LETTERATURA: I MAESTRI: Pietro Pancrazi. Un gentiluomo granducale14 Gennaio 2016 di Cesare Garboli PIETRO PANCRAZI Col titolo Ragguagli di Parnaso, in tre eleganti volumi curati da Cesare Galimberti per l’editore Ricciardi, si ripubblicano oggi, a distanza di sedici anni dalla morte, tutti gli scritti critici di Pietro Pancrazi già compresi nelle ormai famose serie laterziane degli Scrittori d’oggi (sei voll., 1946-1953), con l’aggiunta, opportunamente distri buita dal Galimberti nelle diverse se zioni e sottosezioni di cui si compone la nuova edizione, di quegli articoli su autori italiani dell’Ottocento e del No vecento che furono già raccolti da An tonio Baldini nel volume postumo Ita liani e stranieri (1957). La riscoperta di Guido Nobili Al corpus risultante da questa fusio ne, o meglio da questa ristampa arric chita da indiscutibili integrazioni, il curatore ha poi aggiunto, sempre di stribuendoli con gran tatto nelle sedi che loro più competono, quattro scritti mai raccolti dal Pancrazi o da altri in volume o serie: due recensioni di scrit ti del Serra, del 1914 e ’15, risalenti cioè agli esordi del Pancrazi articoli sta sulla Gazzetta di Venezia; la con versazione radiofonica su « Dieci libri da salvare », del 1949, « vera professio ne di fede fatta dal Pancrazi nella let teratura italiana dell’Ottocento », dice il Galimberti (e il Pancrazi, dal canto suo, dopo avere anteposto il Panzini a Pirandello, e messo Carducci ben saldo sopra Verga, « a questo punto » chiu deva il discorso « sento già qual cuno che dice che io sono tornato in dietro, e io non me n’ho certamente a male; anzi, dopo aver rimesso così al loro posto i santi e i Santarelli come già stavano sulla testata del mio letto, questa notte mi sembrerà di dormire più sicuro »); infine la non dimentica ta prefazione con la quale il Pancrazi « riscopriva », nel 1953, quello stupen do racconto d’amore che sono le Me morie lontane di Guido Nobili (e qui sì, che il Pancrazi poteva addormen tarsi con la coscienza tranquilla). Che il Panzini sia preferibile a Pirandello, che Carducci sia più « por tante » di Verga, che Foscolo e Manzo ni, singolarmente presi, valgano Leo pardi, può anche darsi e comunque non discuto, tanto è certo che quanto alla prima coppia, sia pure per motivi diversi, io non salverei né l’uno né l’altro. Ma la graziosa espressione del Pancrazi, per il quale la storia, e con essa la letteratura, era essenzialmente tradizione, rispetto e dipendenza da valori costituiti, è messa tra parentesi in funzione di frase-spia, non soltanto a indicare le predilezioni del critico, tutte sbilanciate dalla parte dei model li ottocenteschi («il suo cuore era di là », dice Valgimigli), e non soltanto a illustrare il gusto, a definire il tratto dello scrittore (ispirato, come si vede, a un nativo, saporoso e schietto fondo di realismo toscano), ma anche a schiarire i metodi adottati dal Galim berti nella sua riedizione degli antichi, si può ben dire, Scrittori d’oggi. Intanto bisogna avvertire il lettore estraneo a queste cose che il Galim berti non ci offre coi tre volumi un « tutto Pancrazi ». Una fetta dell’uomo e dello scrittore toscano resta fuori da queste cronache; e più che il favolista e il moralista creativo, soprattutto il Pancrazi dell’estrosa raccolta Nel giar dino di Candido, dove il critico s’impe gna con altri, forse più veri amori, col tivandosi il suo Sacchetti, il Magnifico, il Doni, l’Aretino, il Vasari, il Parini, il Tommaseo. Nel segno dell’« auctoritas », la dipendènza dai maestri otto centeschi si conciliava originalmente nel Pancrazi con una natura di genti luomo granducale, di aristocratico e faceto uomo di campagna, insofferente di atteggiamenti, pungente sgonfiatore di tutte le arie, pose, gestualità altrui, in quella linea toscana che sta tra il Capponi e Ferdinando Martini. Non è un caso che nella raccolta intitolata a Candido si ritrovi, tra l’altro, anche « quello studio ampio e ispirato sui Ri cordi del Guicciardini, che condotto nel 1929, fu pure dei primissimi che prepararono la fiorente ripresa d’inte resse per il grande storico e morali sta ». Con quest’omaggio il Cecchi vol le di proposito chiudere nel nome del Guicciardini il proprio ricordo dell’a mico e compagno di lavoro. Guicciar dini da una parte, Cecchi e Pancrazi, due spiriti diversamente toscani, ma egualmente « feriti », si direbbe, ripie gati, rassegnati a un’amarezza irredi mibile, storicamente persuasa (osser vatore realistico il Pancrazi, spregiudi cato e prestigioso tecnico il Cecchi, ma identica la sostanza, gemella di luce), dall’altra: già ci si comincia a orienta re sulla fisionomia del Pancrazi critico e sulla sua attività di cronista, infor matore, moderatore, sulle colonne del Corriere della Sera, del gusto lettera rio italiano tra le due guerre, sotto la dittatura. Dalla parte dell’ottocento E’ appunto questa parte di « critico giornaliero », di arbiter del gusto lette rario del Novecento, come toccò al Pancrazi di essere, probabilmente, senza che egli neppure lo volesse, a partire dalla sua collaborazione al Cor riere di Ojetti (1926), protrattasi in se guito fino alla morte, e convalidata