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LETTERATURA: I MAESTRI: Salvatore Quasimodo. Dalla Grecia con molti sogni

23 Gennaio 2016

di Cesare Garboli
[da “La Fiera Letteraria”, numero 26, giovedì, 23 giugno 1968]

L’attività poetica di Salvatore Quasimodo, morto il 14 giugno a Napoli, copre oltre mezzo secolo di vita letteraria italiana. I suoi primi versi, non pubblicati, risalgono infatti, come egli racconta, al 1910, quando aveva appena nove anni. Oltre cinquant’anni agitati, quasi convulsi, sia per le vicende pubbliche che per quelle dell’arte e del pensiero, all’insegna di molte rivoluzioni, e non solo politiche, di violente crisi. Quasimodo vi è stato mescolato come pochi altri autori. Dall’esperienza ermetica, fra le due guerre, all’impegno del secondo do ­poguerra, è stato sempre nelle prime file. Con gli articoli che pubblichiamo ab ­biamo cercato di mettere a fuoco la sua personalità di uomo e di poeta.

C’è stato un momento, nella storia della poe ­sia italiana contemporanea, in cui sembrava di essere ritornati alle pie abitudini dei nostri pa ­dri, e ai loro vecchi capricci trinitari. Fino alla prima guerra mondiale, e in seguito ancora per qualche anno, si era discusso, polemizzato, sacri ­ficato a tre idoli: Carducci, Pascoli, D’Annunzio. Un quarto di secolo dopo, alla fine degli Anni Trenta, la critica che « soffriva », fiancheggiando ­le con rigoroso e mistico fanatismo, le nuove esperienze poetiche, poteva contrapporre un al ­tro autoritario terzetto: Ungaretti, Montale e Salvatore Quasimodo. Come tanti anni prima, anche questa volta si era alla vigilia di una guerra mondiale. Le triadi, si vede, non portano fortuna.

FECE LE SPESE DEGLI UMORISTI

Sarebbe interessante, comparativamente, uno studio di psicologia del collettivo e di storia let ­teraria sulle attitudini ternarie del gusto e della critica. Un poeta solitario non basta, giganteggia e oscura l’orizzonte, toglie spazio; tra due si en ­tra in conflitto, si scatena la scintilla; con tre ci si placa, ci viene offerta una rassicurante e su ­periore pluralità di punti di vista. Ci sono tritti ­ci perfetti, che resistono per secoli. In altri le figure vengono intercambiate, spostate. In altri si creano delle gerarchie, nessuno vuole fare da comprimario, ci si ribella, si trovano delle altre sistemazioni. Sotto questo punto di vista, Car ­ducci, Pascoli e D’Annunzio furono un trio, an ­che tecnicamente, abbastanza litigioso. Al contra ­rio, la triade novecentesca, sia pure per un bre ­ve periodo, parve costituita da personaggi che concorressero a uno sforzo comune, che collaborassero, non senza complimentarsi a vicenda, ad affrescare un comune e irraggiungibile soffitto al di sopra delle loro teste.

Questo soffitto, che esigeva uno sguardo co ­stantemente rivolto verso l’alto, e pertanto con ­geniale all’astrazione novecentesca, era il valore assoluto, chimerico e negativo della parola poe ­tica, sillabata nel silenzio, gridata nel deserto, o gelosamente protetta dai cifrati codici dell’oscu ­rità. Sia pure in modi eterogenei, Ungaretti, Montale e Quasimodo collaboravano, secondo la critica dei primi Anni Quaranta, a disegnare una figura metafisica della poesia. Al di sopra delle differenziate individualità tecniche, si badava a mettere in evidenza la comunione degli interes ­si, l’unicità della linea di ricerca, la complemen ­tarità delle innovazioni, e, consapevole o no, la comune matrice simbolista. Le singole esibizioni vocali si confondevano, si sovrapponevano, rien ­travano nello schema di un concertato. Era un equivoco, naturalmente, che i sorprendenti Anni Quaranta presto arrivarono a disfare. Tra le tan ­te cose che andarono ad ammucchiarsi, finita la guerra, tra i rifiuti del ’45, ci si poteva trovare, per quanto si cercasse poi di resuscitarla dal di ­sastro e di rimetterla a nuovo, anche la metafi ­sica della parola.

