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LETTERATURA: I MAESTRI: Remigio Zena, saltimbanco senz’anima

28 Aprile 2012

di Luigi Baldacci
[da “La Fiera Letteraria”, numero 31, giovedì 3 agosto 1967]

Nei « Classici Contemporanei Italia ­ni », di Mondadori, Giacinto Spagno ­letti ha curato il volume che racco ­glie le Opere scelte di Camillo Boito, Achille Giovanni Cagna, Remigio Zena. Nessuno di questi scrittori ha co ­nosciuto la gloria, né in vita né dopo morto (e vera gloria non ci poteva essere); il che non toglie che una cer ­ta continuità d’interesse nei loro con ­fronti ci sia sempre stata: come te ­stimoniano alcune ristampe novecen ­tesche, certe brillanti operazioni an ­tologiche e infine la recente assunzio ­ne nel parnaso dei Narratori dell’Ottocento e del primo Novecento: i cin ­que volumi curati da Aldo Borlenghi per le edizioni Ricciardi.

Ma lasciamo da parte i contributi e i saggi di cui puntualmente Spagno ­letti fornisce notizia; lasciamo stare il mare magnum di relazioni storiche in cui questi scrittori sono immersi: certo che leggendo Alpinisti ciabattoni del Cagna, il pensiero corre subito a Flaubert e a Daudet: ma non diver ­sa mente dalla misura e dal rapporto in cui l’Armando del Prati ci rinvia al Faust di Goethe. La conclusione è una sola possibile, e va data per scon ­tata a priori: che se questi libri val ­gono e dicono qualcosa, ciò avviene nell’ambito di un’economia tutta au ­tarchica: in funzione di quell’Italia, o Italietta, che resta pure un fatto, una realtà da interpretare, con l’ausi ­lio, anche, dei documenti più poveri e negativi (perché certo, a riscontro, molto di grande e di positivo, nel quadro storico in cui quei libri veni ­vano alla luce, non c’era davvero).

Tra la magia la verità e l’effetto

La raccolta si apre col racconto di Camillo Boito, Un corpo, che apparve nel 1870, in rivista, e fu poi raccolto in Storielle vane, nel 1876. E’ una storia fatale: un amante ritrova la sua donna, quel corpo assoluto come un’idea, sul gelido marmo di un tavo ­lo anatomico. Arrigo Boito aveva già scritto la poesia che s’intitola Lezione d’anatomia. Camillo si muove tra la magìa, la cruda verità e l’effetto. E’ appena più abile del Tarchetti: ma la Fosca del Tarchetti era andata molto più a fondo nell’indagine di un caso funesto, e come peso specifico, tra i due racconti non c’è da far paragone.

Dunque, quel che c’interessa per il momento, è che Camillo Boito, doven ­do descrivere « il corpo flessuoso » di questa donna maldestinata, ci dice che « s’incurvava come l’ansa di un vaso greco ». E ancora: «… alzava gli occhi umidi e sorridenti al cielo », « l’anima era da fanciulla, ma il cor ­po era da dea »; e infine, a parte le « statue greche », che fanno sempre comodo sul piano dei rilievi plastici, « quanto al colore, lo splendor di Ti ­ziano e la finezza di Van Dyck non sarebbero bastati ». Dove si sente, dap ­pertutto, non certo l’innovatore del gusto estetico che Camillo pretende ­va di essere, bensì lo scolaro di Bre ­ra impacciato tra calchi di gesso e detestabili oleografie.

due fratelli, come Spagnoletti ri ­corda nella sua documentata e sug ­gestiva introduzione, si proponevano di farla finita con le « eterne cantile ­ne verdiane e petrellesche » (Verdi e Petrella sullo stesso piano!): e Ar ­rigo, per fare dell’avanguardia, scri ­veva quel Mefistofele che, alla Scala come al Comunale di Bologna, fu uno dei mostri più insipidi di tutta la mu ­sica italiana dell’Ottocento (si vada a vedere il saggio del più grande criti ­co musicale contemporaneo, lo Hanslick, per convincersi che quella Sca ­pigliatura era, sul piano dell’avan ­guardia, una cosa da far ridere).

