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LETTERATURA: I MAESTRI: Pietro Pancrazi. Un gentiluomo granducale

14 Gennaio 2016

di Cesare Garboli
[da “La fiera letteraria”, numero 19, giovedì, 9 maggio 1968]

PIETRO PANCRAZI
Ragguagli di Parnaso
3 volumi, Ricciardi, lire 20.000.

Col titolo Ragguagli di Parnaso, in tre eleganti volumi curati da Cesare Galimberti per l’editore Ricciardi, si ripubblicano oggi, a distanza di sedici anni dalla morte, tutti gli scritti critici di Pietro Pancrazi già compresi nelle ormai famose serie laterziane degli Scrittori d’oggi (sei voll., 1946-1953), con l’aggiunta, opportunamente distri ­buita dal Galimberti nelle diverse se ­zioni e sottosezioni di cui si compone la nuova edizione, di quegli articoli su autori italiani dell’Ottocento e del No ­vecento che furono già raccolti da An ­tonio Baldini nel volume postumo Ita ­liani e stranieri (1957).

La riscoperta di Guido Nobili

Al corpus risultante da questa fusio ­ne, o meglio da questa ristampa arric ­chita da indiscutibili integrazioni, il curatore ha poi aggiunto, sempre di ­stribuendoli con gran tatto nelle sedi che loro più competono, quattro scritti mai raccolti dal Pancrazi o da altri in volume o serie: due recensioni di scrit ­ti del Serra, del 1914 e ’15, risalenti cioè agli esordi del Pancrazi articoli ­sta sulla Gazzetta di Venezia; la con ­versazione radiofonica su « Dieci libri da salvare », del 1949, « vera professio ­ne di fede fatta dal Pancrazi nella let ­teratura italiana dell’Ottocento », dice il Galimberti (e il Pancrazi, dal canto suo, dopo avere anteposto il Panzini a Pirandello, e messo Carducci ben saldo sopra Verga, « a questo punto » chiu ­deva il discorso « sento già qual ­cuno che dice che io sono tornato in ­dietro, e io non me n’ho certamente a male; anzi, dopo aver rimesso così al loro posto i santi e i Santarelli come già stavano sulla testata del mio letto, questa notte mi sembrerà di dormire più sicuro »); infine la non dimentica ­ta prefazione con la quale il Pancrazi « riscopriva », nel 1953, quello stupen ­do racconto d’amore che sono le Me ­morie lontane di Guido Nobili (e qui sì, che il Pancrazi poteva addormen ­tarsi con la coscienza tranquilla).

Che il Panzini sia preferibile a Pirandello, che Carducci sia più « por ­tante » di Verga, che Foscolo e Manzo ­ni, singolarmente presi, valgano Leo ­pardi, può anche darsi e comunque non discuto, tanto è certo che quanto alla prima coppia, sia pure per motivi diversi, io non salverei né l’uno né l’altro. Ma la graziosa espressione del Pancrazi, per il quale la storia, e con essa la letteratura, era essenzialmente tradizione, rispetto e dipendenza da valori costituiti, è messa tra parentesi in funzione di frase-spia, non soltanto a indicare le predilezioni del critico, tutte sbilanciate dalla parte dei model ­li ottocenteschi («il suo cuore era di là », dice Valgimigli), e non soltanto a illustrare il gusto, a definire il tratto dello scrittore (ispirato, come si vede, a un nativo, saporoso e schietto fondo di realismo toscano), ma anche a schiarire i metodi adottati dal Galim ­berti nella sua riedizione degli antichi, si può ben dire, Scrittori d’oggi.

