LETTERATURA: I MAESTRI: L’ultimo Silone: L’avventura d’un povero cristiano8 Novembre 2018 di Geno Pampaloni La figura dell’uomo in fuga, perseguitato, clandestino in pa tria, vittima della ingiustizia umana e per ciò stesso testi mone della giustizia, è una fi gura topica nell’opera di Ignazio Silone. L’identità, alla ra dice, di cristianesimo e socia lismo, come sentimento ele mentare di fraternità e « istin tivo attaccamento alla povera gente », è al centro della sua ispirazione. La concezione di un conflitto insanabile che cor re attraverso tutta la storia, fra libertà e potere, fra spirito di carità e fatale sopraffazione delle istituzioni, fra « perso na » e collettività organizzate per l’esercizio politico (Stati, chiese e partiti che siano) è anch’essa fondamentale nel suo mondo poetico. L’utopia intesa come il sale della ter ra, rivoluzione permanente, quotidiana, umilmente liberta ria, popolare, respiro della spe ranza, dimensione spontanea mente religiosa dell’esistenza (« l’unione dei poveri crea, in certe circostanze di tempo e di luogo, una carica escatologi ca »), è un motivo ininterrot to di libro in libro. I miei romanzi, scrisse una volta il Silone, non sono poli lici: se mai, «antipolitici » nel senso che rappresentano uomini che « resistono » alla politica. E in realtà nessuno con maggiore pazienza e tenacia di Silone ha messo in luce la natura intimamente oppressiva del potere, che, sempre reazionaria, ha trovato ai giorni nostri la sua esaltazione e la sua perfezione nello Stato totalitario, ma è purtuttavia una costante di ogni società. Se la storia è storia della libertà, lo è soprattutto per che è storia della rivolta e del l’utopia. Lo stesso antifascismo, che è costato al Silone quasi vent’anni di esilio, non è per lui che un episodio di una vicenda più generale. I suoi protagonisti, prima che antifascisti, sono, per usar credo non impropriamente un parola cara alla tradizione anarchica, dei « refrattari »: non si oppongono certo all’ideologia totalitaria con un’altra ideologia, ma contrastano la violenza in ogni sua forma Questi temi di fondo si ritrovano tutti nell’ultimo dramma del Silone: L’avventura d’un povero cristiano, (ed. Mondadori, pagg. 280). Il salto dei secoli che egli opera passando dal mondo contemporaneo al medioevo non si avverte. Il protagonista in questo caso è un papa (Celestino V) e non un ricercato politico nel ventennio, ma non fa gran differenza: essi parlano lo stes so semplice linguaggio di coscienza, hanno gli stessi nemi ci nei potenti e nei conformi sti, si difendono dalle sottigliezze della ragion di stato con la stessa conseguenziale logica della saggezza popolare. La loro forza non sta nelle teorie, ma nelle certezze: an che questa è una confessione dell’autore, il quale, nella mi sura in cui l’opera letteraria è proiezione autobiografica, è il più acuto informatore di se stesso. Il discorso del Silone, si tratti di prose di riflessione morale, di romanzi o di dram mi, è unitario sino alla mono tonia, si sviluppa con il me desimo passo, è concentrico ai medesimi temi: da quella certezza morale, egli in prima per sona o i suoi personaggi trag gono i loro modi tipici, che vanno dalla sentenziosità al l’ironia, dall’apologo al sarca smo. Attorno a loro, c’è un immobile paesaggio di prese pio: piazze di villaggio, pove ri attrezzi di lavoro artigiano, l’acqua della fontana, le sco delle sul tavolo nudo, qualche animale domestico, sentieri solitari, nascondigli e grotte nei boschi, la neve invernale sul le montagne da cui scendono i lupi. * L’incontro di Ignazio Silone con la spiritualità francesca na, e con il momento utopisti co del cristianesimo medioeva le rafforzato dalle recenti pro fezie di Gioacchino da Fiore era quindi naturale e destina to. Lo scrittore non fa sforzo alcuno nell’assimilare quella spiritualità al suo mondo, all’« ecumenismo contadino » in cui crede; e a rappresentarla nel vivo scontro tra la chiesa concepita come Regno e l’e sperienza cristiana vissuta nell’attesa del regno dello Spiri to sulla terra. « La storia del l’utopia, egli osserva in uno dei capitoli introduttivi, è in definitiva la contropartita del la storia ufficiale della Chiesa e dei suoi compromessi col mondo ». L’utopia, aggiunge, è « il rimorso » del cristianesi mo istituito in Chiesa nel mon do. L’avventura del «povero cristiano » Celestino V assu me il valore di una parabola, di un dramma ricorrente. Ecco dunque frate Pietro del Morrone (o, come prefe risce il Silone, fra Pietro An-gelerio) già vecchio di qua si ottant’anni, in uno dei con venti d’Abruzzo edificati dalla regola da lui fondata: la sua vocazione essendo duplice, di eremita e di pastore. Gode fa ma di santità, ed il suo spiri to è semplice, la sua purezza di cuore assoluta. A Perugia il conclave, riunito dopo la morte di Nicola IV per elegge re il