LETTERATURA: I MAESTRI: Montale: Le prose di viaggio del poeta16 Giugno 2018 di Geno Pampaloni Forse lo stesso Montale è tentato qualche volta di consentire con quel soldato tedesco, quel « letterario » di Stoccarda che gli capita in casa una sera del cupo inverno del ’44 per consegnar gli una copia dattiloscritta delle liriche di Hölderlin (il racconto si può leggere nella terza edizione Mondadori de La farfalla di Dinard, pp. 248, L. 2200); il quale afferma che « la poesia non esiste; quando è antica non possiamo identificarci con lei, quando è nuova ripugna come tutte le cose nuove… Eppoi, eppoi… una poesia perfetta sarebbe come un sistema filosofico che quadrasse, sarebbe la fine della vita, un’esplosione, un crollo, e una poesia imperfetta non è una poesia ». Nella sua opera la coscien za di una siffatta «imperfe zione » si può cogliere nel mirabile equilibrio tra la pre senza (baluginante ma fer ma, accorata ma inesorabile) degli assoluti e della fe de in essi; e il riserbo, la golosa «privacy », la mi sura di gelosia con cui egli trascrive un’esperienza di vi ta che non pretende in al cun modo esemplare. Nel suo mondo poetico la realtà in combe massiccia e irta, dila niante, ma il suo urto ca priccioso e irripetibile: il poeta vi si riconosce per un attimo, ma poi attorno a lui il carosello continua, tra crolli di oscuri simulacri inattinti, di simboli smozzi cati che misteriosamente si incrociano. La sua più alta poesia vive nella resistenza al vortice dell’assurdo, nel coincidere della disperazione con la fede, nel trasferirsi sulle rive dell’assoluto del povero e nobilissimo baga glio del tempo (sentimenti e « persone »). David e Golia Ma tale tensione religiosa aborre da ogni tipo di de magogia poetica, di massi malismo, e addirittura di «lirica »; e trae invece la sua forza da un’umanità tan to più agguerrita e soffer ta quanto meno è ostenta ta. Alla violenza tentatrice e romantica della vita il poe ta oppone il self-control, si cautela dai riverberi del ro go tragico con l’ironia, sor prende il metafisico dell’esi stenza con lo scoccare di « aneddoti » icastici (le occa sioni); e così vince, quasi un astuto David contro lo strapotente Golìa. Per introdursi nel labora torio del poeta, le prose di Fuori di casa (ed. Ricciar di, pp. 342, L. 3500) aiutano almeno altrettanto, e forse di più, de La farfalla di Dinard, perché in esse è più scoperta la qualità, che gli amici sanno squisita, della sua conversazione, del tempe ramento. Fuori di casa si presta a due modi di lettura. Il primo che importa di più ai letto ri e probabilmente all’auto re, è quello di leggerlo com’è, il libro di un grande gior nalista in viaggio per l’Eu ropa (con puntate alle qua si natie Cinque Terre e a una «prima » di Stravinsky). La prosa è straordinariamen te moderna; cí³lta senza esi bizione, fitta di rapide e ta lora rare associazioni tra vi ta e arte, non ha mai nulla dì prezioso, di esoterico, di « estetico ». La lingua, pur così personale e variegata di trasparenze autobiografi che, « comunica » più che evocare o alludere. Non cer ca effetti, né di aura poeti ca né di estenuate sottigliez ze intellettuali. L’ingegno critico del Monta le non ha bisogno, su questo giornale, di illustrazione: (egli è certamente il maggior cri tico letterario che operi in Italia e in questo libro scri ve giudizi illuminanti sulla pittura europea dell’800); ma alla sua prosa si attaglia più la svelta crudeltà del nar ratore che gli eleganti in dugi, le assaporazioni del saggista. Il commento si in terna nel racconto, e trova limpido esito nel giudizio. La scrittura ha il timbro asciutto, il passo spedito del resoconto. Naturalmente lo scrittore racconta sempre se stesso, con la ricchezza del le sue motivazioni; il suo vero oggetto è il confronto di sé con la realtà; e proprio questo dà alle sue pagine il movimento di uno spettaco lo, di una rappresentazione « con figure ». Nel Montale giornalista c’è il personaggio che nei suoi versi, arsi e tre mendi, era nascosto dietro una voce recitante, solenne e testamentaria. Ed è un per sonaggio affabile, anche se difficile, compito e impieto so, disincantato e fedele, nel quale l’acuto senso di humour di timbro anglosassone non prevarica sul rispetto dovuto alla realtà. Al pari di tutti gli scrittori autentici, il Mon tale fa il giornalista con im pegno e naturalezza, senza complessi. Come ritrattista è felicis simo. Il falso inglese a St. Moritz, il colonnello di Edim burgo che spiega, Bibbia alla mano, che « Dio non è