LETTERATURA: I MAESTRI: Mario Tobino. Sotto la brace degli anni26 Gennaio 2016 di Cesare Garboli MARIO TOBINO Non ho mai partecipato, e credo non ne avrò mai la forza, ai raduni di ex compagni di scuola. Credo che per questo genere di cerimonie occorra un animo di ferro, se non la fatuità più assoluta, comunque il dono dell’inte grazione, il privilegio di far parte du ratura di un insieme omogeneo di isti tuzioni etniche e sociali. Bisogna esse re vissuti sempre in una stessa città, essere cresciuti sempre in una stessa casa. Bisogna far parte di una società e di una tradizione, non importa se piccola o grande, se provinciale o co smopolita. Indispensabile avere avuto modelli, essersi prefissa una meta, averla raggiunta in armonia e in anta gonismo con gli interessi e la sorte de gli altri. E’ necessaria una virtù istin tiva, essere stati capaci di concepire la propria vita come una costruzione, co me un’opera, insieme egoistica e soli dale, individuale per quanto si riferi sce a se stessi, collettiva, invece, quan to alla sua finalità e al suo valore. La vita è intricata Bisogna essere nati integrati, e poi la vita ci porti pure lontano, ci guidi per strade impensate, ci traslochi av venturosamente fuori dalla cerchia dentro la quale abbiamo imparato a camminare. Non riuscirà mai a di struggere, se c’è stato, il nucleo di re lazioni dal quale siamo partiti. Ci vuo le religione, come per qualsiasi rito, anche per banchettare, passati trenta, quarant’anni, coi propri ex-compagni. E insieme alla religiosità, insieme al gusto delle cose più forti di noi, al pia cere della lettura irrevocabile del « de stino », ci vuole anche, come per tutte le cerimonie, una schietta vocazione al sadismo. Chi sia rimasto privo di radi ci, chi abbia fatto di tutto per liberarsi di tutto, cancellando di volta in volta se stesso e il proprio passato, si guardi dal rivisitare persone e luoghi scola stici. Torni a rivedere la faccia dei propri compagni, invece, a sostenerne lo sguardo appannato, a rimettere il naso nell’aula in cui fu compitata, un tempo, la prima traduzione dal greco, soltanto chi sia intimamente persuaso di essere realmente e interamente di ventato quello che era. Una vita ordinata, disciplinata dalla volontà, rispettosa del collettivo e del le sue leggi, tesa nello sforzo di esse re costruita pezzo per pezzo come un monumento destinato a rimanere scol pito per sempre in una posa giusta, e magari insieme guerriera, questo è il presupposto fondamentale per tollera re lo sconquasso interiore, la serie di dubbi, lo squallore e la nausea di simi li rimpatriate. E’ in queste occasioni che ci si trasforma in storici di se stessi, senza correre il rischio di farsi analisti della propria inafferrabile, vo latile ed eternamente fungibile essen za umana. « La vita è intricata, so vrapposta, intersecata di innumerevoli strati, solo a lampi la si illumina ». Su perfluo dedicarsi di proposito al gioco ormai unanime degli scavi. Intermit tenze rivelatrici possono nascondersi dappertutto, anche in una giornata trascorsa con vecchi compagni di gin nasio, in una gita domenicale nel vec chio istituto che ci ha visto coi calzoni corti. E’ sufficiente un’occhiata lascia ta cadere su un’antica fotografia colle giale, abbandonata negli archivi della memoria. « Mi vidi magro, ribelle, da carcere, da sanatorio. Che avevo den tro? Ero in ansia per quale perché? Che voleva questo ragazzo con la man dibola così esile, l’incontrario di quella ganascia che ho oggi, marmorizzata per tante mangiate e bevute? ». E’ che la nostra vita, contro tutte le apparen ze, si atteggia in se stessa, spontanea mente in tanti «racconti »: una totalità di fatti e persone, l’insieme confusa- mente imbrogliato, scomposto e illeggi bile delle cose viventi, un giorno, non si sa per quale ragione, si mette inspie gabilmente a fuoco, grazie a un fortui to, occasionale significante correlativo. Trova una forma, prende una piega che può essere il ritmo di un verso, la misura interminabile di un romanzo, il capriccio di un’invenzione verbale. E’ sempre la vita che assomiglia alla letteratura, non viceversa. Finché si è vivi ribolle tutto Basta accorgersi di vivere, per esse re tutti « scrittori » della propria vita. Così la « visita a un collegio », per una sorta di automatismo fatale, potrà rac chiudere nella propria semplicità nar rativa, nel proprio candido slancio emozionale, nel proprio disegno autobiografico tutta una rinascente, impe tuosa pluralità dei collaudati codici letterari: l’oratoria e la poesia, il sag gio morale e il discorso politico, la no vella realistica e l’alta elegia funebre, la ritrattistica e la storiografia. Nello stesso tempo, quell’attimo di riflessio ne che ci accompagna segretamente ogni qual volta la vita ci imponga un riepilogo di noi stessi, si articolerà se condo le linee di un conflitto, di un groviglio da sciogliere: il crudele ap puntamento coi compagni di scuola, la visita al collegio sta già diventando una prova, un riesame, la conferma del super-io di