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LETTERATURA: I MAESTRI: Pier Paolo Pasolini. Quando Dio siede a tavola

19 Gennaio 2016

di Cesare Garboli
[da “La fiera letteraria”, numero 23, giovedì, 6 giugno 1968]

PIER PAOLO PASOLINI
Teorema
Garzanti, pagine 206, lire 2000.

Dovendolo definire tecnicamente, Teorema di Pier Paolo Pasolini non lascia spazio a tante ipotesi. Si dichia ­ra da se stesso in modi apertissimi: un « treatment », pura e semplice stesura della trama di un film, nel momento in cui essa, simile a un racconto visi ­vo, diventa, a fini pratici, più ricca di particolari che non fosse l’originaria e schematica enunciazione del « sogget ­to », ma resta ancora lontana dalla completezza funzionale della « sceneg ­giatura ». Ispirandosi al linguaggio delle scienze, come del resto nel titolo, Pasolini ci parla di « referto » più che di « racconto », di relazione « informa ­tiva » (magari anche sociologica ­mente), insomma di dimostrazione coi suoi dati, sviluppi, corollari, chiaren ­doci nel corso della narrazione che in omaggio a questa natura, che tiene della geometria e del mistero (Teore ­ma è una parabola), il senso dell’opera è quello di un enigma. Scritta in ter ­mini matematici, essa ha più del « co ­dice » che del « messaggio » (mentre poi, a conti fatti, risulterà vero il con ­trario).

Dipinto con la mano destra

Alla buon’ora: una mezza cosa? Un embrione di storia? L’abbozzo di un racconto? Un «cartone »? Rumori esterni e mondani porterebbero a con ­validare questo ingiusto sospetto. Si sa che Pasolini ha finito un mese fa di girare il film omonimo, che entrerà presto in circuito. Lo stesso Pasolini, nel risvolto editoriale, non nasconde la stretta connessione tra libro e film: « Teorema è nato, come su fondo oro, dipinto con la mano destra, mentre con la mano sinistra lavoravo ad af ­frescare una grande parete (il film omonimo). In tale natura anfibologi ­ca, non so sinceramente dire quale sia prevalente: se quella letteraria o quel ­la filmica ». La confessione artigianale è importante, aiuta a raccapezzarsi in un testo che sembra scritto davvero col pennello, farcitissimo di richiami figurativi, continua vicenda e fuga di cromatismo. Nelle tinte dominanti, il verde, il grigio (sui bianchi), l’azzur ­ro, Pasolini si produce perfino nel pa ­stello, senza però dimenticare la sua predilezione per i grandi oli manieri ­stici, le nere figure angosciate, i cieli vertiginosi e caravaggeschi, le gonfie nubi tenebrose listate di assurdi se ­reni.

Ma in Teorema, che si svolge tra Milano e la Bassa, i toni accesi, passio ­nali, si spengono volentieri nella diffu ­sa ruggine degli autunni, si smorzano in una luce sognante, diafana, di anne ­gante dolcezza, verso il gusto di una pittura bagnata di musica. A tratti si ha l’impressione che Pasolini castighi se stesso, cercando una nuova povertà di mezzi, la dimensione uniforme del ­la castità. Lascia indietro i manieristi e insegue una sua moderna, verde ve ­na giorgionesca. Paesaggi immersi nel « mistero », freschissimi e desolanti: terre acquatiche, piante palustri, bo ­schi cedui, stagni, betulle, allori, picco ­le quercie, ulivi, « passivi alla luce che li tocca come un miracolo naturale ». Così si ritorna alla pia, risvegliarne pittura dei primitivi quando illustra umilmente, « comicamente », il folgo ­rante o maestoso tema divino della pa ­la su fondo oro.