Intanto bisogna avvertire il lettore estraneo a queste cose che il Galim ­berti non ci offre coi tre volumi un « tutto Pancrazi ». Una fetta dell’uomo e dello scrittore toscano resta fuori da queste cronache; e più che il favolista e il moralista creativo, soprattutto il Pancrazi dell’estrosa raccolta Nel giar ­dino di Candido, dove il critico s’impe ­gna con altri, forse più veri amori, col ­tivandosi il suo Sacchetti, il Magnifico, il Doni, l’Aretino, il Vasari, il Parini, il Tommaseo. Nel segno dell’« auctoritas », la dipendènza dai maestri otto ­centeschi si conciliava originalmente nel Pancrazi con una natura di genti ­luomo granducale, di aristocratico e faceto uomo di campagna, insofferente di atteggiamenti, pungente sgonfiatore di tutte le arie, pose, gestualità altrui, in quella linea toscana che sta tra il Capponi e Ferdinando Martini. Non è un caso che nella raccolta intitolata a Candido si ritrovi, tra l’altro, anche « quello studio ampio e ispirato sui Ri ­cordi del Guicciardini, che condotto nel 1929, fu pure dei primissimi che prepararono la fiorente ripresa d’inte ­resse per il grande storico e morali ­sta ». Con quest’omaggio il Cecchi vol ­le di proposito chiudere nel nome del Guicciardini il proprio ricordo dell’a ­mico e compagno di lavoro. Guicciar ­dini da una parte, Cecchi e Pancrazi, due spiriti diversamente toscani, ma egualmente « feriti », si direbbe, ripie ­gati, rassegnati a un’amarezza irredi ­mibile, storicamente persuasa (osser ­vatore realistico il Pancrazi, spregiudi ­cato e prestigioso tecnico il Cecchi, ma identica la sostanza, gemella di luce), dall’altra: già ci si comincia a orienta ­re sulla fisionomia del Pancrazi critico e sulla sua attività di cronista, infor ­matore, moderatore, sulle colonne del Corriere della Sera, del gusto lettera ­rio italiano tra le due guerre, sotto la dittatura.

Dalla parte dell’ottocento

E’ appunto questa parte di « critico giornaliero », di arbiter del gusto lette ­rario del Novecento, come toccò al Pancrazi di essere, probabilmente, senza che egli neppure lo volesse, a partire dalla sua collaborazione al Cor ­riere di Ojetti (1926), protrattasi in se ­guito fino alla morte, e convalidata poi dalla sua attività di redattore primario di Pègaso sempre con Ojetti (1929-33), che la nuova edizione curata dal Ga ­limberti confina volutamente in secon ­do piano, lasciando emergere in vivo contrasto e risalto, invece, il suo pro ­filo di studioso e appassionato di cose ottocentesche. A questo fine, è bastato al curatore alterare la disposizione de ­gli scritti pancraziani senza escluder ­ne nessuno. Si sa che il Pancrazi ave ­va raccolto le sue cronache, nel ’46, nell’intento di offrire un panorama dello « svolgersi della letteratura crea ­tiva italiana nel periodo che va dalla Grande Guerra alla conclusione di questa ben più grande Guerra Mondia ­le », e che in fondo a ciascuna delle se ­rie sui contemporanei aveva poi ag ­giunto « qualche scritto su poeti e pro ­satori di ieri », precisava: « poeti e pro ­satori tra l’Ottocento e il Novecento, dopo il Carducci ». Secondo il Pancra ­zi, così, si aiutava « la prospettiva tra due tempi che furono molto diversi ». E’ bastato al Galimberti travasare in un solo volume dei tre da lui curati queste « appendici » pancraziane per ­ché ne risultasse, insieme alle altre in ­tegrazioni, un tomo di 560 pagine inte ­ramente dedicato al secondo Ottocento italiano, oltre che al Carducci, al Pa ­scoli e al D’Annunzio. Ed è questa la più importante novità della ristampa ricciardiana. Ma si sa come sia suffi ­ciente un piccolo effetto di luce perché un dato paesaggio, anche il più fami ­liare, prenda tutt’altro aspetto.

