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LETTERATURA: I MAESTRI: Odio dei vivi

7 Settembre 2017

di Virgilio Lilli
[dal “Corriere della Sera”, giovedì 12 febbraio 1970]

Avviene abbastanza spesso che la morte sia una cattiva maestra; non cattiva perché non sappia insegnare, bensì perché insegna cattiveria: una maestra malvagia.

Quando parliamo della scomparsa d’una persona ca ­ra noi adoperiamo in genere un dativo di comodo: dicia ­mo « mi ». Mi è morto, di ­ciamo, mi è morta, e non « è » morto, « è » morta. Inavverti ­tamente la catastrofe che s’è abbattuta su altri la riferiamo a noi, la dirottiamo sulla no ­stra persona, quasi i colpiti fossimo solo noi che essendo vivi abbiamo ancora la capa ­cità di soffrirne. Mi è morto, mi è morta. E’ morto a me, è morta a me, e non a se stes ­so o a se stessa; poiché quel se stesso s’è dissolto, chi sa dov’è, chi sa cos’è, chi sa se è.

Inavvertitamente, ripeto, il marito che perde la sposa, l’amico che perde l’amico, i genitori che perdono il figlio, per un sentimento di solida ­rietà umana che vuole scaval ­care la brutalità del fatto com ­piuto morte, si accollano l’in ­giuria fatta senza possibilità d’appello ai loro cari; e nella loro sofferenza includono la protesta di chi, disintegratosi, non può più protestare. Il do ­lore dei congiunti vivi è dun ­que un poco un prolungamen ­to della vita dei morti, un re ­cupero sia pure parziale ed effimero del loro respiro e, di più, un disperato tentativo di rilancio della loro difesa, in realtà ormai vana, ahimè, e soprattutto tardiva.

Di chi resta orbato d’un essere a lui caro, in queste condizioni il fenomeno morte fa avanti tutto un contestato ­re della vita; se non altro per ­ché la contestazione della mor ­te è per definizione un atto privo di bersaglio materiale essendo tutto sommato la contestazione d’un vuoto, d’un irraggiungibile nulla: è sulla vita che deve riversarsi l’ira di chi è colpito dalla morte e, per suo conto, l’ira nostra, di noi privati di lui.

Simili a fanciulli bendati che giochino a mosca cie ­ca, noi, i parenti, gli amici del morto, allunghiamo le braccia verso la vita che ci è attorno per afferrare qual ­cosa di concreto, un qualcu ­no sensibile, idoneo a regi ­strare un colpo, perché sof ­fra a sua volta un oltraggio, perché « non se la cavi così liscia » mentre il nostro scom ­parso (e noi con lui) è vitti ­ma della più definitiva sorte di questa terra. La morte ci ha impartito una lezione di violenza, non possiamo che metterla in atto, mescolando al dolore la cattiveria, al pun ­to che ci sarebbe difficile di ­stinguere l’uno dall’altra.

In termini più elementari direi che la morte ci obbliga un po’ a odiare. E si tratta d’un odio che risponde a cer ­te leggi di simmetria, di un sentimento che ha un iter preciso di natura geometrica come in due fasci di raggi co ­siddetti congruenti, ognuno dei quali si riferisce all’omo ­logo e non agli altri. Un odio di cui non dobbiamo deter ­minare la direzione: autono ­mo; nel quale operano forze direi elettromagnetiche, come nei missili terra-terra, aria-aria, che vanno a cercarsi il bersaglio comunque da sé, sen ­za possibilità d’errore da par ­te loro né di scampo da par ­te del bersaglio.

*

Un padre che ha perduto il figlio sarà senza avvedersene condotto non a odiare gene ­ricamente e confusamente uo ­mini di diversa estrazione e natura: il suo odio sarà cap ­tato automaticamente da figli, nel momento nel quale la lo ­ro diciamo così figliezza è più viva e visibile. Se quel figlio al momento della morte avrà avuto dodici anni, il padre vi ­vrà per alcun tempo nell’in ­conscio odio dei ragazzi di dodici anni (simile in appa ­renza a un amore, ma in real ­tà duro e appiccicato al suo animo come la crosta d’un eczema). Dei ragazzi dodicen ­ni egli non prenderà nozione incontrandoli da soli sulla strada della scuola o al giar ­dino pubblico o altrove, ma precisamente quando saranno a fianco del padre.

Vedere il figlio « simile al suo » a fianco del padre, gli farà montare il sangue alla te ­sta (ripeto ch’egli penserà a un moto di nostalgico amo ­re), non per la morte del pro ­prio figlio ormai disintegrato, ormai irrecuperabile, ormai « andato », ma per la vita del figlio di quell’altro padre. Sor ­da, spaventosamente acre, to ­talmente priva di qualsiasi charitas umana e cristiana, una domanda gli urgerà alla gola come una bestemmia: « Perché il mio sì e il suo no? ».

