LETTERATURA: I MAESTRI: Odio dei vivi7 Settembre 2017 di Virgilio Lilli Avviene abbastanza spesso che la morte sia una cattiva maestra; non cattiva perché non sappia insegnare, bensì perché insegna cattiveria: una maestra malvagia. Quando parliamo della scomparsa d’una persona ca ra noi adoperiamo in genere un dativo di comodo: dicia mo « mi ». Mi è morto, di ciamo, mi è morta, e non « è » morto, « è » morta. Inavverti tamente la catastrofe che s’è abbattuta su altri la riferiamo a noi, la dirottiamo sulla no stra persona, quasi i colpiti fossimo solo noi che essendo vivi abbiamo ancora la capa cità di soffrirne. Mi è morto, mi è morta. E’ morto a me, è morta a me, e non a se stes so o a se stessa; poiché quel se stesso s’è dissolto, chi sa dov’è, chi sa cos’è, chi sa se è. Inavvertitamente, ripeto, il marito che perde la sposa, l’amico che perde l’amico, i genitori che perdono il figlio, per un sentimento di solida rietà umana che vuole scaval care la brutalità del fatto com piuto morte, si accollano l’in giuria fatta senza possibilità d’appello ai loro cari; e nella loro sofferenza includono la protesta di chi, disintegratosi, non può più protestare. Il do lore dei congiunti vivi è dun que un poco un prolungamen to della vita dei morti, un re cupero sia pure parziale ed effimero del loro respiro e, di più, un disperato tentativo di rilancio della loro difesa, in realtà ormai vana, ahimè, e soprattutto tardiva. Di chi resta orbato d’un essere a lui caro, in queste condizioni il fenomeno morte fa avanti tutto un contestato re della vita; se non altro per ché la contestazione della mor te è per definizione un atto privo di bersaglio materiale essendo tutto sommato la contestazione d’un vuoto, d’un irraggiungibile nulla: è sulla vita che deve riversarsi l’ira di chi è colpito dalla morte e, per suo conto, l’ira nostra, di noi privati di lui. Simili a fanciulli bendati che giochino a mosca cie ca, noi, i parenti, gli amici del morto, allunghiamo le braccia verso la vita che ci è attorno per afferrare qual cosa di concreto, un qualcu no sensibile, idoneo a regi strare un colpo, perché sof fra a sua volta un oltraggio, perché « non se la cavi così liscia » mentre il nostro scom parso (e noi con lui) è vitti ma della più definitiva sorte di questa terra. La morte ci ha impartito una lezione di violenza, non possiamo che metterla in atto, mescolando al dolore la cattiveria, al pun to che ci sarebbe difficile di stinguere l’uno dall’altra. In termini più elementari direi che la morte ci obbliga un po’ a odiare. E si tratta d’un odio che risponde a cer te leggi di simmetria, di un sentimento che ha un iter preciso di natura geometrica come in due fasci di raggi co siddetti congruenti, ognuno dei quali si riferisce all’omo logo e non agli altri. Un odio di cui non dobbiamo deter minare la direzione: autono mo; nel quale operano forze direi elettromagnetiche, come nei missili terra-terra, aria-aria, che vanno a cercarsi il bersaglio comunque da sé, sen za possibilità d’errore da par te loro né di scampo da par te del bersaglio. * Un padre che ha perduto il figlio sarà senza avvedersene condotto non a odiare gene ricamente e confusamente uo mini di diversa estrazione e natura: il suo odio sarà cap tato automaticamente da figli, nel momento nel quale la lo ro diciamo così figliezza è più viva e visibile. Se quel figlio al momento della morte avrà avuto dodici anni, il padre vi vrà per alcun tempo nell’in conscio odio dei ragazzi di dodici anni (simile in appa renza a un amore, ma in real tà duro e appiccicato al suo animo come la crosta d’un eczema). Dei ragazzi dodicen ni egli non prenderà nozione incontrandoli da soli sulla strada della scuola o al giar dino pubblico o altrove, ma precisamente quando saranno a fianco del padre. Vedere il figlio « simile al suo » a fianco del padre, gli farà montare il sangue alla te sta (ripeto ch’egli penserà a un moto di nostalgico amo re), non per la morte del pro prio figlio ormai disintegrato, ormai irrecuperabile, ormai « andato », ma per la vita del figlio di quell’altro padre. Sor da, spaventosamente acre, to talmente priva di qualsiasi charitas umana e cristiana, una domanda gli urgerà alla gola come una bestemmia: « Perché il mio sì e il suo no? ». C’è questa accorata, irrefre nabile invidia nella « cattive ria » di cui è maestra la mor te per coloro che hanno per duto una persona cara; c’è questa livida gelosia di una fortuna che i non colpiti dal la morte non registrano, igna ri d’essere dei privilegiati se non altro per non essere en trati direttamente o indiretta mente nel suo raggio d’azio ne. Essi camminano