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LETTERATURA: I MAESTRI: Taccuino notturno: Il cavallo

3 Novembre 2016

di Ennio Flaiano
[dal “Corriere della Sera”, martedì 18 agosto 1970]

IL CAVALLO. â— Ero usci ­to di casa insolitamente felice e come tutte le mattine entrai nel bar della piazzetta dove girano gli autobus. C’era già un uomo mezzo ubriaco, o che ne aveva l’aria, un vet ­turino: aveva lasciata la sua carrozza (e il cavallo in me ­ditazione), accanto al marcia ­piedi, e ora stava bevendo un caffè da cui si spandeva un odore forte di anice. Si guar ­dava attorno, approvando tut ­to, con una comprensione acquosa negli occhi, per non infastidire nessuno, parlava al proprietario del bar. Costui, seduto alla cassa, senza mai guardarlo, gli rispondeva testa all’aria ogni tanto: « Bravo, hai ragione, l’ho sempre detto, mi piaci », come si fa appunto con gli ubriachi calmi che vo ­gliono discutere.

« Tutto è bello â— pensai â— quando siamo disposti ad ac ­cettare gli altri. In altri paesi che conosco quest’uomo da ­rebbe fastidio e lo scaccereb ­bero, qui lo accettano ». E poi ­ché il garzone mi guardava, non sapendo che cosa chiede ­re, dissi la prima cosa che mi venne in mente, un bicchiere di latte caldo. Il vetturino strizzò la faccia come se gli avessero messo un limone in bocca.

Si annunciava una di quel ­le giornate tiepide e sonore che sembrano buone per co ­minciare un lavoro o per visi ­tare improvvisamente il Pala ­tino. La notte aveva piovuto a scrosci e poi una brezza vi ­brante era venuta a spazzare le nuvole; e ora il quartiere sembrava nuovo. Il sole lim ­pido accorciava le distanze, dava un ordine preciso e per ­sino uno splendore a quelle modeste architetture, segnan ­do le ombre di un profondo azzurro. E così mi sentivo fe ­lice per l’annunzio dell’autun ­no. Senza averne l’aria ascol ­tavo il discorso dell’ubriaco, stava parlando del traffico, in quei giorni calmo, e se ne com ­piaceva. Il garzone del bar riscaldava il bicchiere del lat ­te al cannello della macchina a vapore e sorrideva. Nei suoi gesti rapidi e fastosi c’era la leggera ironia dei giovani ro ­mani verso il loro lavoro. Sor ­rideva ascoltando il vetturino e infine l’interruppe: « Il ca ­vallo è finito », disse. E mi strizzò l’occhio. Mi compiac ­qui di questa confidenza che riconosceva la mia legittima partecipazione alla vita del bar. Continuò: « Non è più l’epoca del cavallo, adesso è la macchina che trionfa ».

L’ubriaco si voltò verso il garzone lentamente e, fissan ­dolo per quest’improvviso at ­tacco, disse: « Tu non capisci un bel c. ».

« Moderiamo il linguaggio », disse il proprietario sbadi ­gliando. E l’ubriaco si chinò verso di me, per il quale vo ­leva credere che il proprietario fosse intervenuto. Si passò una mano sulla faccia e senza guar ­dare il garzone: « Tu non ca ­pisci che il cavallo non può finire. Finirà la tua macchina, ma il cavallo no ».

« Il tuo cavallo è bell’e fi ­nito, e intanto faresti bene a mettergli le bretelle, o ti casca da un momento all’altro ». Il garzone indicava il cavallo fer ­mo accanto al marciapiedi, la testa chinata a toccare il sel ­ciato, in piena e romana me ­ditazione. Aggiunse: « Profes ­sore, guardi se un cavallo così deve girare senza bretelle » e mi strizzava l’occhio.

Il vetturino rideva tra sé, non sembrandogli dignitoso rispondere. Ora aveva un altro interlocutore. Puntò un dito verso di me, con rispettosa dolcezza: « Lei è professore, no? ».

Professore è un titolo che nei bar si dà ai clienti di ­gnitosi di cui non si riesce a capire che mestiere facciano. Per semplice rispetto. Inutile discutere, feci cenno di sì.

« Allora, lei che è profes ­sore, e che ha studiato, lei saprà meglio di me che sono un ignorante, che il cavallo non può finire, perché… ».

Mi guardava fisso aspettan ­do un aiuto. Lo trovò da solo. Con lo sguardo in cui l’im ­provvisa rivelazione metteva una luce trionfante di cattive ­ria, concluse: « Perché il ca ­vallo è natura ».

Approvai: « Lei ha detto una cosa molto giusta e bel ­lissima. Ciò che è natura non finisce. Cioè, speriamolo ». Poi bevvi il mio bicchiere di latte e uscii, tra molteplici saluti. Ero piacevolmente turbato nei miei pensieri. « Che almeno, pensavo, ci sopravviva il ca ­vallo ».

LA PERA. â— Molti anni fa, nel terzo o quarto anno del suo mandato presidenzia ­le, fui invitato a cena al pa ­lazzo del Quirinale, da Luigi Einaudi. Non invitato ad personam â— il Presidente non mi conosceva affatto â— ma come redattore di una rivista poli ­tica e letteraria diretta da Ma ­rio Pannunzio. A tavola eravamo in otto, compresi il Pre ­sidente e sua moglie. Otto con ­vitati è il massimo per una cena non ufficiale, e la serata si svolse dunque molto pia ­cevolmente, la conversazione toccò vari argomenti, con una vivacità e una disinvoltura che davano fastidio all’enorme e unico maggiordomo in polpe che ci serviva. Questo mag ­giordomo, una specie di Hitchcock di più vaste proporzioni ma totalmente destituito di ironia, aveva sulle prime ten ­tato di intimidirci posandoci il prezioso vasellame davanti co ­me se temesse che l’avremmo rotto; e fulminandoci con oc ­chiate di sconforto se non riu ­scivamo a individuare tra le tante (alcune nascoste persino tra i merletti della tovaglia), le posate giuste.