Ma a consolidare le vacillanti basi naturali della triade, sempre negli Anni Trenta, aveva contribuito un equivoco forse meno pericoloso, ma certamente più volgare. Il malinteso, addi ­rittura d’origine dotta, proveniente dai dintorni crociani, questa volta investiva direttamente la terza persona della triade, il figlio, Quasimodo, considerato come campione vivente, autentica incarnazione di un verbo, di cui Ungaretti e Montale dovevano considerarsi piuttosto profeti e precursori: Quasimodo come capofila, come il rappresentante più autorevole e qualificato del ­l’ermetismo. Un oboe gelido risillaba / gioia di foglie perenni / non mie, e smemora…: più di ogni altro poeta, erano i versi del povero Quasi ­modo a fare le spese degli umoristi di professio ­ne. L’equivoco era volgare, anche se non si riu ­scirà mai a capire se a Quasimodo finisse per nuocergli o per giovargli. In ogni caso, la « poesia ermetica » resta un’invenzione libresca, e l’er ­metismo, come movimento d’avanguardia e co ­me congrega, nacque e rimase fiorentino. Quasi ­modo, che se esordì nelle pubblicazioni di So ­laria, da una parte, dall’altra collaborava anche a Circoli, ne incrociò occasionalmente la stra ­da, con la stessa andatura spavalda, spregiudica ­ta e perfino intimidatoria, e con la stessa vora ­cità di cultura, un po’ da « morto ai paesi » e un po’ da figlio della Cetra e del Sole, di altri poeti e narratori che in quegli anni, come lui, risaliva ­no il continente dal Sud: Gatto, per esempio, e soprattutto Elio Vittorini, alla cui vicenda e bio ­grafia quella di Quasimodo finisce in qualche modo con l’assomigliare.

LE TRADUZIONI DAI LIRICI GRECI

E adesso, chiariti i malintesi, ci si può pro ­nunciare con chiarezza? Meritava realmente, Quasimodo, di essere affiancato ai due grandi protagonisti della poesia italiana tra le due guerre? Il successo, contro tutte le opinioni dei moralisti, non viene mai per caso. E d’altra par ­te il destino dei poeti, come la loro fortuna, è misterioso. Non si affida al caso, ma alle nostre contraddizioni. Ci sono poeti che incontrati una volta, non smettiamo più d’interrogare: possia ­mo anche smettere di leggerli, ma non cessiamo mai di dialogare con loro. I loro versi, i loro rit ­mi, entrano a poco a poco, stabilmente, nella stanza dei nostri pensieri. Così è avvenuto per Ungaretti, così è stato, un grado di più, per Montale. Il primo coi suoi gridi, l’altro col suo ostinato asserire la « crisi », hanno dimostrato universalmente con quale anticipo i loro versi camminassero rispetto alla comune sensibilità borghese. Le loro onde si sono propagate, i loro spiccioli moltiplicati. Oggi siamo a tal punto in ­vasi da questa ricchezza, che perfino nei fran ­genti meno portatori di lirica della nostra vita, ci ritroviamo, come nostre, le loro folgoranti intuizioni tra i piedi. Quante volte non ci siamo sorpresi a constatare che la vita che sembrava vasta ora è più breve del tuo fazzoletto? La memorabilità di questi poeti li destina presto al ruolo di classici.

E’ stato così anche con Quasimodo? Già sulle rive dello Xanto ritornano i cavalli, / gli uccelli di palude scendono dal cielo… Se si pensa alle traduzioni dai Lirici greci, apparse per la prima volta nel ’40, a quelle essenziali, nere sillabe stupefatte, circondate dal silenzio della pagina come da uno spazio di meraviglia primordiale, c’è da pensare che nessun poeta italiano, più di Quasimodo, sia stato assimilato dalla pubblica memoria. Tramontata è la luna / e le Pleiadi a mezzo della notte: emigrato da Siracusa, il gio ­vane Quasimodo, quel ragazzo â— come il poeta si raffigurerà molti anni dopo nella « Lettera al ­la madre » â— che fuggì di notte con un mantel ­lo      corto / e alcuni versi in tasca, inseguiva nella grecità un supporto culturale, su cui appoggiare un nativo linguaggio di sensazioni paniche.

LA MISTICA DELLA TERRA E DEL MARE

Può sembrare un rilievo cattivo, mentre non è che un complimento, ma quale fiuto della stagione, che naso rivelò Quasimodo nel cimen ­tarsi coi greci. Come seppe pronunciarsi, intona ­re la voce negli anni giusti! Inseguiva una pa ­tria, Quasimodo, che fosse dannunziana e nello stesso tempo non lo fosse per niente. La inse ­guiva col piglio autoritario dei giovani avidi di cultura e di vita, quando sono sul punto di in ­travedere, di stare per afferrare una novità. 0 conchiglia marina, figlia / della pietra e del ma ­re biancheggiante, / tu meravigli la mente dei fanciulli… Così, con un’operazione semplicissi ­ma, immergendo le parole in un’aria stupefatta eternamente inattuale, Quasimodo truccava le sue origini dannunziane, rivoltava la poetica del frammento, combinava assolutezza ed estetismo, astrazione e colore, trasalimenti esistenziali e mitologia, gusto degli enti puri e mistica della Terra e del Mare, della Notte e dell’Aria.

