LETTERATURA: I MAESTRI: Revisioni crociane. Servono tanto gli angeli che i diavoli17 Marzo 2016 di Mario Missiroli In quale senso si può afferma re che la storia è storia del la libertà? Forse nel senso che sia possibile scorgere nel corso della storia l’attuazione di un principio razionale, dì una idea, di un disegno quasi preor dinato e superiore all’esperienza, che illumina e rischiara l’espe rienza medesima? Così pensa da secoli l’umanità, così pensarono filosofi grandissimi, il maggiore di tutti, Emanuele Kant, che nel saggio sulla filosofia della storia, pubblicato nel 1774, formulò, nel l’ottava proposizione, conclusiva delle precedenti, questo princi pio: la storia può essere conside rata come l’esecuzione di un di segno rivolto alla formazione di una società politica perfetta, ca pace di regolare tanto le relazio ni interne dello Stato quanto le esterne degli Stati fra di loro, in vista del pieno svolgimento di tutte le facoltà umane. La parte già trascorsa della storia è ancora troppo limitata per potere trarre con certezza la precisa determinazione dei suoi fini; nondimeno un’induzio ne fondata sulle armonie del l’universo, sulla crescente inter dipendenza degli interessi di ogni specie, giustificano la speranza che dopo un periodo di lotte, di cui non è possibile calcolare la durata, la storia realizzerà il suo fine supremo, che è la federa zione delle nazioni, nella quale sarà resa possibile la celebra zione di tutte le attività superio ri dello spirito. Sarà l’avvento del regno della libertà. Ma come intende, Kant, la libertà? L’in dipendenza del volere da ogni altra legge, salvo la legge mora le ». Questa non viola, determi nandola. la libertà del volere, per ché è la legge stessa della vo lontà. Bene e volontà fanno tutt’uno. Dottrina, chiara, umana, che ripone nella coscienza il fonda mento della morale e la giustifi cazione di qualsiasi ideale. La fi losofia della storia è la considera zione della storia in vista della perfetta unione civile di tutti gli uomini. La storia non è sottrat ta a! giudizio di valore, bene e male restano nettamente separa ti, a distanza di secoli. Le cose si complicano coi suc cessori, soprattutto con Hegel. Dal soggettivismo di Kant, che venerava Rousseau e accettava la dottrina del « Contratto socia le », si passa all’oggettivismo. Le intuizioni della mente individua le, nonostante l’identità della na tura umana, sono illusorie, in ogni caso arbitrarie. Coloro che si formano delle idee astratte di giustizia e di libertà, e le credo no attuabili sempre e dovunque, sono spiriti superficiali i quali dimenticano che ciò che è razio nale è reale e ciò che è reale è razionale. Di vero non c’è che la « ragio ne », di sua natura universale e questa è un prodotto della storia. Si può parlare di progresso? Cer tamente; ma il progresso è il graduale affermarsi della « ragio ne », mentre la libertà è la co scienza della necessità. La filoso fia ha quindi un solo oggetto: la scoperta delle vie attraverso le quali la « ragione » afferma il suo dominio. Massima affermazione della « ragione » è lo Stato. Kant l’aveva concepito come un mez zo per la felicità degli individui, Hegel come un fine al quale gli individui vanno sacrificati. Ciò nonostante l’idea di pro gresso trascende ancora la sto ria, perché l’Hegel disegna un quadro grandioso, poema meta fisico, che mostra le fasi succes sive dell’affermazione e del trion fo dell’idea. Mondo orientale, mondo classico, mondo germani co: uno solo libero, alcuni libe ri, tutti liberi. Poi la grande scuola hegeliana si dissolve sopraffatta dal mate rialismo e dal positivismo che dopo il 1870 imperano quasi dovunque. Una ripresa dell’hegelismo si ha ai primi del Novecen to, soprattutto in Italia â— dove l’Hegel aveva trovato gagliardi fautori durante il Risorgimento â— per opera di Benedetto Croce, che volle perfezionare la dialet tica hegeliana liberandola dai re sidui dell’empirismo e del natu ralismo. In un libro rimasto fa moso, Ciò che è vivo e ciò che è morto nella filosofia di Hegel, in dicò quello che, a suo giudizio, era il difetto capitale di Hegel, il tarlo roditore del sistema: la confusione dei concetti contrari e dei concetti distinti. Dei primi si può fare la dialettica, non dei secondi. Così cadevano irrimedia bilmente la filosofia della natu ra e la filosofia della storia, ma si metteva in salvo l’autonomia dell’arte. Che cosa restava più di Hegel? La dialettica, sia pure depurata, ma esclusa dal regno della real tà sensibile, limitata a elaborare alcuni concetti senza presa sulla realtà. Non si inaugurava una nuova scolastica? Non dovevano trascorrere mol ti anni, e il Croce avrebbe dedot to le ultime conseguenze di quel la posizione