poi dalla sua attività di redattore primario di Pègaso sempre con Ojetti (1929-33), che la nuova edizione curata dal Ga limberti confina volutamente in secon do piano, lasciando emergere in vivo contrasto e risalto, invece, il suo pro filo di studioso e appassionato di cose ottocentesche. A questo fine, è bastato al curatore alterare la disposizione de gli scritti pancraziani senza escluder ne nessuno. Si sa che il Pancrazi ave va raccolto le sue cronache, nel ’46, nell’intento di offrire un panorama dello « svolgersi della letteratura crea tiva italiana nel periodo che va dalla Grande Guerra alla conclusione di questa ben più grande Guerra Mondia le », e che in fondo a ciascuna delle se rie sui contemporanei aveva poi ag giunto « qualche scritto su poeti e pro satori di ieri », precisava: « poeti e pro satori tra l’Ottocento e il Novecento, dopo il Carducci ». Secondo il Pancra zi, così, si aiutava « la prospettiva tra due tempi che furono molto diversi ». E’ bastato al Galimberti travasare in un solo volume dei tre da lui curati queste « appendici » pancraziane per ché ne risultasse, insieme alle altre in tegrazioni, un tomo di 560 pagine inte ramente dedicato al secondo Ottocento italiano, oltre che al Carducci, al Pa scoli e al D’Annunzio. Ed è questa la più importante novità della ristampa ricciardiana. Ma si sa come sia suffi ciente un piccolo effetto di luce perché un dato paesaggio, anche il più fami liare, prenda tutt’altro aspetto. Felicissima editorialmente, ineccepi bile quanto alla vera personalità del Pancrazi, l’edizione del Galimberti la si potrebbe del resto discutere solo per arrivare attraverso altre vie alle me desime conclusioni del curatore. Ci pa reva d’aver lasciato negli Scrittori d’oggi un Pancrazi specialmente atten to ai narratori contemporanei. Lo ritroviamo più dissenziente, più pronto che nel nostro ricordo al rifiuto. E sensibile, se mai, più alle novità dei poeti (a Saba più che a Montale) che dei romanzieri. Acuiscono quest’im pressione proprio i modi arguti del Pancrazi, la conversazione motteggiante e briosa (ma troppo ricco d’im plicazioni, il suo linguaggio, e di sot tintesi, per apparire veramente « chiarozo » come lui voleva), e il piacere di stare in compagnia degli autori, d’in trattenersi con loro, di frequentarli, fino al punto in cui la curiosità critica potesse diventare, a un tratto, naturale vocazione di ritrattista. Chi voglia studiarsi il Pancrazi cerchi soprattut to nel ritratto del Martini, dove in ter mini eloquenti, tra l’altro sono segna te le tappe di un itinerario verso un evidente « modello ». Nessuno prima o dopo di lui seppe « citare » come Pan crazi, con tale dono di mimetica, di screta e insieme critica penetrazione. Quello che ci allontana da lui è inve ce proprio la sua voglia di capire con gli strumenti dell’equilibrio del senso delle proporzioni, delle misure prese subito al meglio. Gli è stata imputata, mi pare dal Russo, la scarsa sensibi lità problematica al fatto letterario, la resistenza a imbarcarsi in questioni generali e ideologiche. Ma non è que st’attitudine, della quale il Pancrazi si compiaceva, che ce lo distanzia. L’al lergia ai « problemi », ci manchereb be, è cosa che rende sempre contem poranei, eternamente attualissimi. E’ piuttosto che il Pancrazi concepiva la letteratura come fatto naturale, come espressione spontanea e continua del la vita, come operazione che si compie senza scosse e traumi. Mentre niente è più assurdo, invece, della « letteratu ra », niente c’è di più innaturale, istrionicamente suicida dello « scrive re » per se stesso. O vivere o scrivere, la letteratura come nevrosi: a questo il Pancrazi non seppe mai arrendersi, o era, questa, intuizione da cui volle d’istinto scostarsi. Ed è invece ”unica, vera scoperta letteraria del Novecen to. Tutto il resto, tutte le altre retori che, erano già state fatte e inventate. Qualche volta, in fondo a lui, sem bra che il Pancrazi ci si dichiari’ na scostamente compagno. Discorrendo di D’Annunzio, colpisce la finezza nel sorprendere i gradi attraverso i quali il primo, e fino a oggi il più autorevo le degli sperimentali, giungeva alla conclusione manieristica di « abomina re la verità ». E sarebbe bastato al Pancrazi riflettere sulla sua prosa, co struita secondo clausole, ritmi, caden ze ossessive, per accorgersi di quanto ricercata, in letteratura, sia la « natu ralezza ». Egli volle trattenersi, al con trario (di là dal ponte di Madesimo) in quell’idea dell’arte « telescopica », che compone i conflitti, assolve e pla ca la vita. « Quando l’autobiografia », scriveva, « è entrata nella zona effetti va dell’arte, prende quella distanza e doratura di tempo, quella unitaria in clinazione tonale che sempre distin gue l’arte dalla vita ». Quella « doratu ra »: ecco una di quelle parole che si dicono rivelatrici. E da dove venisse al Pancrazi questa concezione roman tica, idealistica e impressionistica del la poesia lascio volentieri come argo mento di un augurabile studio. Che cos’è la « doratura » dei classici, alla fine, se non un’invenzione, una fissa zione dei tardi romantici?
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