C’è questa accorata, irrefre ­nabile invidia nella « cattive ­ria » di cui è maestra la mor ­te per coloro che hanno per ­duto una persona cara; c’è questa livida gelosia di una fortuna che i non colpiti dal ­la morte non registrano, igna ­ri d’essere dei privilegiati se non altro per non essere en ­trati direttamente o indiretta ­mente nel suo raggio d’azio ­ne. Essi camminano nella vi ­ta come se la vita non fosse la premessa inderogabile del suo contrario: i padri coi fi ­gli, gli sposi con le spose, gli amici con gli amici; e i loro crucci, i loro dolori, le loro tristezze sono elementi anche essi vitali, palpitanti, pregni di presenza esistenziale, atti ­vi; tali insomma che ai col ­piti dalla morte d’un congiun ­to o d’un amico appaiono co ­me fatti felici.

Un fatto felice sembra, ad esempio, agli occhi di un ve ­dovo, l’angoscia di un mari ­to per il disamore della mo ­glie, che è un segno palpitan ­te di vita. Un fatto felice sembra a una madre privata del figlio dalla morte la di ­sperazione di un’altra madre per un delitto commesso dal figlio, palpitante di vita an ­ch’esso, il delitto. E un uomo o una donna che si addolo ­rano fino alle lacrime per la partenza di un amico o di una amica sono, per chi ha vedu ­to morire un amico o una amica, persone felici, perché quella partenza avviene da questa parte, dalla parte della vita.

A costoro chi è stato colpi ­to dal trauma della morte vor ­rebbe dire: « Siete angosciati, vi disperate, piangete e non vi rendete conto della vostra fe ­licità ». Vorrebbe dire: « In ­grati », vorrebbe dire addirit ­tura: « Canaglie ». Vorrebbe perfino aggiungere: « Mi pia ­cerebbe vedere che cosa fare ­ste se la moglie, viva, per la quale vi angosciate, fosse mor ­ta. Se il figlio, vivo, per il quale vi disperate, fosse mor ­to. Se l’amico, vivo, per il quale piangete, fosse morto ». In queste parole non dette, lie ­vita, inespressa ma inconteni ­bile, una maledizione.

*

In una simile maledizione, intendiamoci, non c’è nulla di attivo. Essa stessa è un feno ­meno passivo, subito da chi indirettamente la formula, ben lontano dal divenire una in ­vocazione che miri a coin ­volgere altri mariti, altre ma ­dri, altri amici in una sorte collettiva sul piano di una ferale eguaglianza. Voglio dire che nessun vedovo invoca la morte delle mogli altrui, nessun padre d’un figlio scom ­parso invoca la morte per i figli d’altri padri e così via.

Ma anche voglio dire che in quel sentimento di gelosa invidia, sia pure allo stato in ­forme di magma psicologico c’è una inconfessata sete di giustizia, una remota esigen ­za d’una « morte eguale per tutti » parallela a quella della « legge eguale per tutti ».

(Evidentemente il sentimento di odio dei vivi generato dalla ingerenza della morte nella cerchia della nostra vita ha, nonostante appaia del tutto irrazionale, una base di legittimità. Esso si manifesta infatti tutte le volte che la scomparsa di chi amiamo av ­viene contro le stesse leggi di natura, il giovane al posto del vecchio, il figlio al posto del padre e via di seguito. E in ­fatti è da escludere che un simile sentimento si insinui nell’animo di chi perde un congiunto o un amico i quali abbiano superato i limiti d’età del mestiere vita).

In realtà, penetrando nel recinto delle età da vivere, la morte lavora secondo una cie ­ca faziosità, rivelandoci quan ­to sia falso il luogo comune che le assegna il ruolo di « imparziale giustiziera », e quanto al contrario sia vero che essa sa essere, a volte per ­fino con atrocemente impieto ­sa abilità, la più iniqua, la più crudele e illegittima delle ma ­nifestazioni del creato. Non a caso quell’odio dei vivi ch’es ­sa ci insegna è a sua volta il riverbero nefasto delle soperchierie alle quali sottopone al ­cuni di noi a preferenza di altri.

Odio dei vivi, dunque; in ­segnamento della parziale ce ­cità della morte come nega ­zione della stessa natura. Un sentimento abietto? Tale che alla ferita inflittaci dalla in ­giusta sorte aggiunge una con ­taminazione alla nostra ani ­ma? Tale che un orfano il quale guardando un suo coe ­taneo col padre e pensando « Il suo è vivo, il mio no », debba essere oltre tutto una creatura vile? Io direi di no. Direi che se un simile senti ­mento ci priva d’una parte della nostra dotazione d’amo ­re proiettando l’ombra di chi « ci » morì su tutti coloro i quali, ubicati similmente nel ­la vita, non morirono ad al ­tri, è anche vero ch’esso con ­ferma da parte dell’uomo la esigenza d’un primordiale di ­ritto anche nei confronti del mistero: il diritto alla giusti ­zia, appunto, senza della qua ­le è innanzi tutto impossibile amare nel senso integrale del ­la parola.

(Ma forse anche queste considerazioni, per quanto fondate su evidenti realtà temporali, sono illusorie. Al ­tre realtà ci dicono di avere pazienza, di non precedere ap ­punto il tempo. Ogni ingiu ­stizia sarà cancellata un gior ­no; e con essa ogni gelosia, ogni invidia, ogni protesta. E probabilmente ogni cedimen ­to del nostro bagaglio d’a ­more).


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