qui » (non per niente queste pagi ne si ritrovano nella Farfalla) il vecchissimo signor Del Par do che aspetta la morte spet tegolando nella hall del gran de albergo parigino, o l’auto re medesimo che nell’antica mera dell’Accademico cerca di far pallottole, per nasconder le nel caminetto, delle foglie che l’acquazzone improvviso ha incrostato sulle sue scar pe, sono alcuni tra gli indi menticabili. Ma ve ne sono a decine, anche tra quelli più legati all’incarico del giorna le, più professionali (Malraux, Mauriac, Pompidou, Paolo VI). E talora basta una pennellata sola a fare ritratto, o (che è ancora di più) a suscitare una presen za, come nel caso della gio vane principessa Pacelli, «una romagnola che se salisse su una barricata rossa destereb be l’entusiasmo di tutti i pistoleros del mondo ». Del pae saggista diremo dopo. Come relatore di fatti e problemi culturali il Montale giornalista è di esemplare chiarezza. Semplifica senza volgarizzare, morde senza ab baiare. Egli porta vivo il se gno della temperie positivi stica in cui si è formato (an che se abbia poi assimilato co me pochi l’essenziale del pen siero del Croce). E questo dà agio al suo naturale empiri smo, alla sua curiosità vòlta alle cose, al costume, al mi nuto accadere piuttosto che alle astratte idee generali. La sua cronaca sa essere signo rilmente svagata e indiscre ta, ricrea il gusto di un am biente o di un personaggio attraverso un tic, la composi zione di un menu, la disarmo nia di un arredo. Grandi al berghi, lussuosi luoghi di vil leggiatura, miliardari strava ganti, raffinata gastronomia per inappetenti, capitali e ae roporti: in questo inusitato décor egli ritrova, povero co me sono i poeti, un po’ ironi co un po’ fanciullo, i fanta smi della belle epoque, il terminus a quo della sua memoria. L’Incontro è sempre fa voloso, l’ammiccamento strug gente. Sul piano più direttamente culturale, da codesta sua source positivistica, corretta ma non cancellata dai succes sivi, più moderni orientamen ti in fatto di estetica, il Mon tale si è trovato nelle condi zioni ideali per cogliere con precisione il momento (che egli fa coincidere con la « di sintegrazione impressionisti ca ») in cui l’arte cessa di ave re come fine la creazione di un « oggetto artistico », ra zionalmente intelligibile e giu dicabile, per avviarsi all’«oscuro cafarnao » del non for male. Non si può dire onesta mente che egli sia un conser vatore: certe bellissime pagi ne, qui, sul Braque, sul Brancusi, sul Fautrier mostrano una sincera partecipazione in tellettuale agli sperimentali smi. Ma è certo che quel pas saggio di frontiera, quel sal to di valori dal « comprende re » al « sentire », dall’oggettualità al soggettivismo senza barriere, rimane per lui un fondamentale punto di rife rimento. Non nel passato, in un «prima », ma nella seve ra moralità di un’arte che presuppone la solida, dram matica presenza del reale si annida il nucleo più resisten te della «fedeltà » che amia mo nella sua voce. Continuità In che rapporto si pone (ecco il secondo modo di let tura) questo eccezionale gior nalista nei confronti del poe ta? Il Cecchi vedeva nelle pro se della Farfalla i « rosticci di combustibili ed avanzi di fu sione » passati attraverso le « altissime temperature » del l’ispirazione lirica. L’immagi ne è avvincente, ma, alme no per questo libro, impro pria. Il Cahier montaliano, ri spetto alla poesia, non è ciò che residua ma ciò che pre para. C’è una ideale continui tà « ascendente » tra questa dizione conversativa, tra que sto spiluccamento della real tà compiuto con superiore nonchalance, tra questo sco prirsi confidenziale alle av venture degli umori quotidia ni, e il momento della poe sia, quel suo afferrare peren torio, fulmineo, la realtà, co me di falco sulla preda. Nei momenti più intensi di queste corrispondenze giorna listiche, figure e cose non si adagiano nella cronaca, ma rompono come apparizioni, su un fondo stregato, febbrile, già tutto « montaliano ». E i picchi verdi, i cormorani, le rondini di mare sulle spiagge di Normandia, i piccoli pelli cani lungo lo stagno della Camargue, il mare livido ver so Cascais, il rientro dei tori nell’arena sulla strada di Arles (« Poi si levò un vento ostinato, il cielo accese di col po le sue luci sanguigne, lo stagno di Vaccarés si punteg giò di guizzi, gli alberi scon volti iniziarono la loro dan za… ») suonano qui come an nunci: siamo proprio vicini alla poesia, negli «immediati dintorni ».
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