento, utile anche a chi, come suol dirsi, non è del mestiere.

Anarchia

Dei molti sostantivi che pos ­sono suggerire l’estrema con ­traddizione del suo mondo (il riso e il flagello, il maligno gioco della sorte, la solitudi ­ne, la crudeltà e il dolore, la pena e l’abbandono, il disin ­ganno, l’oscenità, la misogi ­nia, l’inversione) sarà l’anar ­chia che riesce a comprender ­li tutti, e Bárberi Squarotti non manca di porlo bene in rilievo. A una letteratura ari ­stocratica, alla distinzione de ­gli stili, alla misura, all’armo ­nia, alla serenità di rapporti e onestà di rappresentazione, Berni, nella sua orgia burle ­sca, oppone la sete del parti ­colare, la categorica distruzio ­ne dell’anima delle cose per porne in evidenza la corruzio ­ne nauseante, con una insi ­stenza che sa di demoniaco. Questo sentimento anarchico, in cui può celarsi il tormento della negazione e il gusto del ­l’abnorme, rappresenta l’aspet ­to curiosamente moderno di un poeta in rivolta. E la sua tremenda carica di energia esplode in modo significativo su due cataclismi: il diluvio e la peste.

I due temi sono tornati ad essere, in questa nostra epoca alluvionata, attuali. Il secon ­do è divenuto, nel romanzo e nel teatro, quasi un tema al ­la moda; ed è, com’è noto, an ­tichissimo. Ma anche in que ­sto caso il Berni si distingue nettamente da altri poeti bur ­leschi di argomenti affini. Il tempo della peste è il tempo dell’anarchia e del delirio col ­lettivo. La sua apparizione non conferma una moralisti ­ca giustizia celeste da predicatori, ma accende i termini di una concezione di vita, ret ­ta sul filo del pericolo asso ­luto, stralunata e poetica, ir ­razionale e delirante: un nuo ­vo secol d’oro nato dalla «biz ­zarria » e dalla stranezza, una forma di felicità per le genti « che ‘1 dolor fa ebbre ». Da questa gratuità immotivata, che induce ad atti inutili e privi di benefici nel presente, nasceva per Artaud il teatro: e non pochi spunti del discor ­so del Berni, spostati in cli ­ma incandescente, possono es ­sere ricondotti fino all’autore del «Teatro e la peste », ac ­costamento tanto più singola ­re in quanto spontaneo, invo ­lontario.

Quando Artaud, descrivendo le bolle della malattia attor ­niate da cerchi, pensa all’anel ­lo di Saturno intorno all’astro incandescente, ci dà a suo modo, e a sua insaputa, nella dilatazione ottica dell’immagi ­ne, un esempio di poesia ber ­nesca. Si direbbe, egli diceva, che attraverso la peste scop ­pi un gigantesco ascesso collettivo, morale quanto socia ­le: una crisi che, come nel tea ­tro, si risolve con la morte o con la guarigione. Berni, con maggior felicità d’invenzione, risuscita l’immagine del vaso di Pandora (etimologicamen ­te: «tutti i doni », ma da dove escono «il cancaro e la febbre »). La peste ha un effetto benefico su questo «corpaccio del mondo » da cui bisogna spesso «risciacquare il fondo ». La natura «piglia una medici ­na di morìa »: «quel che i medici nostri chiaman crisi ».

Tra i sensi, che in forma d’appetiti hanno in questa poesia funzione deliberatrice ed ingombrante, all’occhio (alle sue spere, alla sua «virtù ») penso sia affidata la parte più viva ed esaltante. L’impegno del Berni è schiettamente fi ­gurativo: i più esuberanti dei suoi elogi son diretti a pittori del tempo. Ma il suo occhio è senza colore, come quello di Michelangelo, cui egli si rifà di continuo. Fissato sulla di ­mensione della cosa, sulla sua sostanza, detesta gli aggettivi, facile pascolo dei petrarchi ­sti, e ritrova la via di una poetica liberazione, quando l’oggetto comincia a defor ­marsi, a invecchiarsi, e non è più se stesso e può essere altre cose: e sciamano allora, come da un alveare, nidi d’im ­magini, di similitudini para ­dossali, di metafore assurde. E’ un labirinto scavato nella materia, osservato come per un fissaggio di lenti diverse.

Riso e inganno

Bárberi Squarotti definisce «curiosamente terremotata » l’ottica del Berni. Ed è una definizione felice. Ma si possono rintracciare in scritti di ottica contemporanei, esempi concreti dei modi di visione propri del Berni (e chi vuole può documentarsi nel bel vo ­lume che Vasco Ronchi ha curato recentemente per le edizioni del Polifilo). L’amico Fracastoro, cui egli dedicò un famoso capitolo, trattò degli inganni generati dal guarda ­re la realtà attraverso le lenti ottiche. «Le lenti ottiche â— scrisse nel suo latino â— fan ­no vedere volti mostruosi, al ­tri satirici, altri di forma an ­che più turpe; ve ne sono al ­cune che fanno vedere le cose come iridate; altre, di un anel ­lo posto in mezzo alla tavola, ne fanno vedere dodici, tal ­mente uguali che, se uno si propone di indicare quello ve ­ro, si sbaglia, con grandi ri ­sate dei presenti ». La poesia burlesca è in questo riso: in un giocare su questi effetti di illusione deformante, sugli in ­ganni («deceptiones », diceva Fracastoro) della falsa pro ­spettiva. La vista non è stru ­mento fedele di verità. Può es ­sere ingannata, e da questo inganno dei sensi nasce il con ­cetto d’illusione prospettica.

