LETTERATURA: I MAESTRI: Pannunzio31 Agosto 2011 di Arrigo Benedetti [dal “Corriere della Sera”, lunedì 10 febbraio 1969] Ora è un anno, nelle com memorazioni private e pub bliche, ci fu un motivo: « Co me giudicheremo i fatti, d’ora in poi » dissero gli amici. Nel primo anniversario della sua scomparsa prematura â— cin quantotto anni â— ci si chiede da che venisse l’autorità rico nosciutagli da tutti. Il mondo è cambiato in fretta. Egli l’amava come spet tacolo. Contro quanto si cre de, gli piaceva nel suo insie me: le creazioni dello spirito, i capricci della fantasia, gli aspetti naturali e quelli socia li, gli eventi grandi e minimi. Per esempio, si divertiva a parlare coi bambini, ad ascol tarli. a capirli; con essi, si scioglieva. Oggi, è arbitrario supporre un suo parere sugli ultimi eventi; però, in vita, fu ascoltato perché parlando met tesse nella prospettiva giusta i fatti. Il giudizio era indiret to, di rado in un discorso che avesse un accento didattico; gli bastava un lieve sorriso, un silenzio. E sapeva anche arrabbiarsi; per un attimo si abbandonava all’ira, poi ta ceva quasi per scusarsi, o for se stupito lui stesso da quel furore. Le stanze dove lavorò furo no sempre una specie di sa lotto culturale e politico, spre giudicato, con una sfumatura d’eleganza. Al termine dava un senso particolare; se ne serviva per alludere non a raf finatezza sofisticata, ma alla semplicità espressiva, o intel lettuale. In via Regina Elena dove, durante la guerra, com pilammo un settimanale non conformista, venivano â— lo so â— a cercare lui. Quando il giornale fu soppresso, uomini politici della democrazia libe rale prefascista salirono a sa lutarci. Ricordo Ivanoe Bonomi che l’interroga per capire il senso della nostra fronda. Nel settembre del ’44, attra versate le linee, raggiunsi Ro ma e andai a trovarlo a pa lazzo Sciarra. Lasciai la bi cicletta appoggiata al muro, sul Corso. Dirigeva Il Risor gimento Liberale, e mi stupì la gente che aspettava d’en trare nel suo studio, dove, con Michele Mottola, preparava il numero del giorno dopo. « Ah, sei tornato? » mi dis se affacciandosi attratto dai saluti clamorosi di tanti ami ci. Per la prima volta dall’in fanzia, e per l’ultima, m’ab bracciò, con un gesto, a si gnificare che Roma era già diversa dai posti da cui ve nivo. Nel corridoio-anticamera, vi di vecchi amici e persone di cui poi avrei avuto l’amicizia. Ascoltarono i miei confusi rac conti, la guerra fu dimenticata e i letterati e i giornalisti tor narono alla loro spensieratez za. Io dovevo riabituarmici, al loro linguaggio ironico; in quel momento, provavo il di sagio che il nostro sarcasmo intellettualistico suscitava su gli uomini politici. In tali cir costanze, Manlio Brosio, Nic colò Carandini, Leone Cattani, Marcello Soleri sogguarda vano Mario stupiti che si divertisse. Franco Libonati, avvezzo a frequentare i teatri, Mario Ferrara e Panfilo Gen tile, che stavano nella politica e nella letteratura, intendeva no il senso, ilare in apparenza e invece triste, del sarcasmo. * Anche Il Mondo diventò un salotto. La sede d’un settima nale, rimasto come lezione di stile, fu visitata da Croce una volta, e più spesso da Saragat. Tanti altri salirono quelle sca le; alcuni restarono amici, al tri no, senza che lui esprimes se con rabbia la sua delusio ne. Frequentatore assiduo, La Malfa. Lo vedo nelle grandi stanze redazionali. Ascolta let terati e giornalisti; stupisce che non parlino di politica. Una porta si socchiude; Ma rio, dopo avere riso a un pa radosso, portò con sé il visi tatore, lo mette a suo agio ac cennando subito a temi poli tici. S’appartano nella stan za dalle pareti grigie, su cui campeggiano due stampe: Ca vour in una cornice d’oro da gli angoli arrotondati, e una incisione con Mazzini moren te. Sulla scrivania, il piombo della testata del Mondo, il quotidiano di Giovanni Amendola. Proustiano per il gusto del la storia fantasticamente colta nel suo flusso, per la pre dilezione di Vermeer, sentiva in Swann un ideale di discre zione. Non parlò mai delle colazioni al Quirinale, durante due presidenze. Una sera mi disse arrossendo: « Indovina chi ho visto, oggi ». Il direttore dell’Osservatore Romano Dalla Torre gli aveva voluto parlare; da Latour, credo, in via Cola di Rienzo. Le nostre conversazioni continuarono anche quando io lasciai Roma. Per lo più, la mat tina dopo avere letto i quotidiani e ascoltato almeno un notiziario della radio, ero ten tato di svegliarlo. Guardavo l’orologio. Le nove, lui anco ra dorme; le