Spesso le brevi parabole che com ­pongono sveltamente l’insieme del « sacro esempio » che è Teorema ricor ­dano la varia policromia borghese del ­le predelle tre-quattrocentesche: scene di momentanea vita sacra o paesana, storie di santi, miracoli, leggende, in ­terni di case signorili, paesaggi, episo ­di fissati con un gusto del vero, una precisione che dà nel nitido realismo favoloso. Pasolini non è mai stato così « artista » come in Teorema, mai così capace di fondere i diversi ingredienti della sua non-poesia in tanta unità. Lo stile dolce gli ha giovato. E tutto mi sembra, questo libro, tranne quello che è parso a Paolo Milano: il « treat ­ment » di un racconto, il canovaccio di un racconto « da fare ». Il talento de ­corativo ed estetizzante di Pasolini di ­rei non si era mai accordato con più scaltrita e spontanea semplicità alla fondamentale ispirazione creaturale dello scrittore.

Le formelle di un miracle play

E’ vero piuttosto quello che l’auto ­revole critico dell’‘Espresso osserva in altro luogo, e cioè che « lungi dall’es ­sere, quale ci è presentato, una pa ­rabola in cui la sete di Dio è cifrata in termini erotici, Teorema è al con ­trario per interposta trama e perso ­naggi escogitati il grido di dolore di uno scrittore per il quale l’eros è l’u ­nica cosa divina, una tremenda divi ­nità, gorgo di estasi e di morte. Pen ­sare e sentire così, porta ad essere, in morale, un edonista tragico, e, in arte, un esteta ». Questo lo si sapeva (ma l’estetismo di Pasolini è dialettico), e, anche di fronte a una novità pasoliniana, non era troppo difficile im ­maginarlo. Ma era giusto che andasse sottolineato, prima di chiarire quale sia l’invenzione tecnica che fa di Teo ­rema una vera squisitezza, un prodot ­to felicemente riuscito.

Teorema, abbiamo detto, è un tratta ­mento, un « film scritto ». Ma è singo ­lare e prestigiosa, quanto ricca di su ­periore naturalezza, la perizia con la quale lo scrittore ha utilizzato, ri ­copiandoli pari pari, e nello stesso tem ­po rivoltandoli fino a renderli irrico ­noscibili, appunto quei modi sommari, insieme pretenziosi e volgari, che con ­trassegnano di regola la stesura di ogni « treatment », destinato, ovvia ­mente, a usi pratici. Quelle didascalie dozzinali, quelle comiche congruenze di psicologia tra segno e immagine, sempre di bassa lega, che spesseggiano nelle sceneggiature (per le quali una signora che si passa le dita tra i capelli varrà un segno d’angoscia, e se un at ­tore deve esprimere il disappunto lo farà corrugando le sopracciglia), in ­somma quel tono furbescamente de ­scrittivo ed esplicativo, pratico e sapu ­to, con il quale, attraverso una sintas ­si dall’eterno verbo al presente, si al ­lude sempre a qualcosa che non è an ­cora ma è già in mente Dei (e cioè si allude al film in progetto), questi ma ­teriali scadenti, nelle mani di Pasolini, si trasformano in oro, diventano una materia preziosa, un’invenzione relati ­va allo scrivere. La sbrigativa volga ­rità del trattamento viene stralunata, delegata a fungere da struttura edifi ­cante, in una sorta di poemetto didattico-figurativo, dove al film non girato corrisponde un’allegoria, una vicenda dai soprasensi riposti e fatali.

 

Tutto è già scritto, come nelle fiabe.

C’è un film implicito, in Teorema, che non è certo quello che vedremo. Questo film è una storia sacra, un esempio, uno « specchio » medievale (il fondo-oro), contro il quale si defila la stupida storia delle impotenze bor ­ghesi che il poeta ci viene via via rac ­contando. Con un linguaggio candido e ingenuo, addirittura da narratore de ­voto, come si addice alla povera storia umana, ma anche lussuoso, come si conviene al tema ineffabile. Pasolini spiega, commenta, illustra in tante formelle l’essenza di un miracle play.

Il risultato è uno stile da flauto ma ­gico, tutto nativo e figurale. Si sente in questa direzione la presenza di un modello coevo e congeniale, Elsa Mo ­rante, grande comprimaria creaturale (il fiabeggiare da contemporanea e in ­sieme da sopravvissuta, ricco d’ironia, modo naturale della Morante, diventa in Teorema una conquista). Mentre l’i ­dea di Teorema, Mammona che s’innamora di Dio, anche nel modo in cui è svolta, sarebbe piaciuta a Oscar Wilde, al Wilde delle favole.