nuovo papa, è diviso tra le opposte fazioni degli Orsini e dei Colonna, e da più di due anni si trova in una indecorosa e penosa situazione di stallo. Per uscirne, e anche sotto la spinta di Carlo II d’Angiò che mira al vassallaggio del la Chiesa, si elegge papa il monaco santo: santo e perciò, si ritiene, inoffensivo. I nunzi della Curia salgono ai romi taggi sui monti per dare la straordinaria novella. E’ l’e state del 1294: Pietro del Morrone, il vecchio frate eremita, è divenuto Celestino V. Pochi mesi dopo, già prima di Nata le, tutto è già finito. La vita di corte, gli affari di Stato, la politica di poten za in cui la Chiesa è impegna ta, le pressioni del re, le riva lità della Curia: tutto è troppo diverso dal suo cristianesimo inteso come « relazione di anime ». Celestino V, caso inau dito nella storia dei papi, abdi ca, per ritrovare nella solitu dine e nella preghiera la pace dell’anima e la verità del Van gelo. Non fu, dice il Silone, una fuga, non fu « viltade » come lo accuserebbe il verso di Dante (« l’ombra di colui che fece per viltade il gran rifiuto »): fu invece « un at to di coraggio, un gesto di lealtà verso se stesso e verso gli altri ». Anche Papini ave va suggerito, nel Giudizio uni versale, una spiegazione analoga: « onesta fortezza » chia mò la rinuncia a «diventare il principe di una grande azienda politica ». Ma poi, nel suo bisogno impetuoso di grandezza, aveva dato un suc cessore al papa dimissionario: aveva immaginato l’avvento di un Celestino VI, « ardente, eloquente, irruente, sempre arroventato nel fuoco d’oro di Cristo; e lo aveva fatto scom parire fiammeggiando « negli ultimi giorni della Grande Persecuzione ». Per il Silone non c’è biso gno di simili codicilli roman tici. Appena disceso dal soglio pontificio, Pietro del Morrone, ora Pier Celestino, incarna al la perfezione un personaggio siloniano. Il dramma storico si rivela come il palinsesto di una tragedia contemporanea. Egli cerca la preghiera e la so litudine, ma, ormai preso con tro la sua volontà nell’ingra naggio della lotta politica, il suo povero corpo di vecchio è un ostaggio conteso e prezioso nella rivalità tra il nuovo papa Bonifacio Vili e gli Angiò. E’ inseguito, braccato, imprigio nato: i suoi fedeli si disper dono sotto i colpi delle polizie, qualche gruppo ripara in Gre cia, altri nelle Puglie cercano di organizzare i collegamenti. La parola evangelica, la mansuetudine, la sincerità, la purezza di cuore fanno paura, come sempre, ai potenti. La lotta clandestina si riaccende, continua: esilio, persecuzione, speranza. Il vecchio monaco papa potrebbe ripetere alla lettera le parole di Simone Weil care al Silone: « Bisogna essere sempre pronti a mutare di parte come la giustizia, que sta fuggiasca dal campo dei vincitori ». * La forza di Ignazio Silone, anche in questo libro, consiste nel modo originale e quasi misterioso con cui da un qua dro stilistico tradizionale e persino arcaico, erompe un’at tualità morale che non da scampo. E’ sempre più diffi cile situare la sua opera nel quadro letterario contempora neo, anche se i grandi modelli europei della letteratura catto lica e della cultura espressio nista abbiano probabilmente influito sulla sua formazione. Ma, come accade agli scrittori di vena religiosa, frequentato ri degli assoluti, ricerche for mali, sperimentalismi e la stes sa « idea di letteratura » pas sano in secondo piano. Il suo linguaggio è semplice, di sobria e plumbea lentezza; l’ironia, anche la più sferzan te, emerge da un fondo lingui stico al tempo stesso malizio so e solenne e vi si confonde; il suo dialogo è in realtà fat to di monologhi incrociati, nei quali le parole, più che « espri mere », avanzano con una sor ta di caparbia determinazione a occupare delle posizioni, nuovi avamposti della verità. Il suo vero tema è l’oltranza della verità morale, un’oltran za tranquilla e direi fatale: èssa preme sul lettore con la forza inarrestabile di una ter ra che smotta, si appoggia al l’ostacolo (il male, la menzo gna), in silenzio lo annulla. Lo scrittore è ricco di modi simbolici, ma i suoi simboli non intendono oltrepassare la realtà, piuttosto metterla a nu do, in funzione provocatoria nei confronti della verità mo rale che essa racchiude. La tragedia del vivere fa parte delle certezze dello scrittore: ma nel suo mondo non crea lacerazione o grida, finisce con il far compagnia all’uomo co me una consuetudine d’ogni giorno. L’assoluto è di casa anche nel destino degli umi li, salutato come un ospite amico. Si capisce bene come, a chi gli aveva chiesto se si riteneva uno scrittore « impe gnato », il Silone abbia rispo sto di sì, e tuttavia non nel senso sartriano o politico: ma «impegnato nel senso più ri goroso del termine, direi qua si nel senso che il termine ha nel Monte dei pegni ».
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