LETTERATURA: I MAESTRI: Taccuino notturno: Il cavallo3 Novembre 2016 di Ennio Flaiano IL CAVALLO. â— Ero usci to di casa insolitamente felice e come tutte le mattine entrai nel bar della piazzetta dove girano gli autobus. C’era già un uomo mezzo ubriaco, o che ne aveva l’aria, un vet turino: aveva lasciata la sua carrozza (e il cavallo in me ditazione), accanto al marcia piedi, e ora stava bevendo un caffè da cui si spandeva un odore forte di anice. Si guar dava attorno, approvando tut to, con una comprensione acquosa negli occhi, per non infastidire nessuno, parlava al proprietario del bar. Costui, seduto alla cassa, senza mai guardarlo, gli rispondeva testa all’aria ogni tanto: « Bravo, hai ragione, l’ho sempre detto, mi piaci », come si fa appunto con gli ubriachi calmi che vo gliono discutere. « Tutto è bello â— pensai â— quando siamo disposti ad ac cettare gli altri. In altri paesi che conosco quest’uomo da rebbe fastidio e lo scaccereb bero, qui lo accettano ». E poi ché il garzone mi guardava, non sapendo che cosa chiede re, dissi la prima cosa che mi venne in mente, un bicchiere di latte caldo. Il vetturino strizzò la faccia come se gli avessero messo un limone in bocca. Si annunciava una di quel le giornate tiepide e sonore che sembrano buone per co minciare un lavoro o per visi tare improvvisamente il Pala tino. La notte aveva piovuto a scrosci e poi una brezza vi brante era venuta a spazzare le nuvole; e ora il quartiere sembrava nuovo. Il sole lim pido accorciava le distanze, dava un ordine preciso e per sino uno splendore a quelle modeste architetture, segnan do le ombre di un profondo azzurro. E così mi sentivo fe lice per l’annunzio dell’autun no. Senza averne l’aria ascol tavo il discorso dell’ubriaco, stava parlando del traffico, in quei giorni calmo, e se ne com piaceva. Il garzone del bar riscaldava il bicchiere del lat te al cannello della macchina a vapore e sorrideva. Nei suoi gesti rapidi e fastosi c’era la leggera ironia dei giovani ro mani verso il loro lavoro. Sor rideva ascoltando il vetturino e infine l’interruppe: « Il ca vallo è finito », disse. E mi strizzò l’occhio. Mi compiac qui di questa confidenza che riconosceva la mia legittima partecipazione alla vita del bar. Continuò: « Non è più l’epoca del cavallo, adesso è la macchina che trionfa ». L’ubriaco si voltò verso il garzone lentamente e, fissan dolo per quest’improvviso at tacco, disse: « Tu non capisci un bel c. ». « Moderiamo il linguaggio », disse il proprietario sbadi gliando. E l’ubriaco si chinò verso di me, per il quale vo leva credere che il proprietario fosse intervenuto. Si passò una mano sulla faccia e senza guar dare il garzone: « Tu non ca pisci che il cavallo non può finire. Finirà la tua macchina, ma il cavallo no ». « Il tuo cavallo è bell’e fi nito, e intanto faresti bene a mettergli le bretelle, o ti casca da un momento all’altro ». Il garzone indicava il cavallo fer mo accanto al marciapiedi, la testa chinata a toccare il sel ciato, in piena e romana me ditazione. Aggiunse: « Profes sore, guardi se un cavallo così deve girare senza bretelle » e mi strizzava l’occhio. Il vetturino rideva tra sé, non sembrandogli dignitoso rispondere. Ora aveva un altro interlocutore. Puntò un dito verso di me, con rispettosa dolcezza: « Lei è professore, no? ». Professore è un titolo che nei bar si dà ai clienti di gnitosi di cui non si riesce a capire che mestiere facciano. Per semplice rispetto. Inutile discutere, feci cenno di sì. « Allora, lei che è profes sore, e che ha studiato, lei saprà meglio di me che sono un ignorante, che il cavallo non può finire, perché… ». Mi guardava fisso aspettan do un aiuto. Lo trovò da solo. Con lo sguardo in cui l’im provvisa rivelazione metteva una luce trionfante di cattive ria, concluse: « Perché il ca vallo è natura ». Approvai: « Lei ha detto una cosa molto giusta e bel lissima. Ciò che è natura non finisce. Cioè, speriamolo ». Poi bevvi il mio bicchiere di latte e uscii, tra molteplici saluti. Ero piacevolmente turbato nei miei pensieri. « Che almeno, pensavo, ci sopravviva il ca vallo ». LA PERA. â— Molti anni fa, nel terzo o quarto anno del suo mandato presidenzia le, fui invitato a cena al pa lazzo del Quirinale, da Luigi Einaudi. Non invitato ad personam â— il Presidente non mi conosceva affatto â— ma come redattore di una rivista poli tica e letteraria diretta da Ma rio Pannunzio. A tavola eravamo in otto, compresi il Pre sidente e sua moglie. Otto con vitati è il massimo per una cena non ufficiale, e la serata si svolse dunque molto pia cevolmente, la conversazione toccò vari argomenti, con una vivacità e una disinvoltura che davano fastidio all’enorme e unico maggiordomo in polpe che ci serviva. Questo mag giordomo, una specie di Hitchcock di più vaste proporzioni ma totalmente destituito di ironia, aveva sulle prime ten tato di intimidirci posandoci il prezioso vasellame davanti co me se temesse che l’avremmo rotto; e