iniziale. Nell’orrore del sistema, che resta pur sem pre un’esigenza insopprimibile del nostro spirito, dichiarò che la filosofia non aveva più nessu na ragione d’essere, avendo of ferto i mezzi di orientamento ne cessari alle ricerche proprie del tempo nostro; e che avrebbe po tuto risorgere solo il giorno in cui si fossero presentati dei pro blemi nuovi, pei quali occorresse apprestare concetti adeguati. La filosofia si risolveva, cosi, in una semplice metodologia e il feno menismo riprendeva il soprav vento in tutti i campi del sape re. In tal modo la filosofia si identifica con la storia e la cono scenza storica è senz’altro tutta la conoscenza perché « ogni giu dizio è giudizio storico o storia senz’altro ». Ogni giudizio? Sì. « E’ giudizio storico anche la più ovvia percezione giudicante (se non giudicasse, non sarebbe per cezione, ma cieca e muta sensa zione): per esempio, che l’ogget to che mi vedo innanzi al piede è un sasso e che esso non vole rà via da sé come un uccellino al rumore dei miei passi, onde converrà che io lo discosti col pie de o col bastone; perché il sasso è veramente un processo in cor so, che resiste alle forze di disgre gazione o cede solo poco a poco, e il mio giudizio si riferisce a un aspetto della sua storia ». Non occorre nemmeno rilevare che, data questa premessa, la stessa « storia naturale » si tra muta in conoscenza storica, se è vero (e qua non cade dubbio alcuno) che il giudizio è rappor to di soggetto e predicato e se è vero che il soggetto « ossia il fat to, quale che esso sia, che si giu dica, è sempre un fatto storico ». Se è vero che ogni conoscenza è sempre « conoscenza storica », vien fatto di domandarsi se l’idealismo, nella sua ultima formula zione crociana, non si dissolva in un fenomenismo assoluto e se valeva la pena di combattere per tanti anni il positivismo per ri stabilirne con una sorprenden te inversione dialettica i termini e le posizioni. Che cosa diventa, la storia, secondo questa concezione? In tesa come res gestae una real tà semovente senza ragione e senza scopo; intesa come historia rerum gestarum una narrazione di avvenimenti in tutto simile alle descrizioni della storia na turale. Una vegetazione umana nella desolazione. Conclusione lo gica anche nei riferimenti di or dine morale come quella che po trebbe suggerire una specie di pessimismo leopardiano. Un mon do senza scopo non equivale a quel mondo senza contrasti che dà l’immagine * peggio che del la morte, della noia infinita »? Senonché il Croce rifiuta reci samente una simile conclusione nel saggio La storia come pen siero e come azione pubblicato nella Critica del 20 gennaio del 1937 (e poi ripreso e ampliato nel volume nono dei Saggi filo sofici), perché la storia è storia della libertà. Dunque la storia ha per iscopo il « formarsi di una libertà che prima non era e un giorno sarà », come volevano He gel e Michelet? Affatto. Qui si afferma unicamente e semplice- mente « la libertà come l’eterna formatrice della storia, soggetto stesso di ogni storia ». Ma che cos’è questa libertà? Essa non è altro che un nome « per designa re l’attività o spiritualità, la qua le non sarebbe tale se non fosse perpetua creazione di vita ». La coerenza è assoluta. E si può ri tenerla tale anche quando il Cro ce parla di « perpetuo progres so », cioè del « perpetuo crescere della spiritualità in se stessa », espressione che non implica an cora un qualsiasi concetto di va lore. Non è più tale quando il Cro ce abbandona questa rigorosa po sizione storicistica, per riferirsi a una tavola di valori. Egli pare avvertire che la vita non può tro vare unicamente in sé la sua ra gione, che la sua logica non può identificarsi con la sua morale, che il giudizio di valore non può coincidere col giudizio esisten ziale. « La polemica contro la trascendenza, trascorrendo oltre il segno, ha portato a negare la distinzione delle categorie del giudizio ». Si tratta, infatti di manter saldo, « nel flusso della realtà, il criterio dei valori spiri tuali (buono, vero, giusto) e di proteggerli contro le confusioni e le negazioni ». L’antica distin zione di conoscenza e volontà, di pensiero e azione « rimane intat ta ». Resta a vedersi come sia possibile affermare, anzi, mettere in salvo, questi valori spirituali senza distaccarli dal flusso della realtà, senza collocarli in una sfera trascéndente la realtà. Sen za di che il successo diventa l’unica misura della vita e della storia. Il Croce ha parole sarcastiche contro gli storici che accusano Giulio Cesare di avere conculcate le libertà repubblicane. « Tale condanna è vuota di senso per noi che ci siamo posti sul piano storiografico, dove l’individuo non appare più come colui che debba scegliere l’opera