LETTERATURA: I MAESTRI: Marcuse e l’uomo a una dimensione24 Dicembre 2015 di Franco Ferrarotti La fortuna di Herbert Mar cuse, nella cultura italia na, è assicurata, e bene ha fatto l’editore Einaudi a darci, nella scorrevole tradu zione di Luciano e Tilde Gal lino, il suo ultimo libro, del 1964, l’Uomo a una dimensio ne. Qui infatti, più che nella ricostruzione critica del pen siero di Freud di Eros e civil tà (Einaudi) oppure in quel- l’appassionato appello per un ritorno a Hegel che è Ragio ne e rivoluzione (Il Mulino), si manifestano in piena luce le ragioni profonde di tale for tuna, che per molti aspetti arieggia quella di Adorno, e nello stesso tempo si fanno chiari i limiti dell’analisi marcusiana, le impazienze che coprono le difficoltà irrisolte, le generalizzazioni ad alto li vello di astrazione che rischia no più d’una volta di rivelar si come niente più che illu strazioni delle mille « astuzie del concetto ». Nonostante i mutamenti del linguaggio, i nuovi interessi, i temi di ricerca, strutturali o storicistici, che sembrano do minare il campo, e tutto un sottobosco di studi che si di cono marxistici, la cultura ita liana continua ad essere imbe vuta e legata alla prospettiva idealistica. Voglio dire che si tratta d’una cultura la quale avverte un sottile disagio, se non entra addirittura in crisi, ogni volta che deve fare i con ti con i dati di fatto, con le situazioni specifiche, determi nate. E’ una cultura del « bel canto ». Si direbbe che l’uomo colto italiano non abbia anco ra potuto elaborare e dare a se stesso come modello di vi ta un’idea di libertà che non coincida, dal punto di vista dei rapporti sociali, con l’assoluta irresponsabilità, con la fuga in Arcadia. Da sempre l’intel lettuale italiano ha sperimen tato in sé una difficoltà straor dinaria nel porsi in rapporto dinamico, non necessariamen te burocratico, sulla base di un impegno personale, con i problemi quotidiani, determi nati e Circoscritti, della comu nità in cui vive. La sola al ternativa che sembra contrap porsi all’irresponsabilità solip sistica è la milizia di partito, cioè la stessa cosa: la rinuncia, l’incapacità di assumere un impegno personale, di sen tirsi responsabili senza per questo legarsi, mettersi al sol do del potente del giorno, dell’organizzazione, cioè della azienda, del partito o della Chiesa. In una situazione sociale e culturale siffatta il libro di Marcuse è un bell’alibi. E’ ab bastanza radicale per far ca dere financo il sospetto di una qualsiasi possibilità di utiliz zazione pratica a fini servili, investe criticamente tutto un sistema di vita, e nello stesso tempo non impegna a nulla: la critica è così corrosiva e totale che non lascia nulla in piedi su cui far leva, neppure un mattone sbrecciato con cui cominciare la ricostruzione. Non lascia che un deserto da contemplare: un’umanità così ligia agli orari di lavoro, così legata alle esigenze dell’orga nizzazione funzionale, così in tercambiabile e fungibile da essere, al limite, appunto « uni dimensionale », flusso unifor me e grigio, omogeneizzato, che l’intellettuale può contem plare dall’alto dell’immunità garantitagli dal « pensiero ne gativo ». Scopro qui la radice aristo cratica del pensiero di Mar cuse, affascinante espressione di disgusto e di risentimento sapientemente dosati fino a giustificare un rifiuto totale della società industriale avan zata, la condanna senza riser ve della disciplina della mac china e del suo regno. « In virtù del modo con cui ha or ganizzato la sua base tecnolo gica » scrive Marcuse in aper tura, « la società industriale contemporanea tende a essere totalitaria ». Siamo stati abi tuati, da Hanna Arendt e da tutta una legione di commen tatori, a considerare il « tota litarismo » come un sistema di governo politico-terroristi co, l’esito, lo stadio finale del l’involuzione burocratico-commissariale cui sono andati sog getti gli ambiziosi piani otto centeschi di rigenerazione del l’umanità. Ma il terrorismo co me arte di governo, sembra argomentare Marcuse, è in fondo una minaccia aperta, una sfida contro cui si può lottare, crea dei martiri, riem pie le galere e i campi di con- centramento, ma non intacca le basi della personalità, non disintegra l’individuo dall’in terno. C’è un terrorismo più insidioso perché coperto; non perseguita, ma condiziona, len tamente, continuamente: un colpo di lima ogni giorno. Non distrugge, ma manipola: « tota litario non è soltanto un coor dinamento politico-terroristico della società, ma anche un coordinamento tecnico-econo mico non terroristico che operi attraverso la manipola zione dei bisogni da parte de gli interessi consolidati ». La diagnosi non è nuova e rimanda alle