fulminandoci con oc chiate di sconforto se non riu scivamo a individuare tra le tante (alcune nascoste persino tra i merletti della tovaglia), le posate giuste. Poiché il Presidente, nei suoi anni verdi, aveva frequentato una trattoria di via della Cro ce, la Fiaschetteria Beltramme (che noi ancora frequen tiamo), si parlò anche di que sta: e dei suoi colleghi di uni versità coi quali vi andava, del proprietario e di altri clien ti che egli vi intravedeva: Bru no Barilli, Cardarelli, il pit tore Bartoli. Da un argomento all’altro, tra aneddoti che per il gran ridere scuotevano il Presidente come un uccellino bagnato; tra riflessioni che se guivano gli aneddoti, pensieri economici e altri sul futuro, la cena si stava prolungando oltre il lecito. Il Presidente sembrava un nonno felice di rivedere nipoti lontani. Ma ec coci alla frutta. Il maggiordomo recò un enorme vassoio del tipo che i manieristi olandesi e poi na poletani dipingevano due se coli fa: c’era di tutto, eccetto il melone spaccato. E tra quei frutti, delle pere molto grandi. Luigi Einaudi guardò un po’ sorpreso tanta botanica, poi sospirò: « Io â— disse â— pren derei una pera, ma sono trop po grandi, c’è nessuno che vuole dividerne una con me? ». Tutti avemmo un attimo di sgomento e guardammo istin tivamente il maggiordomo: era diventato rosso fiamma e forse stava per avere un colpo apoplettico. Durante la sua lunga carriera mai aveva sen tito una proposta simile, ad una cena servita da lui, in quelle sale. Tuttavia, lo battei di volata: « Io, Presidente », dissi alzando una mano per farmi vedere, come a scuola. Il Presidente tagliò la pera, il maggiordomo ne mise la metà su un piatto, e me lo posò da vanti come se contenesse la metà della testa di Giovanni il Battista. Un tumulto di di sprezzo doveva agitare il suo animo non troppo grande, in quel corpo immenso. « Stai a vedere â— pensai â— che ades so me la sbuccia, come ai bambini ». Non fece nulla, seguitò il suo giro. Ma il salto del tra pezio era riuscito e la con versazione riprese più vivace di prima: mentre il maggior domo, snob come sanno esser lo soltanto certi camerieri e i cani da guardia, spariva die tro un paravento. Qui finiscono i miei ricordi sul presidente Einaudi. Non ebbi più occasione di vederlo, qualche anno dopo saliva alla presidenza un altro e il resto è noto. Cominciava per l’Ita lia la repubblica delle pere in divise. IL MARE. â— Fregene, do menica. Un’automobile si fer ma nella pineta. Ne scendono sei mendicanti, che prendono direzioni diverse. Il parroco, che qui fa le benedizioni di Pasqua nel mese di agosto, viene a benedire la casa e mentre asperge mura e pavi menti, chiede a mia moglie se le interessa ancora quel ter reno che aveva visto l’anno scorso, eccetera. Lunga passeggiata, stamane, sulla riva, davanti al villaggio dei pescatori, diventato resi denza alla moda, oltre l’Arrone, verso Passoscuro. Quattro o cinque chilometri di spiag gia. A sinistra, un mare che sa di essere colpevole e ha l’aria di un cane bagnato, e anche l’odore. Sulla destra, a perdita d’occhio, un arenile che appena dieci anni fa tira va fuori degli strani fiori vio la, degli aghi che incoronava no le dune e piante grasse che fermavano la sabbia: e che ora è un pacifico mondezzaio. Il mare vi porta i suoi ba rattoli, i rifiuti delle barche da diporto e delle petroliere, carichi di frutta andati a male. Dall’Arrone arrivano fa sci di erbe, interi cespugli, i tronchi dei pini marciti, un gatto; e i bidoni vuoti delle vernici che sono serviti per abbellire le ville. I bagnanti romani, che condividono con il cuculo la tendenza a spor care il proprio nido, vi la sciano infine le bottiglie, i re sti del pranzo, gli opachi gio cattoli di plastica, i palloni sfondati, gli zoccoli spaiati, i salvagenti rotti. E i giornali. Noto la calma di questi ba gnanti, la disinvoltura di famiglie intere che prendono il sole sdraiate su quella sabbia, appena scansando gli oggetti più ingombranti e pericolosi, le cassette coi chiodi, i ma terassi sventrati, le bottiglie rotte. Un signore dalla gran pan cia aspira l’ultima boccata della sua sigaretta e la butta nel mare, come in un vasto por tacenere naturale. Nessuno sa chi deve tenere pulita questa spiaggia. O la verità è più modesta: nessuno pensa che una spiaggia possa essere pulita. Le cose che bi sogna tenere pulite, anzi lucide, sappiamo quali sono: i pavimenti e i mobili. E la « macchina ». Tutto il resto può essere affidato al caso; e per quel che riguarda una spiaggia, alle mareggiate in vernali. Quando si alza un po’ di vento, i giornali, quelli di un mese fa e quelli di oggi, si le vano in un loro volo rasoter ra, come gabbiani disturbati; ed è questo l’ultimo segno che ricorda il mare di un tempo, quando i gabbiani venivano, quando si poteva impunemen te prendere un pugno di sabbia e farla scorrere « nel cavo della mano in ozio », come dice il Poeta.
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