Segue Senso, che non è il più bel racconto di Boito (Il maestro di Setticlavio, che conclude la scelta, è, sul piano dell’invenzione narrativa, della tecnica del dialogo, dell’allusione fra detto e non detto, una cosa assai più perfetta): ma è comunque il suo do ­cumento più coraggioso nella direzio ­ne di un verismo italiano. Benché le edizioni novecentesche di questa no ­vella non facciano difetto, l’idea che il gran pubblico ne conserva è quella filtrata attraverso il film dì Visconti. Ed è un peccato. Il racconto di Boito ha delle intuizioni straordinarie (di ­mostrate, sul piano della scrittura, fino a un certo punto). Nel film queste intuizioni furono tradite.

Quanto al Cagna è una questione di gusto. A noi piace poco anche colui che egli si elesse per maestro, il Fal ­della. Certo, quando nel 1886 apparve ­ro i racconti dei Provinciali, il Cagna, vercellese attaccato come un’ostrica al suo scoglio, era già un sopravvis ­suto (visse fino al 1931). Conviene ri ­conoscere che i toscani ammorbarono il secolo con le loro risciacquature sot ­tolessicali, ma la giustificata insoffe ­renza per i toscani non giustifica si ­mili contraltari.

dialetto del Cagna, in Alpinisti ciabattoni, ha qualche leggiadria; ma il Fogazzaro, che fu biasimato per il suo dialetto nudo e crudo, vale assai di più. E vale di più il Fucini, con tutti i suoi limiti, che, quando si di ­menticava la sua polemica di classe contro i contadini-bestie, riusciva a esiti narrativi più asciutti, e talvol ­ta toccava una desolata poesia (Non ­no Damiano). La casa delle gatte ha fatto pensare a Gadda: ma quella sto ­ria di una povera vecchia serva che muore torchiata di fatica dalle sue in ­fernali padrone, è tutta nella direzio ­ne di De Amicis.

Nel Cagna il dialetto non riesce mai a sommuovere la lingua, a farla lievi ­tare. Anzi la lingua è sempre lo spec ­chio fedele di una convenzionalità ora bozzettistica ora languida: « Il dot ­tore aveva due superbi occhi, schietti, aperti, improntati di fierezza virile, e di una superiorità imponente. Si an ­nodava la cravatta in una maniera or ­ribile, indossava camicie di tela gros ­solana, aveva nelle mani un randel ­lo da bifolco; ma quando si toglieva quel cappellaccio, mostrava una fron ­te superba, e un bel profilone dise ­gnato a tratti vigorosi » (Il romanzo di una damina). Basta un niente, e quel randello potrebbe diventare il manganello di uno squadrista: secon ­do l’iconografia piccolo-borghese del ­l’uomo virile al cento per cento.

Alpinisti ciabattoni è il miglior li ­bro del Cagna. Nel finale cede a qual ­che tentazione patetico-populista; ma nel complesso le avventure di Sor Gaudenzio e Madama Martina, botte ­gai in villeggiatura, hanno una discre ­ta tenuta (il filone è tutt’altro che esaurito se Giuseppe Luraghi ha scrit ­to quest’anno Due milanesi alle pira ­midi). Contini parlò di una zarzuela: e la definizione è perfetta. Si tratta di una serie di numeri musicali infi ­lati l’uno dietro l’altro. I coniugi Gibella costituiscono il pretesto narrati ­vo; ma uno sviluppo narrativo vero e proprio non c’è.

« Il mio maestro Verga »

Se Cagna è lo scrittore meno inte ­ressante dei tre, Zena è indubbiamen ­te assai più dotato di Camillo Boito. Anzi è difficile che un dono, un segno s’impongano con maggiore evidenza: fin dagli inizi. La novella II canonico, che è già strettamente legata al giro d’interessi della Bocca del lupo, è del 1882: eppure, se vi prevale l’andamen ­to storico, cioè una narrazione diret ­ta, le strutture sintattiche che saran ­no caratteristiche del romanzo mag ­giore vi sono già attuate.

