LETTERATURA: I MAESTRI: Remigio Zena, saltimbanco senz’anima28 Aprile 2012 di Luigi Baldacci Nei « Classici Contemporanei Italia ni », di Mondadori, Giacinto Spagno letti ha curato il volume che racco glie le Opere scelte di Camillo Boito, Achille Giovanni Cagna, Remigio Zena. Nessuno di questi scrittori ha co nosciuto la gloria, né in vita né dopo morto (e vera gloria non ci poteva essere); il che non toglie che una cer ta continuità d’interesse nei loro con fronti ci sia sempre stata: come te stimoniano alcune ristampe novecen tesche, certe brillanti operazioni an tologiche e infine la recente assunzio ne nel parnaso dei Narratori dell’Ottocento e del primo Novecento: i cin que volumi curati da Aldo Borlenghi per le edizioni Ricciardi. Ma lasciamo da parte i contributi e i saggi di cui puntualmente Spagno letti fornisce notizia; lasciamo stare il mare magnum di relazioni storiche in cui questi scrittori sono immersi: certo che leggendo Alpinisti ciabattoni del Cagna, il pensiero corre subito a Flaubert e a Daudet: ma non diver sa mente dalla misura e dal rapporto in cui l’Armando del Prati ci rinvia al Faust di Goethe. La conclusione è una sola possibile, e va data per scon tata a priori: che se questi libri val gono e dicono qualcosa, ciò avviene nell’ambito di un’economia tutta au tarchica: in funzione di quell’Italia, o Italietta, che resta pure un fatto, una realtà da interpretare, con l’ausi lio, anche, dei documenti più poveri e negativi (perché certo, a riscontro, molto di grande e di positivo, nel quadro storico in cui quei libri veni vano alla luce, non c’era davvero). Tra la magia la verità e l’effetto La raccolta si apre col racconto di Camillo Boito, Un corpo, che apparve nel 1870, in rivista, e fu poi raccolto in Storielle vane, nel 1876. E’ una storia fatale: un amante ritrova la sua donna, quel corpo assoluto come un’idea, sul gelido marmo di un tavo lo anatomico. Arrigo Boito aveva già scritto la poesia che s’intitola Lezione d’anatomia. Camillo si muove tra la magìa, la cruda verità e l’effetto. E’ appena più abile del Tarchetti: ma la Fosca del Tarchetti era andata molto più a fondo nell’indagine di un caso funesto, e come peso specifico, tra i due racconti non c’è da far paragone. Dunque, quel che c’interessa per il momento, è che Camillo Boito, doven do descrivere « il corpo flessuoso » di questa donna maldestinata, ci dice che « s’incurvava come l’ansa di un vaso greco ». E ancora: «… alzava gli occhi umidi e sorridenti al cielo », « l’anima era da fanciulla, ma il cor po era da dea »; e infine, a parte le « statue greche », che fanno sempre comodo sul piano dei rilievi plastici, « quanto al colore, lo splendor di Ti ziano e la finezza di Van Dyck non sarebbero bastati ». Dove si sente, dap pertutto, non certo l’innovatore del gusto estetico che Camillo pretende va di essere, bensì lo scolaro di Bre ra impacciato tra calchi di gesso e detestabili oleografie. due fratelli, come Spagnoletti ri corda nella sua documentata e sug gestiva introduzione, si proponevano di farla finita con le « eterne cantile ne verdiane e petrellesche » (Verdi e Petrella sullo stesso piano!): e Ar rigo, per fare dell’avanguardia, scri veva quel Mefistofele che, alla Scala come al Comunale di Bologna, fu uno dei mostri più insipidi di tutta la mu sica italiana dell’Ottocento (si vada a vedere il saggio del più grande criti co musicale contemporaneo, lo Hanslick, per convincersi che quella Sca pigliatura era, sul piano dell’avan guardia, una cosa da far ridere). Segue Senso, che non è il più bel racconto di Boito (Il maestro di Setticlavio, che conclude la scelta, è, sul piano dell’invenzione