In un pomeriggio qualsiasi, Dio, nel ­le sembianze di un ragazzo bellissimo, di una bellezza così eccezionale e mite da riuscire inquietante e scandalosa, si presenta in una casa borghese, e tutti i componenti della famiglia s’in ­namorano e vengono posseduti da lui, che li prende con uguale, infinito tra ­sporto di pietà protettiva: Emilia, la serva; Paolo, il ricco industriale; Lu ­cia, la signora « bene »; Odetta e Pie ­tro, i figli. Tutti subiscono, attraverso l’amore, la rivelazione della libertà e della vita.

Ma il dio parte, e quanto era stata radiosa l’iniziazione, tanto è compas ­sionevole, tragicamente e mediocre ­mente disperata la crisi abbandonica dei protagonisti: Lucia, la madre, cer ­ca di ripetere, illusa, l’esperienza divi ­na con due ragazzi in vita; la figlia, Odetta, s’indurisce ammutolita, piccola sfinge stupidella; il figlio, Pietro, in ­giallisce d’impotenza in rabbiosi tenta ­tivi d’arte materica; il padre, Paolo, si spoglia nudo, alla Stazione Centrale, scambiando i simboli con la realtà. Soltanto Emilia, la serva, tutta verde per nutrirsi solo di ortiche, salverà la sua anima, per la « complicità tra il sottoproletariato e Dio », diventando santa. Col suo passaggio, il nume avrà portato in famiglia, insieme alla vita, anche ciò che soltanto compete alla vi ­ta: l’amore e la distruzione.

Sia ben chiaro che se mai un dio do ­vesse calare in una vera famiglia bor ­ghese, appena un po’ meno convenzio ­nale di quella che ci descrive Pasolini, il primo a essere distrutto, fatto a bra ­ni, sarebbe lui. Niente è più refratta ­rio, e solitamente vincente, dello spiri ­to borghese rispetto ai sublimi acidi della poesia. « Borghesia » è costrutti ­va, pseudo-razionalismo, irrealtà in ­conscia di se stessa nell’agire, « prati ­cità », dunque spregiosa svalutazione della Vita degradata a materia servile. E d’altra parte difficilmente si potreb ­bero immaginare i grandi antagonisti dello spirito costruttivo e borghese, gli uccelli dell’aria e i gigli del campo, in casa o in faccende. E siccome Paso ­lini è scrittore esteta ma religioso, il suo Teorema sarà da intendersi innan ­zi tutto come un’opera di rivalsa, co ­me una conferma delle opposizioni, in Un contesto storico in cui si va deli ­neando, al contrario, la possibilità di realizzazione dell’Utopia (la costruttività del sesso, il movimento giovanile, Marcuse; e sarà anche un sogno chi ­merico, può darsi, ne sono stati fatti tanti nella storia).

Ma quello che colpisce, in Teorema, nel momento in cui Pasolini cerca di « amare » i borghesi, affrontando il di ­verso da sé, è come egli resista all’idea che essere borghesi, prima ancora di un fatto sociologico, sia un dato di na ­tura esistenziale. Appena si comincia a vivere, si comincia a costruire tutto ciò che non ha valore, cioè a essere borghesi. Accettare questa premessa, sarebbe un vero atto d’amore. Mentre il dio di Teorema, quanto più ama, possiede e distrugge tra Milano e la Bassa, tra pioppeti e giardini residen ­ziali, più ci si trasforma, sotto gli oc ­chi, in un personaggio che conoscia ­mo, il volto già segnato da rughe. E’ creatura più letteraria che mitica. E’ il « poeta assassinato », che legge Rimbaud, che parla, ama e vive in nome della poesia. E’ un dio ribelle e mite, ma anche escluso e deluso. Sa troppo d’amaro, il dio di Teorema, per essere un vero dio. E se tutto è concesso ai numi, una cosa certamente essi ignora ­no: la finzione di amare.


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