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LETTERATURA: I MAESTRI: Silfidi e Gnomi

7 Ottobre 2017

di Giovanni Macchia
[dal “Corriere della Sera”, sabato 26 settembre 1970]

Esistono nell’orografia letteraria del secolo di Luigi XIV, tutto centrato sul grande tema dell’esaltazione della luce, zone ombrose, appartate, che sfuggono di solito ai disegna ­tori dei vasti panorami. Dove, per fare un caso, in quale dei cinque grossi tomi dell’opera pur pregevole che il professor Adam della Sorbona ha dedi ­cato alla letteratura del Sei ­cento, si sarà andato a cac ­ciare il Comte de Gabalis (1670) dell’abate Montfaucon de Villars? Dopo laboriose ri-cerche il bravo lettore arriva a scovarlo in una nota, ove, come un uccellino spaurito, era andato ad annidarsi: ma non più di una nuda citazio ­ne, senza alcun cenno al suo straordinario contenuto, che verrà ignorato totalmente.

Il libretto dell’abate de Vil ­lars è invece per gli ingegni curiosi (quei pochi che resta ­no) assai più che un semplice nome. Ebbe la sua fortuna in altri tempi, quando scrittori e poeti non disdegnavano d’im ­mergersi nella più remota eru ­dizione: dal Settecento illumi ­nato (Cazotte) al romantici ­smo magico ed esoterico (Nerval). Anatole France, grande spirito antiquario, lo utilizzò nella Rotisserie de la reine Pédauque, e riservò all’abate Coignard la stessa sorte toc ­cata a Villars: morire assassinato sulla strada di Lione. Oggi poi, in tempi di risor ­gente esoterismo e di cabala, il Comte de Gabalis (s’intravvede l’origine del suo nome) potrebbe aspirare a diventare un personaggio alla moda. Po ­trebbe prestare il nome ad una setta o ad un locale notturno sofisticato, ove si respiri odore di zolfo.

*

Ma, a differenza di Coignard, l’abate de Villars era l’opposto di quel che suol de ­finirsi un uomo tranquillo. Aveva cominciato col lanciare acuti strali contro Pascal. Ma neanche i grandi santoni del classicismo, Cartesio e Racine, godevano i suoi favori. Pro ­vocò molto rumore un suo brutale attacco alla Berenice di Racine, ch’egli definiva sen ­za troppi riguardi un tessuto galante di madrigali e di elegie scritti per compiacere alle dame e alla giovinezza di Cor ­te: critica che incontrò l’approvazione di una donna di buon senso, Madame de Sevigné, la quale, scrivendone alla figlia, citava Villars come «l’autore delle Silfidi, degli Gnomi e delle Salamandre ».

Silfidi, Gnomi, Salamandre erano gli strani e mobilissimi esseri ricorrenti, insieme con le loro compagne Ninfe, nelle pa ­gine del Comte de Gabalis, brillante resoconto in cinque dialoghi sulle scienze segrete e misteriose secondo i princi ­pi degli antichi maghi e savi cabalisti. I dialoghi avvengono tra l’autore, che parla in prima persona, e il Conte, un te ­desco, seguace della dottrina dei Rosa-Croce, morto poco tempo innanzi di apoplessia. La morte ritorna più volte in queste storie. E’ un mestiere pericoloso quello dei maghi. E Villars lo sa. E commenta sorridendo che tal genere di morte è comune a chi sa mal adoprare i segreti dei savi, e da quando Raimondo Lullo ne pronunciò la condanna nel suo testamento, un Angelo ese ­cutore non ha mai mancato di torcere il collo senza in ­dugio a tutti coloro che han ­no indiscretamente rivelato i Misteri Filosofici. E’ questo il tono irrequieto ed ironico, a volte incredulo, che pervade l’operina.

Resta di positivo, di mo ­derno, l’interpretazione della scienza della cabala in senso visionario e fiabesco: una na ­tura misteriosa e animata, che è il perfetto rovescio di quel ­la rassicurante, disinfettata e bucolica dei classicisti. La Na ­tura può restituire all’uomo la chiave che ha perduto. Sotto suggestioni swedenborghiane Baudelaire dirà che la Natura è un Tempio. Nel libro di Villars essa è definita un San ­tuario. E il conte esalta la semplicità delle sue meravi ­gliose operazioni: semplicità che è armonia, concerto gran ­de, esatto, necessario. Scivo ­lando sul terreno accidentato dell’erotismo, l’interlocutore viene esortato a rinunciare agli inutili ed effimeri piaceri che le donne possono procu ­rare. Una Silfide con il suo amore può regalarci l’immor ­talità, può procreare una ge ­nerazione d’eroi. Perché le Silfidi, specie di sostanze ae ­ree; le Salamandre, composte dalle parti più sottili della Sfera del fuoco, conglobate e organizzate dall’azione del fuo ­co universale; le Ninfe, gli Gnomi acquistano immortali ­tà attraverso il loro commer ­cio con i maghi. E un giorno questi maghi si chiameranno i poeti.

Inafferrabili esseri, ben cu ­stoditi e celati nei quattro ele ­menti, Silfidi, Gnomi, Ninfe, Salamandre abbandonano gli oscuri paesaggi dei cabalisti per continuare a vivere nel mondo variopinto delle fiabe. Grazie a queste entità elemen ­tari si sarebbe potuto spiegare la credenza non soltanto nel Sabba e negli oracoli, ma an ­che nelle fate.