Felicissima editorialmente, ineccepi ­bile quanto alla vera personalità del Pancrazi, l’edizione del Galimberti la si potrebbe del resto discutere solo per arrivare attraverso altre vie alle me ­desime conclusioni del curatore. Ci pa ­reva d’aver lasciato negli Scrittori d’oggi un Pancrazi specialmente atten ­to ai narratori contemporanei. Lo ritroviamo più dissenziente, più pronto che nel nostro ricordo al rifiuto. E sensibile, se mai, più alle novità dei poeti (a Saba più che a Montale) che dei romanzieri. Acuiscono quest’im ­pressione proprio i modi arguti del Pancrazi, la conversazione motteggiante e briosa (ma troppo ricco d’im ­plicazioni, il suo linguaggio, e di sot ­tintesi, per apparire veramente « chiarozo » come lui voleva), e il piacere di stare in compagnia degli autori, d’in ­trattenersi con loro, di frequentarli, fino al punto in cui la curiosità critica potesse diventare, a un tratto, naturale vocazione di ritrattista. Chi voglia studiarsi il Pancrazi cerchi soprattut ­to nel ritratto del Martini, dove in ter ­mini eloquenti, tra l’altro sono segna ­te le tappe di un itinerario verso un evidente « modello ». Nessuno prima o dopo di lui seppe « citare » come Pan ­crazi, con tale dono di mimetica, di ­screta e insieme critica penetrazione.

Quello che ci allontana da lui è inve ­ce proprio la sua voglia di capire con gli strumenti dell’equilibrio del senso delle proporzioni, delle misure prese subito al meglio. Gli è stata imputata, mi pare dal Russo, la scarsa sensibi ­lità problematica al fatto letterario, la resistenza a imbarcarsi in questioni generali e ideologiche. Ma non è que ­st’attitudine, della quale il Pancrazi si compiaceva, che ce lo distanzia. L’al ­lergia ai « problemi », ci manchereb ­be, è cosa che rende sempre contem ­poranei, eternamente attualissimi. E’ piuttosto che il Pancrazi concepiva la letteratura come fatto naturale, come espressione spontanea e continua del ­la vita, come operazione che si compie senza scosse e traumi. Mentre niente è più assurdo, invece, della « letteratu ­ra », niente c’è di più innaturale, istrionicamente suicida dello « scrive ­re » per se stesso. O vivere o scrivere, la letteratura come nevrosi: a questo il Pancrazi non seppe mai arrendersi, o era, questa, intuizione da cui volle d’istinto scostarsi. Ed è invece ”unica, vera scoperta letteraria del Novecen ­to. Tutto il resto, tutte le altre retori ­che, erano già state fatte e inventate.

Qualche volta, in fondo a lui, sem ­bra che il Pancrazi ci si dichiari’ na ­scostamente compagno. Discorrendo di D’Annunzio, colpisce la finezza nel sorprendere i gradi attraverso i quali il primo, e fino a oggi il più autorevo ­le degli sperimentali, giungeva alla conclusione manieristica di « abomina ­re la verità ». E sarebbe bastato al Pancrazi riflettere sulla sua prosa, co ­struita secondo clausole, ritmi, caden ­ze ossessive, per accorgersi di quanto ricercata, in letteratura, sia la « natu ­ralezza ». Egli volle trattenersi, al con ­trario (di là dal ponte di Madesimo) in quell’idea dell’arte « telescopica », che compone i conflitti, assolve e pla ­ca la vita. « Quando l’autobiografia », scriveva, « è entrata nella zona effetti ­va dell’arte, prende quella distanza e doratura di tempo, quella unitaria in ­clinazione tonale che sempre distin ­gue l’arte dalla vita ». Quella « doratu ­ra »: ecco una di quelle parole che si dicono rivelatrici. E da dove venisse al Pancrazi questa concezione roman ­tica, idealistica e impressionistica del ­la poesia lascio volentieri come argo ­mento di un augurabile studio. Che cos’è la « doratura » dei classici, alla fine, se non un’invenzione, una fissa ­zione dei tardi romantici?

 


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