nella vi ta come se la vita non fosse la premessa inderogabile del suo contrario: i padri coi fi gli, gli sposi con le spose, gli amici con gli amici; e i loro crucci, i loro dolori, le loro tristezze sono elementi anche essi vitali, palpitanti, pregni di presenza esistenziale, atti vi; tali insomma che ai col piti dalla morte d’un congiun to o d’un amico appaiono co me fatti felici. Un fatto felice sembra, ad esempio, agli occhi di un ve dovo, l’angoscia di un mari to per il disamore della mo glie, che è un segno palpitan te di vita. Un fatto felice sembra a una madre privata del figlio dalla morte la di sperazione di un’altra madre per un delitto commesso dal figlio, palpitante di vita an ch’esso, il delitto. E un uomo o una donna che si addolo rano fino alle lacrime per la partenza di un amico o di una amica sono, per chi ha vedu to morire un amico o una amica, persone felici, perché quella partenza avviene da questa parte, dalla parte della vita. A costoro chi è stato colpi to dal trauma della morte vor rebbe dire: « Siete angosciati, vi disperate, piangete e non vi rendete conto della vostra fe licità ». Vorrebbe dire: « In grati », vorrebbe dire addirit tura: « Canaglie ». Vorrebbe perfino aggiungere: « Mi pia cerebbe vedere che cosa fare ste se la moglie, viva, per la quale vi angosciate, fosse mor ta. Se il figlio, vivo, per il quale vi disperate, fosse mor to. Se l’amico, vivo, per il quale piangete, fosse morto ». In queste parole non dette, lie vita, inespressa ma inconteni bile, una maledizione. * In una simile maledizione, intendiamoci, non c’è nulla di attivo. Essa stessa è un feno meno passivo, subito da chi indirettamente la formula, ben lontano dal divenire una in vocazione che miri a coin volgere altri mariti, altre ma dri, altri amici in una sorte collettiva sul piano di una ferale eguaglianza. Voglio dire che nessun vedovo invoca la morte delle mogli altrui, nessun padre d’un figlio scom parso invoca la morte per i figli d’altri padri e così via. Ma anche voglio dire che in quel sentimento di gelosa invidia, sia pure allo stato in forme di magma psicologico c’è una inconfessata sete di giustizia, una remota esigen za d’una « morte eguale per tutti » parallela a quella della « legge eguale per tutti ». (Evidentemente il sentimento di odio dei vivi generato dalla ingerenza della morte nella cerchia della nostra vita ha, nonostante appaia del tutto irrazionale, una base di legittimità. Esso si manifesta infatti tutte le volte che la scomparsa di chi amiamo av viene contro le stesse leggi di natura, il giovane al posto del vecchio, il figlio al posto del padre e via di seguito. E in fatti è da escludere che un simile sentimento si insinui nell’animo di chi perde un congiunto o un amico i quali abbiano superato i limiti d’età del mestiere vita). In realtà, penetrando nel recinto delle età da vivere, la morte lavora secondo una cie ca faziosità, rivelandoci quan to sia falso il luogo comune che le assegna il ruolo di « imparziale giustiziera », e quanto al contrario sia vero che essa sa essere, a volte per fino con atrocemente impieto sa abilità, la più iniqua, la più crudele e illegittima delle ma nifestazioni del creato. Non a caso quell’odio dei vivi ch’es sa ci insegna è a sua volta il riverbero nefasto delle soperchierie alle quali sottopone al cuni di noi a preferenza di altri. Odio dei vivi, dunque; in segnamento della parziale ce cità della morte come nega zione della stessa natura. Un sentimento abietto? Tale che alla ferita inflittaci dalla in giusta sorte aggiunge una con taminazione alla nostra ani ma? Tale che un orfano il quale guardando un suo coe taneo col padre e pensando « Il suo è vivo, il mio no », debba essere oltre tutto una creatura vile? Io direi di no. Direi che se un simile senti mento ci priva d’una parte della nostra dotazione d’amo re proiettando l’ombra di chi « ci » morì su tutti coloro i quali, ubicati similmente nel la vita, non morirono ad al tri, è anche vero ch’esso con ferma da parte dell’uomo la esigenza d’un primordiale di ritto anche nei confronti del mistero: il diritto alla giusti zia, appunto, senza della qua le è innanzi tutto impossibile amare nel senso integrale del la parola. (Ma forse anche queste considerazioni, per quanto fondate su evidenti realtà temporali, sono illusorie. Al tre realtà ci dicono di avere pazienza, di non precedere ap punto il tempo. Ogni ingiu stizia sarà cancellata un gior no; e con essa ogni gelosia, ogni invidia, ogni protesta. E probabilmente ogni cedimen to del nostro bagaglio d’a more). Letto 1231 volte. Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||