*

Il mito solare di Luigi XIV continuava a risplendere nel centro del cielo. I libri di stregoneria s’intrecciavano in quella luce, come folletti, e furono in quegli anni talmente numerosi che, se fosse vissuto più a lungo, Molière avrebbe potuto dedicare ai cabalisti una commedia. Non ironia, ma spavento, raccapriccio ave ­vano accompagnato i vari pro ­cessi per stregoneria celebrati sotto Luigi XIV: quello della Marquise de Brinvilliers, di ­chiarata posseduta dal demo ­nio, della Voisin, di un tal Saint-Simon, tutti condannati al rogo. Nell’« affaire » della Voisin furono implicati alti personaggi della nobiltà fran ­cese.

L’abate de Villars e il suo libro s’inseriscono in quel cli ­ma d’orribile dramma e di allegra commedia satirica. Nes ­suno pensò a farlo ardere vivo, ma fu giustiziato lo stesso; e coloro che l’ammazzarono sembra fossero i Rosa-Croce della cui dottrina aveva rive ­lato e schernito i segreti. Il suo personaggio divenne così famoso da finire sulle tavole del palcoscenico della com ­media italiana. In una com ­media dedicata agli alchimisti e alla pietra filosofale d’Arlec ­chino (Amsterdam, 1695), tra Anodino chimico, Pascariello operatore e Pulcinella astrolo ­go, ho scoperto la figura del vecchio conte di Gabalis. Ha perduto ogni serietà, ogni ri ­tegno. Si esibisce furiosamen ­te, in un’irruzione caricaturale che sembra la trascrizione in chiave cabalistica del Matamoro e del Capitano. Dopo aver proclamato l’onnipotenza dei cavalieri dei Rosa-Croce, i soli sulla terra che possano tra ­sportarsi da un polo all’altro e attraversare le più spesse mura senza abbatterle, sappia ­te â— dice â— che noi abbiamo commercio con i popoli elementari che sono gli gnomi, le silfidi, le salamandre e le ninfe.

*

Non basta. Villars era già morto quando quelle famose « entità » ebbero altra incar ­nazione nel nome di un mago, alchimista, medico e avventu ­riero milanese, Francesco Giu ­seppe Borri. Accusato di ere ­sia, condannato al rogo e poi al carcere a vita, si trovava a Castel Sant’Angelo, quando una serie di sue lettere fu pubblicata sotto un titolo che sapeva di cassetto violato: La chiave del gabinetto di F. G. Borri (Colonia, 1681). Il Bor ­ri è conosciuto oggi da pochi eruditi. Sarebbe piaciuto a Stendhal. Sui dati che cono ­sciamo si potrebbe scrivere una biografia più colorita di quella di Cagliostro. « Dagli occhi come da due stelle â— attesta un contemporaneo â— brillavagli fuori uno spirito quasi superiore all’umano ».

In un contesto più mosso e animato, le due lettere della Chiave del gabinetto, datate da Copenaghen nel 1666, non erano la prima formulazione delle idee già esposte da Vil ­lars con le sue silfidi e i suoi gnomi, ma un loro diverten ­tissimo plagio (come le Istru ­zioni politiche sono un plagio, ha ben mostrato il De Mattei, di Scipione Ammirato). Chi era il falsario autore di quella contraffazione? Un « liberti ­no » che quelle dottrine eso ­teriche, « puri ghiribizzi d’in ­gegni bizzarri », respinge, o l’alchimista che sotto il velo dell’ironia quelle dottrine con ­tinua a contrabbandare e dif ­fondere? L’abate de Villars aveva seguito lo stesso meto ­do. Certo il tono dei due pre ­sentatori del volume è verso il Borri di aperto dileggio (« l’alchimista truffìere ») e, insieme, di sconfinata ammi ­razione, che fu l’atteggiamen ­to contraddittorio di tutto il secolo verso di lui, da parte dei re e degli stessi Inqui ­sitori. Presso gli Inquisitori scienza e fede non andavano d’accordo. E quel contrasto si rivelò in un evento ecce ­zionale.

Si ammalò in Roma il duca d’Estrées, e i medici non nu ­trivano alcuna speranza di salvarlo. Dopo vari tentenna ­menti si decise di tirar fuori di Castel Sant’Angelo il mago, il « ciarlatano », il « truffie ­re » che si mosse e in qualità di medico andò a visitare l’in ­fermo. L’infermo miracolosa ­mente guarì. Una volta, dun ­que, erano i santi a guarire gli incurabili. Al tempo del Borri, con regolare permesso della Santa Inquisizione, an ­che gli eretici facevano mira ­coli, ma, ben inteso, soltanto in personaggi d’alto rango. Se al posto del duca si fosse tro ­vato non dirò un rappresen ­tante della plebe romana, ma il Borri stesso nessuno gli avrebbe concesso la facoltà di guarire. Ciò che infatti si ve ­rificò vari anni dopo. Si era nel 1695. L’eretico era ancora rinchiuso a Castel Sant’Ange ­lo e si ammalò gravemente. Diagnosticò trattarsi di mala ­ria. Il medicamento che richiese fu la china, cioè il chi ­nino. Dimostrava di essere come medico in anticipo sulla scienza del tempo. Ma il chi ­nino non arrivò, le silfidi, di ­spensatrici d’immortalità, non intervennero. Rimase solo, con la sua malattia, e il 13 agosto di quell’anno si spense.


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Bart