narrativa, della tecnica del dialogo, dell’allusione fra detto e non detto, una cosa assai più perfetta): ma è comunque il suo do cumento più coraggioso nella direzio ne di un verismo italiano. Benché le edizioni novecentesche di questa no vella non facciano difetto, l’idea che il gran pubblico ne conserva è quella filtrata attraverso il film dì Visconti. Ed è un peccato. Il racconto di Boito ha delle intuizioni straordinarie (di mostrate, sul piano della scrittura, fino a un certo punto). Nel film queste intuizioni furono tradite. Quanto al Cagna è una questione di gusto. A noi piace poco anche colui che egli si elesse per maestro, il Fal della. Certo, quando nel 1886 apparve ro i racconti dei Provinciali, il Cagna, vercellese attaccato come un’ostrica al suo scoglio, era già un sopravvis suto (visse fino al 1931). Conviene ri conoscere che i toscani ammorbarono il secolo con le loro risciacquature sot tolessicali, ma la giustificata insoffe renza per i toscani non giustifica si mili contraltari. dialetto del Cagna, in Alpinisti ciabattoni, ha qualche leggiadria; ma il Fogazzaro, che fu biasimato per il suo dialetto nudo e crudo, vale assai di più. E vale di più il Fucini, con tutti i suoi limiti, che, quando si di menticava la sua polemica di classe contro i contadini-bestie, riusciva a esiti narrativi più asciutti, e talvol ta toccava una desolata poesia (Non no Damiano). La casa delle gatte ha fatto pensare a Gadda: ma quella sto ria di una povera vecchia serva che muore torchiata di fatica dalle sue in fernali padrone, è tutta nella direzio ne di De Amicis. Nel Cagna il dialetto non riesce mai a sommuovere la lingua, a farla lievi tare. Anzi la lingua è sempre lo spec chio fedele di una convenzionalità ora bozzettistica ora languida: « Il dot tore aveva due superbi occhi, schietti, aperti, improntati di fierezza virile, e di una superiorità imponente. Si an nodava la cravatta in una maniera or ribile, indossava camicie di tela gros solana, aveva nelle mani un randel lo da bifolco; ma quando si toglieva quel cappellaccio, mostrava una fron te superba, e un bel profilone dise gnato a tratti vigorosi » (Il romanzo di una damina). Basta un niente, e quel randello potrebbe diventare il manganello di uno squadrista: secon do l’iconografia piccolo-borghese del l’uomo virile al cento per cento. Alpinisti ciabattoni è il miglior li bro del Cagna. Nel finale cede a qual che tentazione patetico-populista; ma nel complesso le avventure di Sor Gaudenzio e Madama Martina, botte gai in villeggiatura, hanno una discre ta tenuta (il filone è tutt’altro che esaurito se Giuseppe Luraghi ha scrit to quest’anno Due milanesi alle pira midi). Contini parlò di una zarzuela: e la definizione è perfetta. Si tratta di una serie di numeri musicali infi lati l’uno dietro l’altro. I coniugi Gibella costituiscono il pretesto narrati vo; ma uno sviluppo narrativo vero e proprio non c’è. « Il mio maestro Verga » Se Cagna è lo scrittore meno inte ressante dei tre, Zena è indubbiamen te assai più dotato di Camillo Boito. Anzi è difficile che un dono, un segno s’impongano con maggiore evidenza: fin dagli inizi. La novella II canonico, che è già strettamente legata al giro d’interessi della Bocca del lupo, è del 1882: eppure, se vi prevale l’andamen to storico, cioè una narrazione diret ta, le strutture sintattiche che saran no caratteristiche del romanzo mag giore vi sono già attuate. Nella Bocca del lupo il discorso in diretto libero diventa istituzionale, come pure istituzionali sono le suture e le chiavi di volta narrative che ri flettono una situazione di antitesi, se condo uno schema logico (o metalo gico) tutto