LETTERATURA: I MAESTRI: Taccuino notturno: Le jene8 Novembre 2016 di Ennio Flaiano Da un mese nel nostro giornale hanno assunto in prova due jene. Una mattina, nello stanzone dove lavoro assieme ai colleghi Ros so e Milito, è entrato il capo dei servizi di cronaca con un tale che teneva queste due jene al guinzaglio. Le ha sciol te e se n’è andato. Sulle prime ci siamo un po’ allarmati, la jena è un animale sgradevole; anzi pare la combinazione araldica di tutti gli animali sgradevoli: ha qualcosa del ratto di fogna, del coccodril lo, dello scorpione, un che di pipistrello e sembra che, in vece della sua pelliccia, del resto inutilizzabile, indossi uno scendiletto sporco. Visto di spalle, dalla po tenza del groppone potrebbe essere scambiato per un grosso cinghiale: ma il cinghiale ha qualcosa di nobile, di lea le, e non è selvatico come si crede. Sono gli uomini che ve l’hanno ridotto dandogli continua caccia. Tempo fa ho vi sto una femmina di cinghiale in una gabbia, coi suoi cuc cioli: la tenevano in un risto rante della Maremma, quei maledetti, vicino all’ingresso, per richiamo e garanzia di buona cucina. Bene, quando mi avvicinai a quella gabbia, la brava bestia cominciò a di menarsi e a mugolare di gioia, strofinando il muso contro la rete, guardandomi con occhi imploranti, quasi chiedendo le mie carezze. Mi lasciò una serena impressione di affetto; e la certezza che in ogni ani male c’è un nostro amico, che noi ignoriamo. La jena no, non dà questa impressione, che persino i ser penti possono comunicare. La jena è fissa a un suo orribile traguardo, vuole il nostro ca davere, e ben putrefatto per giunta. Vile e sospettosa, man da un pessimo odore. Non so se questo sia dovuto al cibo che preferisce. Appare timi da, ansiosa, non sta mai fer ma, sempre fiutando l’aria col suo naso diabolico e mostran do i denti per una incapacità direi comica a tener chiuse le labbra: è il suo sorriso pe renne. Il suo riso, lo sappia mo tutti, è agghiacciante: ci senti il sarcasmo e la ferocia dell’assassino. « Allora â— disse quel gior no il capo dei servizi di cro naca â— ve le lascio qui con voi, ci sono questi due tavoli liberi. E aggiunse: « Spero che diventerete buoni colleghi e che nei primi tempi le aiu terete ». Veramente sorpreso, osai chiedere: « Colleghi? Che dob biamo farne? ». Il capo dei servizi di cronaca se ne andò senza nemmeno rispondere, sono un praticante, come Ros so e Milito, posso essere man dato via senza preavviso. Ci lasciò con le due jene. Esse si sdraiarono sui loro tavoli: e rimasero lì a guardare noi, le finestre e il soffitto, alter nativamente. Ogni tanto ar ricciavano il naso e guaivano per lontani fetori che soltanto esse percepivano. Questo il primo giorno. Il secondo gior no si fecero più audaci, veni vano a frugare nei cestini del la carta straccia, a leggere i nostri pezzi: e quando arrivò il ragazzo del bar coi nostri sandwich, gli tagliarono la strada e se li mangiarono di colpo. Ci si abitua a tutto. Dopo una settimana c’eravamo abi tuati anche al fatto che con sumassero lì, sotto i tavoli, con uno sgranocchiare infer nale, la loro colazione. A mez zogiorno viene infatti un gar zone di macelleria con un gran cesto di frattaglie e di ossa. In un attimo se lo lap pano, e restano poi a leccarsi le labbra e a girare attorno al cesto, sempre sperando che vi sia rimasto qualcosa. Ho fatto le mie proteste quando le be stie hanno cominciato a depo sitare i loro escrementi nei vani delle finestre. Dalla dire zione del personale ci hanno risposto mandandoci un sac co di segatura. O prendere o andarsene. Abbiamo finito per accettare la sconfitta, che ha qualche vantaggio: infatti, le jene ci aiutano nel nostro la voro e, poiché tutti i colleghi vengono con qualche scusa a vederci, ne ricaviamo un cer to prestigio. Noi siamo « quel li delle jene ». L’essenziale è lasciare sempre le finestre aperte e spruzzare ogni tanto un deodorante. E tapparsi le orecchie quando ridono alle loro storielle. C’è di più: dopo una die cina di giorni abbiamo comin ciato, Dio ci perdoni, a sti marle. Sanno fare il nostro lavoro, lo perfezionano anche, si direbbe che ce l’hanno nel sangue. Noi abbiamo su di esse il vantaggio di conoscere bene o male la grammatica e di sapere scrivere a macchina; abbiamo maggiore abilità nell’incollare le notizie d’agenzia, sappiamo telefonare e usare le figure retoriche, la metafora, la metonimia, l’antonomasia, la litote e l’iperbole: abbiamo, suvvia!, una