Poiché il Presidente, nei suoi anni verdi, aveva frequentato una trattoria di via della Cro ­ce, la Fiaschetteria Beltramme (che noi ancora frequen ­tiamo), si parlò anche di que ­sta: e dei suoi colleghi di uni ­versità coi quali vi andava, del proprietario e di altri clien ­ti che egli vi intravedeva: Bru ­no Barilli, Cardarelli, il pit ­tore Bartoli. Da un argomento all’altro, tra aneddoti che per il gran ridere scuotevano il Presidente come un uccellino bagnato; tra riflessioni che se ­guivano gli aneddoti, pensieri economici e altri sul futuro, la cena si stava prolungando oltre il lecito. Il Presidente sembrava un nonno felice di rivedere nipoti lontani. Ma ec ­coci alla frutta.

Il maggiordomo recò un enorme vassoio del tipo che i manieristi olandesi e poi na ­poletani dipingevano due se ­coli fa: c’era di tutto, eccetto il melone spaccato. E tra quei frutti, delle pere molto grandi. Luigi Einaudi guardò un po’ sorpreso tanta botanica, poi sospirò: « Io â— disse â— pren ­derei una pera, ma sono trop ­po grandi, c’è nessuno che vuole dividerne una con me? ».

Tutti avemmo un attimo di sgomento e guardammo istin ­tivamente il maggiordomo: era diventato rosso fiamma e forse stava per avere un colpo apoplettico. Durante la sua lunga carriera mai aveva sen ­tito una proposta simile, ad una cena servita da lui, in quelle sale. Tuttavia, lo battei di volata: « Io, Presidente », dissi alzando una mano per farmi vedere, come a scuola. Il Presidente tagliò la pera, il maggiordomo ne mise la metà su un piatto, e me lo posò da ­vanti come se contenesse la metà della testa di Giovanni il Battista. Un tumulto di di ­sprezzo doveva agitare il suo animo non troppo grande, in quel corpo immenso. « Stai a vedere â— pensai â— che ades ­so me la sbuccia, come ai bambini ».

Non fece nulla, seguitò il suo giro. Ma il salto del tra ­pezio era riuscito e la con ­versazione riprese più vivace di prima: mentre il maggior ­domo, snob come sanno esser ­lo soltanto certi camerieri e i cani da guardia, spariva die ­tro un paravento.

Qui finiscono i miei ricordi sul presidente Einaudi. Non ebbi più occasione di vederlo, qualche anno dopo saliva alla presidenza un altro e il resto è noto. Cominciava per l’Ita ­lia la repubblica delle pere in ­divise.

IL MARE. â— Fregene, do ­menica. Un’automobile si fer ­ma nella pineta. Ne scendono sei mendicanti, che prendono direzioni diverse. Il parroco, che qui fa le benedizioni di Pasqua nel mese di agosto, viene a benedire la casa e mentre asperge mura e pavi ­menti, chiede a mia moglie se le interessa ancora quel ter ­reno che aveva visto l’anno scorso, eccetera.

Lunga passeggiata, stamane, sulla riva, davanti al villaggio dei pescatori, diventato resi ­denza alla moda, oltre l’Arrone, verso Passoscuro. Quattro o cinque chilometri di spiag ­gia. A sinistra, un mare che sa di essere colpevole e ha l’aria di un cane bagnato, e anche l’odore. Sulla destra, a perdita d’occhio, un arenile che appena dieci anni fa tira ­va fuori degli strani fiori vio ­la, degli aghi che incoronava ­no le dune e piante grasse che fermavano la sabbia: e che ora è un pacifico mondezzaio.

Il mare vi porta i suoi ba ­rattoli, i rifiuti delle barche da diporto e delle petroliere, carichi di frutta andati a male. Dall’Arrone arrivano fa ­sci di erbe, interi cespugli, i tronchi dei pini marciti, un gatto; e i bidoni vuoti delle vernici che sono serviti per abbellire le ville. I bagnanti romani, che condividono con il cuculo la tendenza a spor ­care il proprio nido, vi la ­sciano infine le bottiglie, i re ­sti del pranzo, gli opachi gio ­cattoli di plastica, i palloni sfondati, gli zoccoli spaiati, i salvagenti rotti. E i giornali. Noto la calma di questi ba ­gnanti, la disinvoltura di famiglie intere che prendono il sole sdraiate su quella sabbia, appena scansando gli oggetti più ingombranti e pericolosi, le cassette coi chiodi, i ma ­terassi sventrati, le bottiglie rotte.

Un signore dalla gran pan ­cia aspira l’ultima boccata della sua sigaretta e la butta nel mare, come in un vasto por ­tacenere naturale.

Nessuno sa chi deve tenere pulita questa spiaggia. O la verità è più modesta: nessuno pensa che una spiaggia possa essere pulita. Le cose che bi ­sogna tenere pulite, anzi lucide, sappiamo quali sono: i pavimenti e i mobili. E la « macchina ». Tutto il resto può essere affidato al caso; e per quel che riguarda una spiaggia, alle mareggiate in ­vernali.

Quando si alza un po’ di vento, i giornali, quelli di un mese fa e quelli di oggi, si le ­vano in un loro volo rasoter ­ra, come gabbiani disturbati; ed è questo l’ultimo segno che ricorda il mare di un tempo, quando i gabbiani venivano, quando si poteva impunemen ­te prendere un pugno di sabbia e farla scorrere « nel cavo della mano in ozio », come dice il Poeta.

 

 


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Bart