Nella Bocca del lupo il discorso in ­diretto libero diventa istituzionale, come pure istituzionali sono le suture e le chiavi di volta narrative che ri ­flettono una situazione di antitesi, se ­condo uno schema logico (o metalo ­gico) tutto popolare: « Dopo tante spe ­se e tanti fastidi, Signore benedetto, non se la meritavano l’improvvisata di chiudersi fra quattro mura subito dopo la funzione, invece di andare a spasso, ché oltre Marinetta, la loro veste nuova l’avevano pronta esse pu ­re e se non la mettevano in quell’oc ­casione, non la mettevano più. Chi non l’aveva la veste nuova era Battistina, arrivata da Manassola aH’improvvi- so… » Il segreto, si sarà capito, è Vi ­ta dei campi, è I Malavoglia, e del resto Zena non faceva misteri, par ­lando del « mio maestro Verga ». Quel che stupisce è la possibilità d’impadronirsi, con tanta perfezione mime ­tica, di un sistema stilistico tanto nuo ­vo. (La bocca del lupo esce nel 1892, ma il romanzo era già fatto, in gran parte, una decina d’anni prima). An ­gela che muore tisica per amore, Bat ­tistina che si fa suora missionaria, Marinetta che finisce male, sono ar ­gomenti che, in mano a tutt’altri, sa ­rebbero finiti nel più irrecuperabile populismo o nel moralismo più trito.

Zena era un cattolico; era stato per ­fino zuavo pontificio; il suo romanzo ha una premessa edificatoria e ammo ­nitrice, sui pericoli ai quali può an ­dare incontro una ragazza che abbia sia pure ottimo cuore, ma la testa un po’ calda e voglia scoprire la vita da sé sola (le grandi giustificazioni fata ­listiche del Verga diventano una predichetta da sagrestia). Ma quando Ze ­na si mette a scrivere si dimentica di tutto. Ha scelto, si è imposto una chiave che gli consente di essere solo scrittore. Il moralismo diventa, sem ­mai, moralità, buon senso popolare, voce anonima di un narratore che vede le cose dal di dentro, col metro stesso dei personaggi: un narratore che non s’identifica mai con lo scrit ­tore. E’ così che la morte di Angela all’ospedale, tra le braccia della ma ­dre superiora e nella rassegnazione del Signore, è un evento narrativo come tanti altri, privo di qualsiasi significazione o intenzione religiosa.

Certo, quando più tardi Zena, con L’apostolo, tentò l’autobiografia d’ani ­ma e propose il tema del contrasto fra la coscienza laica del nuovo Stato italiano e la coscienza cattolica, la bella libertà della Bocca del lupo finì per perdersi. Ma anche qui si po ­trebbe dire che lo Zena non cessò di essere, prima di tutto, un letterato pu ­ro: soltanto cambiò modello, e da Verga passò a Fogazzaro. Disponibilità che è un limite (dilettantistico) dello scrittore: come un limite era già, del resto, quel troppo perfetto mimetismo verghiano di cui si dice ­va. Ragion per cui â— lo si è detto al ­tra volta â— il meglio di sé Zena riu ­scì a darlo non già nella narrativa, ma nella poesia (Poesie grigie del 1880 e Le Pellegrine del 1894).

Il cinismo che era al fondo del na ­turalista verghiano o del cattolico fogazzariano, nella poesia non ha veli né sovrastrutture. L’indifferenza al ­l’oggetto è completa; anzi la poesia stessa diventa oggetto in senso tutto moderno. Uno scapigliato in ritardo

Zena di Poesie grigie? I suoi rap ­porti con la Scapigliatura non si con ­testano; ma il funambolismo di Ze ­na non ha niente a che fare con lo spleen di Praga. Egli è piuttosto un saltimbanco come Palazzeschi; ma senz’avere un’anima, sua. La sua diret ­ta esperienza dei francesi conta mol ­to: da Banville a Verlaine; ma resta il fatto che la poesia di Zena è il pri ­mo caso, in Italia, di deliberato As ­sassinat de la poésie. Ciò che in Arri ­go Boito era virtuosismo (e quindi il massimo della costruzione) in Ze ­na diventa distruzione; e il Croce an ­dò molto vicino al segno quando dis ­se che la sua era « la poesia di un’ani ­ma che somiglia a uno specchio in ­franto ».


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Bart