certa cultura classica che ci permette di citare autori e fatti e prendere le cose alla larga, letterariamente. Ma quanto â— mi chiedo â— quanto durerà que sto nostro vantaggio? Le due jene, oltre a un’intelligenza non comune hanno (ed è questa la loro naturale qualità), hanno il cosidetto fiuto. Ora, per il nostro la voro, aver fiuto è tutto. Esse sentono un fatto di cronaca a venti chilometri, e non solo il cadavere. Sentono il mori turo, la tragedia, la complica zione, la notizia che monta. Succedono ogni giorno fatti orribili ma stancanti, e noi siamo portati dalla noia, dal la routine, e anche dalla pie tà, a lasciarli esaurire con qualche articolo, attenendoci generalmente alle notizie che ci forniscono gli inquirenti. Le jene no, esse non mollano mai. Vanno fino in fondo, hanno il loro metodo: lavo rano soltanto sul cadavere. Gli tirano fuori tutto, le trip pe, il cuore, il passato, l’infan zia, il servizio militare, gli amori, le possibili depravazio ni, i nomi delle amanti, i rap porti incestuosi o di natura particolare, le fotografie, i dia ri, le più innocenti confessio ni, tutto. Alla rinfusa, ma tut to. Scovano gli amici della vittima, i camerieri, i lacchè, i lenoni, li fanno parlare, si fanno raccontare dietro com penso le cose più segrete e più luride, quelle cose che le stesse vittime avrebbero voluto seppellire nell’oblio per sempre, e hanno creduto di farlo uccidendo o uccidendo si. No, le jene vanno lontano, risalgono, scovano: e quando il cadavere è scomposto e non ha ormai più segreti, quando il lezzo è insopportabile, tor nano da noi, ridono a cre papelle, osano invitarci a pranzo, ai loro pranzi. Riuscirò mai ad abituarmi? O devo considerare già scon tato il fatto che saranno esse a stancarsi di noi e a chie derci di abbandonare tutto il nostro lavoro nelle loro ma ni? Il successo che ormai ot tengono le fa spavalde. Ogni tanto mettono le loro zampacce infette sulle macchine da scrivere e tentano di scrivere. Vogliono imparare: e col tem po ci riusciranno. Ma ecco scoppia un altro delitto, un altro scandalo: prima che ar rivi la notizia le vedi infilare la porta e per un po’ si re spira. La verità è che noi ci sentiamo già inutili, sorpas sati. Questa mattina hanno assunto altre due jene e l’uni ca nostra speranza è che, col tempo, aumentando di nume ro, finiscano per divorarsi tra di loro. Se prima non divore ranno noi. L’EREDITA’. â— « Faccia passare il signor Shakespeare. Buon giorno, poeta, come va? Siedi pure. Un sigaro? Dun que, ho letto il tuo copione, ti dico subito quello che ne penso: è un capolavoro. Sì, sì, un capolavoro! Ma permetti mi un solo appunto: io lo de finirei un meraviglioso dia mante montato male. La tra ma è felice, serrata, l’ambien te è nobile, la Danimarca va di moda (io, anzi, spingerei un po’ con la pornografia), i personaggi sono ben tagliati, drammatici. Forse un po’ trop pi, potremmo eliminarne due o tre, ma ci penseremo. Amle to va benissimo, potrei farlo io, Ofelia… chi ci vedi in Ofelia? Prendi un caffè? Due caffè! Io toglierei le tirate di quel Polonio, ridurrei un po’ il second’atto, darei per avve nuto l’arrivo dei comici e fa rei che la loro rappresentazio ne è un’orgia danese, un festi val pop. Anticiperei la carnefi cina finale. Non credi? Otti ma l’idea del duello, lo scam bio dei fioretti, mi piace che la regina si avveleni per sba glio, che il re venga fatto fuo ri, mi piace tutto. Ma taglierei, ripeto, qua e là, quei monologhi… per dare un po’ di spazio ad un’altra conclusione, che mi sembra più nostra, più italiana. Te le dico in po che parole, tu aggiusterai co me meglio credi: l’eredità. A chi spetta l’eredità di Amleto? Chi è morto prima? Il re, la regina, Amleto, Laerte? O si deve ammettere la commorien za? E l’eredità di Polonio a chi va? E quella di Ofelia? Chiarire, chiarire. Quel Fortebraccio deve passare anche lui i suoi guai con la legge e gli avvocati. La Danimarca, infi ne, di chi sarà? Quali sono i testamenti validi? In fondo, noi vogliamo che la tragedia non finisca per mancanza di personaggi, ma continui nelle conseguenze legali, nelle sot tigliezze giuridiche, nei cavil li, le perizie, i veri e i falsi testamenti. L’Italia è la patria del diritto. E il titolo? Io la scerei: ‘Amleto’, e sotto: ‘ Libidine e eredità nella cor te più licenziosa d’Europa, con Fortebraccio nell’imbaraz zo ‘. Che ne pensi? Passa do mani per il contratto ».
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