sua, ma come chi ha eseguito la parte che il corso delle cose e la missione che portava in sé gli assegnava no e che a noi preme d’inten dere ». E sia pure, per quanto la coscienza umana stia col Manzo ni, che aveva la pretesa di di scernere il bene dal male anche nella storia, proprio in forza di quei valori morali assoluti, che sono la sostanza stessa della sto ria e che la storia non riesce mai a esaurire e per quanto tali proposizioni, di un così crudo determinismo, sembrino annulla re quella nozione del libero arbi trio, che il Croce stesso affermò e chiarì splendidamente nella Fi losofia della pratica. (Noto per incidenza che di questo problema il Croce non riuscì mai a libe rarsi interamente e si veda in proposito, la brevissima polemi ca col Meinecke a proposito del bel libretto dello stesso Meinec ke: Senso storico e significato della storia). Se si esce da questa cerchia ideale, non resta più che la con templazione artistica, l’estetismo. « Per ogni parte della vita lo sto rico, che è mosso da un impulso verso l’avvenire, guardando con l’occhio dell’artista il passato, ve de le opere umane in questa lu ce, imperfette sempre e perfet te, transeunti e intranseunti a una ». Ne consegue che la sto ria e la vita vengono giudicate alla stregua del successo e della perfezione, in sede puramente estetica. E’ un criterio che porta lontano. D’altra parte, e qui mi pare si riassuma il difetto capitale della teoria, non si riesce a vedere co me si possa scorgere nella storia un qualsiasi progresso senza ri portarsi a un criterio ideale che sia, a un tempo, la ragione e la misura della storia. Se non fosse così, come potrebbe, lo stesso Cro ce, indicare nella storia d’Euro pa e nella storia d’Italia lo svol gimento dell’idea liberale? O dob biamo credere che le conquiste della libertà (in senso politico, non metafisico) e le istituzioni liberali che formano la trama della storia moderna, siano dei semplici modi di ordinare la ma teria storica, in tutto simili alle classificazioni della storia natu rale? Forse che la storia del se colo decimonono si potrebbe rifa re in tutt’altro senso? Tale non può essere il pensiero del Croce, sempre mosso da inquietudini morali, eppure è a queste conclu sioni che si deve pervenire, se non si ammette un prius che il lumini la storia e promuova l’azione. Il fatto che il pensiero non possa pensare fuori della categoria della necessità non esclude che quanto ci appare ne cessario alla riflessione non tro vi un’equivalente necessità in un ordine morale anteriore a ogni processo storico e indipen dente della storia. La coscienza e la intuizione immediata della vita non si rassegneranno mai a riguardare l’azione come un’il lusione della mente individuale al servizio di un Dio ignoto. Comunque sia, date queste pre messe, data l’identificazione della libertà con l’attività o spiritua lità, perpetua creazione di vita, non si vede come si possa più parlare di un tramonto della libertà. « Asserire morta la liber tà vale lo stesso che asserire mor ta la vita, spezzata la sua intima molla ». Questa intima molla non è altro che la lotta, il contrasto, il continuo superamento delle po sizioni acquisite, Non si può nem meno parlare di decadenza della libertà perché non c’è mai deca denza che non sia insieme for mazione o preparazione di nuova vita e pertanto progresso. Le stesse infrazioni alla libertà gio vano alla libertà « perché quanto più stabilito e indisputato è un ordinamento liberale, tanto più decade ad abitudine e, scemando nell’abitudine la vigile coscienza di se stesso e la prontezza della difesa, si dà luogo a un ricorso di ciò che si credeva che non sarebbe mai riapparso al mondo, e che a sua volta aprirà un nuo vo corso ». Di modo che alla libertà giova no egualmente i suoi amici come i suoi nemici, dato che la liber tà si identifica con la stessa vita. « La moralità è nient’altro che la lotta contro il male; ché se il male non fosse, la morale non troverebbe luogo alcuno ». Il ma le è quindi necessario quanto il bene perché la verità è nella lo ro indecifrabile coesistenza. Una simile teoria nell’orgoglio di com prendere l’assoluto, è costretta a considerare la morte della liber tà come un momento della sua stessa vita. Non si vede come ispirandosi a tale concezione sia possibile la lotta, quella parteci pazione alla storia nella quale si fa consistere la moralità. Lot tare perché, e in nome di che, dal momento che la vita non può morire e la libertà può fare a meno delle libertà? l’equivalen za delle posizioni non rende su perflua qualsiasi presa di posi zione? Forse che Dio non è ugualmente servito dagli angeli e dal demonio? Letto 1248 volte. Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||