dieci: fuma le prime sigarette, legge i gior nali, ancora troppo presto; ma le dieci non erano ancora scoc cate e già componevo il pre fisso di Roma, lo 06, e poi il suo numero. « Hai letto? Hai sentito? ». Aveva letto e udito. Benché fosse sveglio da poco, avver tivo da lontano l’alacrità del la sua mente. Era già dispo sto a discutere un caso poli tico, un articolo di giornale, il nuovo romanzo di qualche amico, un film. Oppure, mi descriveva una serata fra co muni conoscenze; mi riferiva discorsi, quale altro sopranno me avessero affibbiato a uno scrittore, a un pittore, a un regista. Ogni tanto, era lui a chiamarmi, così presto che io capivo che m’avrebbe comu nicato una grande notizia. Il vantaggio del colloquio tele fonico non era però nel diva gare da un tema all’altro, e neanche nei pareri tassativi; bensì in certe sospensioni del la voce. Talvolta, l’impegno morale lo spingeva a un lun go discorso; un vero peccato non registrarlo: qualcosa fra la moralità elegante e l’invet tiva. Altri amici, sebbene non gli telefonassero così spesso, e non da un posto distante più di trecentosessanta chilometri, avevano lo stesso bisogno di verificare la consistenza d’un avvenimento, parlandogliene. Per questo, un anno fa, si chiesero â— e io con loro â— come avremmo potuto d’ora in poi sopportare la sua as senza. Invece, la vita che non ammette vacanze, ci ha, poco alla volta, disabituato dal chie derci quale sarebbe stata la sua reazione a fatti accaduti nell’ultimo anno, quale il suo giudizio su persone emerse. « Buon per lui che non c’è più » ci diciamo talvolta ri trovandoci, amareggiati da ca si che ci paiono incredibili, e che quasi ci convincono che l’Italia sarà differente da quel la che avevamo sognato in sieme. Ma quasi subito ci ver gognamo dello sgomento, ri cordiamo com’egli dicesse che nessuno è insostituibile; sco priamo che ognuno di noi ha un limite nel tempo, misterio samente implicito nel suo es sere. E proprio perché sap piamo quale bene sia stata l’amicizia d’un uomo serio e insieme gaio, alacre e pure pigro, non disposto mai a stra fare, ritroviamo il suo gusto a guardare lo sviluppo degli avvenimenti, il sostituirsi d’un uomo a un altro, come a uno spettacolo. Così, ci sentiamo capaci di valutare per conto nostro, magari in una solitu dine malinconica solo in par te, i casi e le idee, senza quel la verifica, alla quale ci era vamo avvezzati fino a viziar cene. * Basta un anno a trasfigu rare un uomo, a cancellarne le ultime immagini, a farlo ri sorgere nel nostro animo. Io, Mario Pannunzio, non lo ri vedo più, come mi successe nelle settimane seguite alla sua morte, legato a figurazioni remote, vicine, recentissime. Lui bambino sui baluardi fron zuti della nostra città. Lui gio vanotto d’estate in Versilia che balla. La notte indimenticabile del 25 luglio, l’altra del set tembre del ’44 quando porta tomi a dormire a casa sua, pri ma di tornare al giornale, mi buttò sul letto un fascio di nuovi quotidiani, perché ca pissi ch’erano giunti davvero i giorni della libertà. E si dissolve perfino una sera di dicembre del 1967, al la quale la mente era spesso tornata con dolore. Dopo ce na, rimasti soli, m’accompagnò all’albergo con la sua auto mobile grigia. Di solito, ac cettava un invito al bar. In vece, benché non fosse anco ra mezzanotte, mi disse: « Va’, sei stanco, hai sonno… » con la lieve ironia di sempre, ri ferita alla mia abitudine a co ricarmi presto. Lui invece era un nottambulo; ma precisò che ormai gli piaceva rinca sare e leggere. Aggiunse, quan do già ero sulla soglia dell’in gresso, che tornassi, e non per un giorno solo. Mi volsi e gli risposi che sarei venuto a Ro ma dopo le feste, forse in feb braio. « Vieni tu a trovarmi » feci, e lui rise con un cenno negativo. Da qualche tempo, correre in automobile, la sua passione giovanile, non gli piaceva più. Ridemmo, ignari ch’era il nostro ultimo incon tro. L’ultima telefonata invece fu di domenica mattina. « Va do a Milano » dissi « e ti chia merò di lassù ». Non ci dilun gammo gran che. « Vieni an che a Roma » insisté prima di salutarmi per sempre. Ora, Mario Pannunzio, non è più un’immagine collegata a un seguito di ricordi. E’ di ventato un’esistenza sciolta dai casi contingenti che suscita rono per tanti anni le nostre passioni. In mezzo a essi in vece noi restiamo, con l’ob bligo di viverli, gaiamente e seriamente, sforzandoci di giu dicarli di là dai pregiudizi, com’egli seppe finché visse. Letto 1519 volte. Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||