LETTERATURA: I MAESTRI: Morte e rimorso5 Settembre 2017 di Virgilio Lilli La morte è la madre del rimorso. Essa genera il rimor so come la notte genera le tenebre. Intendo la morte di chi ci è caro o comunque di coloro che per ragioni così soggettive come obbiettive so no entrati nel raggio della no stra vita. Noi siamo soliti chiamare la immediata reazione del no stro animo per la scomparsa d’un nostro congiunto o d’un nostro amico, conoscente e al tro col nome definitivo di « do lore ». E di tale dolore diamo anche una misura verbale, sen za avvedercene, capace di for nirne toni e gradazioni: di sperazione, desolazione, inconsolabilità e così via. Ma non ci rendiamo conto che non si tratta mai di dolore allo stato puro, non ci ren diamo conto che si tratta di « dolore e rimorso » (desola zione e rimorso, disperazione e rimorso, inconsolabilità e rimorso). La sparizione dai nostri oc chi e dalla luce del sole d’un parente o d’un amico deter mina nel nostro animo uno strappo, come in un vestito. La morte è un oggetto con tundente, proprio una lama, un coltello, un gancio di fer ro: che rompe il connettivo della nostra sensibilità met tendo un insospettato caos nei nostri affetti. Improvvisamen te avvertiamo dentro di noi una ferita. E’ una ferita bian ca, che non fa sangue, ma dalla quale sgorga con amara violenza una cateratta di ri morsi. In questo senso è dif ficile stabilire se sia il dolore a generare il rimorso o non il rimorso a generare il dolo re. E’ pacifico in ogni caso che dolore e rimorso si inte grano l’un l’altro, elementi complementari del sentimen to che sembra travolgerci di fronte a chi amammo o co noscemmo o sfiorammo, e d’un tratto non è più. * Il rimorso è sempre pre sente nelle fibre del dolore che noi proviamo per la di partita d’una persona che fu nel perimetro della nostra esi stenza, anche se apparente mente abbiamo creduto che non avesse ragione di sussi stere. La cancellazione perpe tua e irreversibile di qualcuno che ci fu contiguo instaura immediatamente un processo sommario entro di noi e con tro di noi per quel che furono i nostri rapporti con lui; essa ci aggredisce come una de nuncia, come un’accusa, fa immediatamente di noi dei « sospetti » nei confronti di chi è scomparso, e in breve ci trasforma in veri e propri imputati. Il tribunale della no stra coscienza si mette in mo to secondo un ritmo accelera to, di natura confusa e gene rica ma non per questo meno severo e minaccioso. Il vacuum che chi muore lascia negli occhi di noi che lo vedemmo vivo si colma automaticamente di un nostro io duplice e contraddittorio, allo stesso tempo accusatore e ac cusato. Il nostro animo dà il via a una inchiesta, non sce vra del compiacimento della crudeltà, nei nostri confronti, quasi sollecitassimo di propo sito una espiazione: ripercor riamo la strada dei nostri rap porti con lo scomparso non alla ricerca dei momenti dol ci, amichevoli, e cordiali che vivemmo con lui, bensì di quelli meno felici. Una ricer ca così crudele, ripeto, che se momenti infelici non ci riesce di trovarne ci sforziamo di interpretare come tali quelli che in realtà non lo furono. Al ricordo d’una parola gen tile che gli rivolgemmo ci di ciamo che egli ebbe ragione di interpretarla come uno scherno, al ricordo d’un dono che gli facemmo ci diciamo che a lui poté sembrare una umiliazione, al ricordo d’un soccorso che gli porgemmo ci diciamo che agli occhi suoi poté risultare come un atto di degnazione da parte nostra. E avviene un fenomeno sba lorditivo: per canali misterio si ci sentiamo addirittura re sponsabili della sua morte, sia pure per una aliquota mini ma, sia pure per una parteci pazione marginale, comunque complici, correi della morte. Il fenomeno morte, dico, ci appare come una somma di responsabilità di vivi, ognuno dei quali ha inferto un colpo demolitore a una vita deter minandone il crollo totale, e noi siamo uno di quei vivi, uno di quei colpi. Se potessimo rompere la diga di con formismo e di razionalità che ci vieta una confessione inam missibile, diremmo senz’altro « Ecco, un poco lo ho ucciso anch’io ». Ovviamente non lo diciamo, ma non riusciamo a impedire che una simile fol le confessione insinui in noi l’angoscia del dubbio, il tormento delle domande che si pongono sordamente sotto forma di ipotesi: « se ». Forse non esiste al mondo persona che â— di fronte alla carne, divenuta taciturna pietra, del corpo d’un congiunto, d’un amico o d’un conoscente â— non