Anche il processo di ingran ­dimento, cui il Berni sottopone le sue vittime, fa pensare agli effetti di una poesia al microscopio. Se il petrarchi ­smo è poesia del lontano, im ­mersa nella nebbia del ricor ­do e del tempo, la poesia ber ­nesca è poesia dell’estremamente ravvicinato e dell’in ­grandito; vive nello spazio da cui ha inizio scientificamente il processo di deformazione. Nel suo poema sulle Alpi il Rucellai seguiva la picciol for ­ma di un bambino appena na ­to che, visto in un «bel specchio lucido e scavato », diven ­tava un gran colosso, «simile a quel del Sol che stava in Rodi ». Un’ape sembrava un drago «od altra bestia che la Libia mena ». Il Berni trasfe ­risce tutto nell’ottica della sua immaginazione. Registra che l’imperatore e il prete Janni sono per alcuni «maggior del torrazzo di Cremona ». Per una vecchia lombarda il papa non era un uomo, «ma un drago, una montagna, una bombarda ».

Anticaglie

I due processi stilìstici, qua ­si antitetici, che lo guidano nelle sue «descrizioni » e che potrebbero definirsi realismo e astrazione, sono in realtà le due fasi di un unico processo prospettico, dinamico, ora ral ­lentato, ora accelerato, così come i giochi prospettici, le ­gati alla certezza naturale e scientifica, sconfinano nell’il ­lusione. Il realismo attraverso la scienza imbocca la strada del sogno; il risultato di una visione scientifica della real ­tà sarà il barocchismo con i suoi deliri spaziali. In un gio ­co d’anamorfosi le immagini più solenni e venuste, allargate e allungate sugli spec ­chi, si trasformano in carica ­ture che muovono il riso. Donne che hanno molto dell’elefante; vecchie cameriere che diventano personaggi dei romanzi cavallereschi (l’Ancroia) in buffe genealogie che sostituiscono le genealogie de ­gli Dei: uomini «fuggiti dal ­la notomìa » o dall’ipsilon e dall’omega di un testo greco. E il procedimento burlesco, umanistico e popolaresco in ­sieme, è sempre quello: attra ­versare una natura senza tem ­po per giungere al completo disseccamento dell’umano. Villon nelle sue vecchie descritte con crudele verità sentiva la giovinezza perduta. Erano ancora delle creature. Ogni soffia di umanità è spento nel Berni. I suoi «parenti », nella loro inutile vecchiaia, al di fuori degli eventi, del senti ­mento e delle passioni mute ­voli, nell’operazione culturale cui vengono sottoposti, diven ­tano statue: «anticaglie natu ­rali e vere ». Allo stesso modo, le badie diroccate e in abban ­dono, scenografiche, ribelli, stralunate, distratte dal rit ­mo vivo della natura, come una prospettiva mostruosa, sembra che non riproducano una realtà, ma un quadro; una ­rovina che dura e durerà in aeternum.

Un ultimo sguardo deve es ­sere diretto all’imponenza del personaggio, del personaggio-poeta (direbbe Contini) di questa minuscola commedia degli appetiti. Esso è chiama ­to sulla scena dall’estremo ten ­tativo di «teatralizzazione » cui ogni cosa viene sottoposta, e dall’intrecciarsi e confonder ­si delle forme espressive: ca ­pitoli, «paradossi », «descrizio ­ni », racconti, ritratti. I mi ­gliori capitoli del Berni (come quello, rabelaisiano, del debi ­to), nella loro struttura, nel ­l’avventura del discorso, delle citazioni, degli aneddoti, per quel senso scucito, di divaga ­zione e di sorpresa, tra cultu ­ra e vita privata, non sono tanto lontani da un «essai » di Montaigne. Nel commento continuo che, come la lunga striscia di un variopinto aqui ­lone, il Berni impone a for ­me perfette come il sonetto, si inseriscono, nell’intervento diretto del dialogo o del mo ­nologo, le battute, gli «a par ­te », e tutto alimenta il fuoco scenico di un attore, lui, il Berni, che sta tra lo Zanni e il Dottore, l’umanista e il Matamoro. Resta ancora da approfondire quel che la commedia dell’arte, come era teatrale del disordine, debba alla immaginazione bernesca, che in poesia ha subito adattamenti e sfruttamenti infiniti per tutta l’Europa. Certo, a voler eleggere, come suoi lettori, due autori-attori stranieri, a di ­stanza incommensurabile l’un l’altro, da una parte c’è Sha ­kespeare, dall’altra Bruscambille.


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Bart