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LETTERATURA: I MAESTRI: Marcuse e l’uomo a una dimensione

24 Dicembre 2015

di Franco Ferrarotti
[da “La Fiera Letteraria”, numero 22, giovedì 1 giugno 1967]

La fortuna di Herbert Mar ­cuse, nella cultura italia ­na, è assicurata, e bene ha fatto l’editore Einaudi a darci, nella scorrevole tradu ­zione di Luciano e Tilde Gal ­lino, il suo ultimo libro, del 1964, l’Uomo a una dimensio ­ne. Qui infatti, più che nella ricostruzione critica del pen ­siero di Freud di Eros e civil ­tà (Einaudi) oppure in quel- l’appassionato appello per un ritorno a Hegel che è Ragio ­ne e rivoluzione (Il Mulino), si manifestano in piena luce le ragioni profonde di tale for ­tuna, che per molti aspetti arieggia quella di Adorno, e nello stesso tempo si fanno chiari i limiti dell’analisi marcusiana, le impazienze che coprono le difficoltà irrisolte, le generalizzazioni ad alto li ­vello di astrazione che rischia ­no più d’una volta di rivelar ­si come niente più che illu ­strazioni delle mille « astuzie del concetto ».

Nonostante i mutamenti del linguaggio, i nuovi interessi, i temi di ricerca, strutturali o storicistici, che sembrano do ­minare il campo, e tutto un sottobosco di studi che si di ­cono marxistici, la cultura ita ­liana continua ad essere imbe ­vuta e legata alla prospettiva idealistica. Voglio dire che si tratta d’una cultura la quale avverte un sottile disagio, se non entra addirittura in crisi, ogni volta che deve fare i con ­ti con i dati di fatto, con le situazioni specifiche, determi ­nate. E’ una cultura del « bel canto ». Si direbbe che l’uomo colto italiano non abbia anco ­ra potuto elaborare e dare a se stesso come modello di vi ­ta un’idea di libertà che non coincida, dal punto di vista dei rapporti sociali, con l’assoluta irresponsabilità, con la fuga in Arcadia. Da sempre l’intel ­lettuale italiano ha sperimen ­tato in sé una difficoltà straor ­dinaria nel porsi in rapporto dinamico, non necessariamen ­te burocratico, sulla base di un impegno personale, con i problemi quotidiani, determi ­nati e Circoscritti, della comu ­nità in cui vive. La sola al ­ternativa che sembra contrap ­porsi all’irresponsabilità solip ­sistica è la milizia di partito, cioè la stessa cosa: la rinuncia, l’incapacità di assumere un impegno personale, di sen ­tirsi responsabili senza per questo legarsi, mettersi al sol ­do del potente del giorno, dell’organizzazione, cioè della azienda, del partito o della Chiesa.

In una situazione sociale e culturale siffatta il libro di Marcuse è un bell’alibi. E’ ab ­bastanza radicale per far ca ­dere financo il sospetto di una qualsiasi possibilità di utiliz ­zazione pratica a fini servili, investe criticamente tutto un sistema di vita, e nello stesso tempo non impegna a nulla: la critica è così corrosiva e totale che non lascia nulla in piedi su cui far leva, neppure un mattone sbrecciato con cui cominciare la ricostruzione. Non lascia che un deserto da contemplare: un’umanità così ligia agli orari di lavoro, così legata alle esigenze dell’orga ­nizzazione funzionale, così in ­tercambiabile e fungibile da essere, al limite, appunto « uni ­dimensionale », flusso unifor ­me e grigio, omogeneizzato, che l’intellettuale può contem ­plare dall’alto dell’immunità garantitagli dal « pensiero ne ­gativo ».

Scopro qui la radice aristo ­cratica del pensiero di Mar ­cuse, affascinante espressione di disgusto e di risentimento sapientemente dosati fino a giustificare un rifiuto totale della società industriale avan ­zata, la condanna senza riser ­ve della disciplina della mac ­china e del suo regno. « In virtù del modo con cui ha or ­ganizzato la sua base tecnolo ­gica » scrive Marcuse in aper ­tura, « la società industriale contemporanea tende a essere totalitaria ». Siamo stati abi ­tuati, da Hanna Arendt e da tutta una legione di commen ­tatori, a considerare il « tota ­litarismo » come un sistema di governo politico-terroristi ­co, l’esito, lo stadio finale del ­l’involuzione burocratico-commissariale cui sono andati sog ­getti gli ambiziosi piani otto ­centeschi di rigenerazione del ­l’umanità. Ma il terrorismo co ­me arte di governo, sembra argomentare Marcuse, è in fondo una minaccia aperta, una sfida contro cui si può lottare, crea dei martiri, riem ­pie le galere e i campi di con- centramento, ma non intacca le basi della personalità, non disintegra l’individuo dall’in ­terno. C’è un terrorismo più insidioso perché coperto; non perseguita, ma condiziona, len ­tamente, continuamente: un colpo di lima ogni giorno. Non distrugge, ma manipola: « tota ­litario non è soltanto un coor ­dinamento politico-terroristico della società, ma anche un coordinamento tecnico-econo ­mico non terroristico che operi attraverso la manipola ­zione dei bisogni da parte de ­gli interessi consolidati ».