popolare: « Dopo tante spe se e tanti fastidi, Signore benedetto, non se la meritavano l’improvvisata di chiudersi fra quattro mura subito dopo la funzione, invece di andare a spasso, ché oltre Marinetta, la loro veste nuova l’avevano pronta esse pu re e se non la mettevano in quell’oc casione, non la mettevano più. Chi non l’aveva la veste nuova era Battistina, arrivata da Manassola aH’improvvi- so… » Il segreto, si sarà capito, è Vi ta dei campi, è I Malavoglia, e del resto Zena non faceva misteri, par lando del « mio maestro Verga ». Quel che stupisce è la possibilità d’impadronirsi, con tanta perfezione mime tica, di un sistema stilistico tanto nuo vo. (La bocca del lupo esce nel 1892, ma il romanzo era già fatto, in gran parte, una decina d’anni prima). An gela che muore tisica per amore, Bat tistina che si fa suora missionaria, Marinetta che finisce male, sono ar gomenti che, in mano a tutt’altri, sa rebbero finiti nel più irrecuperabile populismo o nel moralismo più trito. Zena era un cattolico; era stato per fino zuavo pontificio; il suo romanzo ha una premessa edificatoria e ammo nitrice, sui pericoli ai quali può an dare incontro una ragazza che abbia sia pure ottimo cuore, ma la testa un po’ calda e voglia scoprire la vita da sé sola (le grandi giustificazioni fata listiche del Verga diventano una predichetta da sagrestia). Ma quando Ze na si mette a scrivere si dimentica di tutto. Ha scelto, si è imposto una chiave che gli consente di essere solo scrittore. Il moralismo diventa, sem mai, moralità, buon senso popolare, voce anonima di un narratore che vede le cose dal di dentro, col metro stesso dei personaggi: un narratore che non s’identifica mai con lo scrit tore. E’ così che la morte di Angela all’ospedale, tra le braccia della ma dre superiora e nella rassegnazione del Signore, è un evento narrativo come tanti altri, privo di qualsiasi significazione o intenzione religiosa. Certo, quando più tardi Zena, con L’apostolo, tentò l’autobiografia d’ani ma e propose il tema del contrasto fra la coscienza laica del nuovo Stato italiano e la coscienza cattolica, la bella libertà della Bocca del lupo finì per perdersi. Ma anche qui si po trebbe dire che lo Zena non cessò di essere, prima di tutto, un letterato pu ro: soltanto cambiò modello, e da Verga passò a Fogazzaro. Disponibilità che è un limite (dilettantistico) dello scrittore: come un limite era già, del resto, quel troppo perfetto mimetismo verghiano di cui si dice va. Ragion per cui â— lo si è detto al tra volta â— il meglio di sé Zena riu scì a darlo non già nella narrativa, ma nella poesia (Poesie grigie del 1880 e Le Pellegrine del 1894). Il cinismo che era al fondo del na turalista verghiano o del cattolico fogazzariano, nella poesia non ha veli né sovrastrutture. L’indifferenza al l’oggetto è completa; anzi la poesia stessa diventa oggetto in senso tutto moderno. Uno scapigliato in ritardo Zena di Poesie grigie? I suoi rap porti con la Scapigliatura non si con testano; ma il funambolismo di Ze na non ha niente a che fare con lo spleen di Praga. Egli è piuttosto un saltimbanco come Palazzeschi; ma senz’avere un’anima, sua. La sua diret ta esperienza dei francesi conta mol to: da Banville a Verlaine; ma resta il fatto che la poesia di Zena è il pri mo caso, in Italia, di deliberato As sassinat de la poésie. Ciò che in Arri go Boito era virtuosismo (e quindi il massimo della costruzione) in Ze na diventa distruzione; e il Croce an dò molto vicino al segno quando dis se che la sua era « la poesia di un’ani ma che somiglia a uno specchio in franto ». Letto 3845 volte. Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||