Non è detto che nella ricerca di ariosità, nella loro eleganza equorea e vegetale, anche le ver ­sioni di Quasimodo, un giorno, non si lasceranno sfuggire una fragranza un tantino profumata, dolciastra, un po’ da liquore. E’ sempre stato impossibile misurarsi con l’Ellade senza dare nel neoclassico. Ma nessuno specialista era mai arrivato a trasmetterci un tale brivido di risco ­perta. Pacifico poi che queste traduzioni, cultu ­ralmente, siano un « falso », calchi sui quali il poeta sta sperimentando la propria originalità.

Il traduttore stinge sul poeta, ma è stato il poe ­ta a produrre dalla propria vocazione, dal pro ­prio linguaggio nativo, il traduttore. Rapido fuo ­co affiora alle mie membra, E tutta in sudore e tremante / come erba patita scoloro, Ma a me non ape, non miele: queste sono ancora tradu ­zioni, ma vicinissime agli originali di Quasimo ­do, al Quasimodo « brucato dal patire ». E tutto mi sa di miracolo; / e sono quell’acqua di nube / che oggi rispecchia nei fossi / più azzurro il suo pezzo di cielo, / quel verde che spacca la scorza / che pur e stanotte non c’era: questa non è una traduzione, non è D’Annunzio, e nemme ­no Pascoli. Questo è il primo Quasimodo, che ausculta i ritmi dannunziani e pascoliani con un nuovo dono di stupore, e con una sensibilità che piega curiosamente verso inflessioni montaliane.

Era dunque un sottile, inconsapevole manieri ­sta, Quasimodo, un poeta squisitamente « tra ­duttore »? Recentemente e autorevolmente, Gianfranco Contini osservava come la critica ita ­liana non abbia adeguatamente seguito il poeta dopo la sua conversione a una poetica di rinno ­vamento dell’uomo, parallela alla configurazione di se stesso quale poeta-vate. A parte la perti ­nenza del rilievo, di fatto è difficile sottrarsi alla tentazione di ambientare il miglior Quasimodo, comunque il Quasimodo più autentico, nei din ­torni dell’esperienza novecentista. Più di ogni altro poeta contemporaneo, Quasimodo è stato un divulgatore lucente della sorpresa e della no ­vità del linguaggio poetico italiano del 900.

UN PRESAGIO DI CATASTROFE

Per un istante, confluirono in lui tutte le correnti di un piccolo oceano in sommovimento: la novità prosodica ungarettiana, e insieme il gi ­ro strofico dannunziano, temperato da una vena melica («Vento a Tindari »); la « poesia pura » (salgo vertici aerei precipizi) e una viva, lussu ­riosa attitudine cromatica (ride la gazza, nera sugli aranci); la poetica della parola (il tuo dono tremendo / di parole, Signore / sconto assidua ­mente) e accenti di aridità e negatività monta ­liane (forse l’ansia di dirti una parola); il gusto della sonorità panica (si udivano in segreto / le voci dei fiumi e delle rocce) e quello metafisico tra il De Chirico baroccheggiante e il Sassu po ­pulista (le spiagge ove corrono in amore / ca ­valli di luna e di vulcani).

Che cosa è mancato, a Quasimodo, perché po ­tesse liberarsi dal Novecento? La consapevolez ­za della sua formazione, credo, la coscienza del proprio caso. Tanto da imitare, ancora una vol ­ta, smentendo le proprie maniere, la figura del poeta più cara a un ideale pubblico di gente che sta al sodo: il poeta che sogna e soffre di esili perpetui, che colloquia di profondità privilegia ­te, di sensazioni impalpabili, il poeta vittima e vate.

E ora che Quasimodo è morto, e che, per usa ­re il linguaggio del poeta il cuore trasmigra, anch’io risalgo vertici aerei precipizi, e mi ritro ­vo negli Anni Quaranta sul punto d’interrompe ­re una conversazione appena cominciata. Quasi ­modo è là, in quegli anni. Ognuno sta solo sul cuor della terra / trafitto da un raggio di sole: / ed è subito sera. Sono versi su cui si sono eser ­citati tutti i veleni dell’ironia, ma sono versi au ­tentici, che sotto la vernice mediterranea, asso ­luta, dicono un presagio di catastrofe, l’irrequietudine degli animali quando avvertono l’avvicinar ­si della tempesta. Dicono anche una cosa bellis ­sima e semplicissima: che la vita si racchiude in un punto, gira intorno a un istante privilegiato, a un momento splendido e irripetibile.

Abbiamo una cosa sola e possiamo spendere solo quella. Bisogna prepararsi, sapere aspetta ­re, cogliere il momento adatto e mettersi in po ­sizione, prendere i raggi del sole al punto giu ­sto. Ma è un attimo, non è la felicità che vien meno. E’ la nostra « forma », la nostra pienezza e voglia di mezzi. E’ quello che siamo che è ca ­duco, che va via presto. Non si poteva dire una cosa così difficile in un modo più semplice. E non si può dimenticare di dovere qualcosa, a questi versi.

 


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Bart