La diagnosi non è nuova e rimanda alle pagine, classi ­che, di Thorstein Veblen, il primo sociologo che abbia ten ­tato un bilancio con riguardo al costo e ai ricavi della « di ­sciplina della macchina » per la società europea occidenta ­le. Ciò di cui non abbiamo cenno in Marcuse è la via d’uscita. Nel momento in cui chiede che la vita, tutta la vi ­ta delle società industriali sia cambiata non muove un dito, non si pone neppure il proble ­ma del « che fare »: come se la questione non lo riguardas ­se, come se fra lui e il resto dell’umanità scendesse la nu ­be di Zeus, quella che, a cre ­dere a Omero, rapiva alla vi ­sta, silenziosa e rapida, gli eroi in difficoltà. Nel momen ­to in cui chiede che le cose cambino, e cambino radical ­mente, totalmente, Marcuse si comporta secondo i modi indi ­vidualistici e aristocraticamen ­te irresponsabili

In altri termini: il suo anti- industrialismo si converte in quell’antimacchinismo del qua ­le giustamente diceva Emma ­nuel Mounier che « è meno una dottrina che una corren ­te affettiva e passionale », cioè l’antimacchinismo come mito borghese, l’antimacchinismo di coloro che non hanno mai messo piede in una fab ­brica. Capisco il tentativo di Marcuse di sottrarsi a una ta ­le compagnia: l’uomo è troppo avvertito per non rendersi con ­to del carattere intimamente ridicolo, per via del velleita ­rismo che lo definisce, e ar ­caicizzante, come dei pezzi di falso antiquariato invecchiati artificialmente sparandovi con ­tro a pallini, del « luddismo intellettuale » odierno. Ma per sottrarsi alla taccia di « luddista naturale » (così chiama C. P. Snow gli intellettuali uma ­nisti nel troppo famoso opusco ­lo The Two Cultures and the Scientific Revolution) Marcu ­se cade in una contraddizione mortale. Egli afferma, giusta ­mente, in verità senza andare a fondo, cioè da dialettico astratto, che la tecnica e l’ap ­plicazione di essa su vasta sca ­la costituiscono un sistema di dominio, essenzialmente re ­pressivo. Bene. Ma si affret ­ta ad aggiungere che la tec ­nica potrebbe prestarsi a un diverso utilizzo. E’ il vecchio argomento della « macchina », reputata di per sé adiafora, per la quale tutto dipendereb ­be dall’uso, che può natural ­mente essere buono oppure cattivo. Già Marx aveva intui ­to la natura sofistica di que ­sto modo di ragionare; egli compie infatti la connessione necessaria fra macchina e rap ­porto sociale. L’uomo integro che è al centro del suo inte ­resse esige non solo un diver ­so utilizzo, bensì l’inceppa ­mento dall’interno del sistema. Per Marcuse, invece, « i pro ­cessi tecnologici della mecca ­nizzazione e della standardiz ­zazione potrebbero liberare la energia individuale in un re ­gno tuttora inesplorato della libertà di là dalla necessità ».

Ciò vuol dire vedere le co ­se dall’esterno, con un distac ­co che non è più garanzia di rigore critico, ma semplice espressione di sicumera pro ­fessorale. Il progresso tecni ­co e in generale la tecnologia sono organizzati in modo da garantire e perpetuare la coe ­sione coercitiva del sistema di vita industriale, ma ciò fin dal primo gesto dell’apprendista, fin dalla timbratura della car ­tolina-orologio la mattina pre ­sto. Non solo: il carattere coer ­citivo non è la resultante di un complotto cospiratorio. I grandi interessi consolidati se ­guono una logica cui essi stes ­si sono tenuti, pena la cadu ­ta della produzione globale e della produttività individua ­le e di gruppo, la stasi dello sviluppo e la bancarotta finale.

Non è molto consolante, ma la cosa va detta: di tecniche, di « organizzazioni scientifiche del lavoro » non ve n’è che una. Non per caso taylorismo e stakanovismo si corrispondo ­no, se non nella destinazione del plusvalore prodotto, negli aspetti essenziali, quelli che toccano e determinano diretta- mente gli esseri umani al la ­voro, gli « operai alla catena » : ritmi, modi, rapporti gerarchi ­ci, tutti gli aspetti più vistosi e meno noti di quella collaborazione spuria (spuria perché i suoi fini sono scontati, de ­cisi da altri, non in accordo con i bisogni specifici dei sin ­goli lavoratori) che consen ­te all’apparato produttivo di funzionare. Marcuse è dunque fermo davanti a un’alternati ­va che non sa risolvere: non salvare nulla del sistema della società repressiva e passare per un luddista oppure ac ­cettare gli strumenti che fan ­no del mondo ciò che è, bloc ­candone la trasformazione. Egli non sa, non può spiega ­re come il mondo della tecni ­ca, che con buona pace dei redattori delle riviste azien ­dali non si esaurisce nell‘in ­dustriai design, possa conciliar ­si con la « dimensione este ­tica ». E’ proprio necessario richiamare il Freud del Disa ­gio della Civiltà per convin ­cersi dell’impossibilità di tale conciliazione?

 


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Bart