un eventuale protagoni sta. Riattizzando nella brace degli an ni, si riaccendono identiche le passioni di un tempo; sciogliendo gli ultimi enigmi, si risolleva un’ondata di dub bi; e mentre ci si chiede che sorte sia toccata agli assenti, e così ci si prepa ra a morire, ci si accorge invece che « finché si è vivi, ribolle tutto », e che la vita non è meno piena di sangue ne gli anni in cui sta tramontando, che in quelli in cui era per cominciare. Così la domenica coi vecchi compagni, in se stessa memorabile, è già in embrio ne un « racconto ». Per un istante, in un miracoloso equilibrio, senza cessare dal suo ritmo scomposto, la vita si è rivelata in una forma perfetta. O è questa la « creazio ne » letteraria, ih faticoso « dopo » del l’arte? Allo scrittore, chiuso nella sua” cella, simile a un amanuense innamorato delle sua carte, non resta che tendere l’orecchio, riudire tutti i suoni, j stare attentissimo, non dimenticare niente, non aggiungere niente, lasciar si guidare soltanto da uno sforzo disu mano di precisione. E’ in gioco la tra scrizione dal vero, la perfetta ricopia tura di come la vita è sempre e di co me la vita non è mai. Bisogna ritrarre con lo scrupolo che non erra, e nello stesso tempo scegliere l’essenziale: sol tanto così si può rendere immortale il vissuto. Nel suo ultimo libro, Una giornata con Dufenne, Mario Tobino riconfer ma la sua vocazione a concepire la let teratura, con tranquilla consapevolez za del proprio anacronismo, come eroi smo e come passione. Narrando con finto nome in prima persona, lo scrittore-medico ritorna in compagnia di un amico al collegio di Collevinci nel la campagna pisana-livornese: « La mia prigionia, con quei sacerdoti di Don Lasser che mi salvarono ». L’arco della visita, il raduno degli ex-allievi si svolge secondo un rituale prestabili to, ma la narrazione è poi continuamente minacciata dalla presenza del l’imprevisto, dal ribollire di risse e in terrogazioni latenti. Si direbbe che To bino, il quale col tempo diventa sem pre più artista, come quei pittori che a furia di lavorare sul proprio autoritratto potrebbero alla fine rappresentarsi a occhi chiusi, abbia messo al proprio « io » una sordina, abbia in spiegabilmente imparato a raccontare. Una giornata con Dufenne è certa mente il racconto più classico che egli abbia mai scritto. In apparenza, una specie di « suspense » del quotidiano: l’impazienza al momento di partire, la lentezza stupefacente con la quale l’a mico, Dufenne, guida l’automobile per la campagna, poco più che a passo d’uomo, così che il viaggio si trasfor ma in una comica processione solita ria, e a un tratto, allineate una dopo l’altra, con la brutalità delle cose ri maste ferme nella fuga degli anni, le immagini una volta familiari: il cortile murato, il teatrino, la chiesina dedica ta a Maria Ausiliatrice, «alta e formosa, il manto celeste, paffutella contadina, a Maria Ausiliatrice, in sostanza alla Madonna ». Sempre in primo piano, girata con procedimento elementare, la cerimo nia vera e propria: la Messa cantata, che non finisce mai, il discorsetto del professore universitario, piccolo comi ziante improvvisato, impaurito e per bene (« un negare la gioventù, la ve rità, uno sgomento davanti al sesso »), e infine il pranzo di gala, tra gli ex-al lievi ormai diventati notabili. Su que sti tasti Tobino tocca con discrezione i suoi accordi più veri, sfoga il suo tem peramento di spettatore e di giustizie re. Il dubbio, il nodo da sciogliere è sempre lo stesso: se la passione, l’eroi smo, la grandezza umana esista, o sia delirio, invenzione di poeti in un’Italia « segreta, rancida, ligia, meschina, su dore sotto le ascelle ». Si avvicina un ex-allievo, un medico elegante, nervo so, la cravatta a fiocchino. Ha da dire qualcosa, porta la conversazione su un antico compagno di giovinezza, un partigiano, Mario Pasi, morto dopo sevizie atroci. Ma come era stato preso, il Pasi? Forse per errore, per accidente… « Ecco, ora capivo, era questo che vo leva da me il medico delle Terme, che gli dessi ragione su questa seconda versione sul Pasi, che l’avvalorassi, che era morto per equivoco, che pote va capitare a tutti, che convenissi con lui, io che ero stato suo amico. Il me dico delle Terme mi voleva portare a dire che la vita è dolce, consueta; al massimo in qualche momento è neces sario attendere e poi tutto riprocede; non c’è mai stato nulla, l’eroismo non esiste, tutto è molle, siamo tutti succu bi ». Un tempo, Tobino avrebbe reagi to con impeto, con dolore, gestendo imperiosamente la propria natura. Og gi non ha più voglia di litigare. Si tie ne la risposta per sé, torna a casa, an nota semplicemente: « E’ vero. Sono annoiato, non si può avere pazienza all’infinito… Pasi per me è sacro, ne dicano bene o male non importa. Per me è come San Giuseppe per una bi gotta, è in cielo. La nostra generazio ne ha attraversato un periodo di san gue, di gloria, e qualcuno tra noi, un nostro amico, si è dimostrato eroe ».
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