pagine, classi che, di Thorstein Veblen, il primo sociologo che abbia ten tato un bilancio con riguardo al costo e ai ricavi della « di sciplina della macchina » per la società europea occidenta le. Ciò di cui non abbiamo cenno in Marcuse è la via d’uscita. Nel momento in cui chiede che la vita, tutta la vi ta delle società industriali sia cambiata non muove un dito, non si pone neppure il proble ma del « che fare »: come se la questione non lo riguardas se, come se fra lui e il resto dell’umanità scendesse la nu be di Zeus, quella che, a cre dere a Omero, rapiva alla vi sta, silenziosa e rapida, gli eroi in difficoltà. Nel momen to in cui chiede che le cose cambino, e cambino radical mente, totalmente, Marcuse si comporta secondo i modi indi vidualistici e aristocraticamen te irresponsabili In altri termini: il suo anti- industrialismo si converte in quell’antimacchinismo del qua le giustamente diceva Emma nuel Mounier che « è meno una dottrina che una corren te affettiva e passionale », cioè l’antimacchinismo come mito borghese, l’antimacchinismo di coloro che non hanno mai messo piede in una fab brica. Capisco il tentativo di Marcuse di sottrarsi a una ta le compagnia: l’uomo è troppo avvertito per non rendersi con to del carattere intimamente ridicolo, per via del velleita rismo che lo definisce, e ar caicizzante, come dei pezzi di falso antiquariato invecchiati artificialmente sparandovi con tro a pallini, del « luddismo intellettuale » odierno. Ma per sottrarsi alla taccia di « luddista naturale » (così chiama C. P. Snow gli intellettuali uma nisti nel troppo famoso opusco lo The Two Cultures and the Scientific Revolution) Marcu se cade in una contraddizione mortale. Egli afferma, giusta mente, in verità senza andare a fondo, cioè da dialettico astratto, che la tecnica e l’ap plicazione di essa su vasta sca la costituiscono un sistema di dominio, essenzialmente re pressivo. Bene. Ma si affret ta ad aggiungere che la tec nica potrebbe prestarsi a un diverso utilizzo. E’ il vecchio argomento della « macchina », reputata di per sé adiafora, per la quale tutto dipendereb be dall’uso, che può natural mente essere buono oppure cattivo. Già Marx aveva intui to la natura sofistica di que sto modo di ragionare; egli compie infatti la connessione necessaria fra macchina e rap porto sociale. L’uomo integro che è al centro del suo inte resse esige non solo un diver so utilizzo, bensì l’inceppa mento dall’interno del sistema. Per Marcuse, invece, « i pro cessi tecnologici della mecca nizzazione e della standardiz zazione potrebbero liberare la energia individuale in un re gno tuttora inesplorato della libertà di là dalla necessità ». Ciò vuol dire vedere le co se dall’esterno, con un distac co che non è più garanzia di rigore critico, ma semplice espressione di sicumera pro fessorale. Il progresso tecni co e in generale la tecnologia sono organizzati in modo da garantire e perpetuare la coe sione coercitiva del sistema di vita industriale, ma ciò fin dal primo gesto dell’apprendista, fin dalla timbratura della car tolina-orologio la mattina pre sto. Non solo: il carattere coer citivo non è la resultante di un complotto cospiratorio. I grandi interessi consolidati se guono una logica cui essi stes si sono tenuti, pena la cadu ta della produzione globale e della produttività individua le e di gruppo, la stasi dello sviluppo e la bancarotta finale. Non è molto consolante, ma la cosa va detta: di tecniche, di « organizzazioni scientifiche del lavoro » non ve n’è che una. Non per caso taylorismo e stakanovismo si corrispondo no, se non nella destinazione del plusvalore prodotto, negli aspetti essenziali, quelli che toccano e determinano diretta- mente gli esseri umani al la voro, gli « operai alla catena » : ritmi, modi, rapporti gerarchi ci, tutti gli aspetti più vistosi e meno noti di quella collaborazione spuria (spuria perché i suoi fini sono scontati, de cisi da altri, non in accordo con i bisogni specifici dei sin goli lavoratori) che consen te all’apparato produttivo di funzionare. Marcuse è dunque fermo davanti a un’alternati va che non sa risolvere: non salvare nulla del sistema della società repressiva e passare per un luddista oppure ac cettare gli strumenti che fan no del mondo ciò che è, bloc candone la trasformazione. Egli non sa, non può spiega re come il mondo della tecni ca, che con buona pace dei redattori delle riviste azien dali non si esaurisce nell‘in dustriai design, possa conciliar si con la « dimensione este tica ». E’ proprio necessario richiamare il Freud del Disa gio della Civiltà per convin cersi dell’impossibilità di tale conciliazione?
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