avverta nel cuore l’assillante sollecitazio ne del dubbio: se quel tale giorno fossi andato a trovar lo … se non gli avessi negato quella tale cosa… se avessi capito che voleva dire quella certa parola, se avessi rispo sto a quella sua lettera … se lo avessi invitato a collabo rare … se quando mi disse che … avessi risposto che … Se, se, se. Colpi di scalpello duri e accorati che intaccano la polpa della nostra singola rità e cioè del nostro egoismo e cioè ancora della nostra inimputabilità e mettono in crisi quello che abbiamo fino allora ritenuto il nostro dirit to alla solitudine, alla autono mia, all’isolamento del nostro io, dico, dagli « io » altrui; e ci velano gli occhi di lacrime. Né vale a raffrenare la pres sione del rimorso sul diafram ma ormai amaramente sensi bilizzato della nostra coscien za il pensiero che colui che non è più sia stato egli stesso a darci un grave dolore, egli stesso a mancarci di rispetto, egli stesso a incrinare l’ami cizia, a compromettere l’amo re, ad offuscare la cordialità un giorno, nella vita. Al contrario, quelle sue mancanze verso di noi costituiscono una conferma della nostra colpevo lezza; e vediamo in esse la reazione alla nostra condotta scorretta o impietosa o priva di comprensione nei suoi con fronti. Fra la valanga dei rim proveri â— tanto più dolorosi in quanto, ahimè, postumi â— si fa strada il rimprovero per eccellenza: d’essere stati noi la causa della sua mala con dotta. « Se fu cattivo, lo fu a causa mia, â— arriviamo a dirci nel fondo dell’animo; â— se fu violento lo fu a causa mia, se fu cinico, se fu avaro, se fu falso, fui io a determi narne il cinismo, l’avarizia, la falsità… ». (Ed è forse la ragione per la quale una imprecisabile atmosfera di rimorso ci entra nei nervi perfino alla notizia della morte di persone che in vita ci furono ostili o alle qua li fummo ostili, genericamen te, a volte senza neanche co noscerle direttamente, militan ti in un mondo ideologico op posto al nostro; o addirittura di criminali, omicidi, banditi; mentre una voce ci ripete dentro: ora che è morto, sei si curo della sua stoltezza, dei suoi torti, dei suoi sbagli, dei suoi delitti?) * Con questo tarlo nel cuore, del rimorso che fra l’altro non trova più la sua valvola di scarico, poiché il pentimento che genera non ha più il suo bersaglio materiale ma si per de dietro l’ignoto della non vita, impedendoci di raggiun gere chi ne è l’oggetto e di battergli una mano sulla spal la, farlo volgere, sussurrargli all’orecchio « perdonami » .. « se avessi saputo non avrei fatto » … « sono desolato » e simili; con questo tarlo nel cuore, dico, non ci possiamo rendere conto che forse il dolore per una morte non ac compagnato dalla frusta del rimorso sarebbe un sentimen to scintillante ma privo di pre sa operante sul nostro spirito, un sentimento puro ma sterile, proprio com’è puro ma sterile un ferro chirurgico uscito dall’autoclave. Dolore e rimorso, dunque, figli della morte per chi resta nel poligono della vita. Un binomio inseparabile, il cui primo termine è la risultante dell’impatto materiale del trau ma morte sull’animo nostro, mentre il secondo ha una de stinazione attiva, in certo sen so rigeneratrice. Nel senso, in tendo, che attraverso il filtro dei pentimenti stimolati in noi determina una revisione dei giudizi dei vivi sui morti, un distaccato e disinteressato rie same della loro vicenda terre na per il tramite di una lente pietosa o meglio pia, già par tecipe essa stessa, nonostante sia ancora di questa terra, di un mondo extraterreno privo dei veleni e delle passioni esi stenziali. Per quel rimorso af fiancato al dolore, i morti su biscono in noi un procèsso di riabilitazione che li sottrae quasi sempre all’odio, al ran core e addirittura all’antipatia dei vivi, tutti sentimenti vita li ma che appunto per questo la morte respinge. Ed è forse il rimorso che insieme al dolore sentiamo per chi ha lasciato la terra prima di noi a confortarci del giorno in cui sarà il nostro turno di lasciare la terra. Esso ci prean nuncia inavvertitamente il ri morso di coloro che resteran no dopo di noi; i quali di noi diranno a loro volta con voce tremante: se lo avessi compre so … se non lo avessi abban donato … se potesse sentire che non gli ero nemico. Voce nella quale è la conferma che l’uomo lascia ai vivi, fuor che nei casi estremi, un motivo d’assoluzione e una traccia di amore. Letto 1464 volte. Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||