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LETTERATURA: I MAESTRI: Taccuino notturno: Le jene

8 Novembre 2016

di Ennio Flaiano
[dal “Corriere della Sera”, domenica 4 ottobre 1970]

Da un mese nel nostro giornale hanno assunto in prova due jene. Una mattina, nello stanzone dove lavoro assieme ai colleghi Ros ­so e Milito, è entrato il capo dei servizi di cronaca con un tale che teneva queste due jene al guinzaglio. Le ha sciol ­te e se n’è andato. Sulle prime ci siamo un po’ allarmati, la jena è un animale sgradevole; anzi pare la combinazione araldica di tutti gli animali sgradevoli: ha qualcosa del ratto di fogna, del coccodril ­lo, dello scorpione, un che di pipistrello e sembra che, in ­vece della sua pelliccia, del resto inutilizzabile, indossi uno scendiletto sporco.

Visto di spalle, dalla po ­tenza del groppone potrebbe essere scambiato per un grosso cinghiale: ma il cinghiale ha qualcosa di nobile, di lea ­le, e non è selvatico come si crede. Sono gli uomini che ve l’hanno ridotto dandogli continua caccia. Tempo fa ho vi ­sto una femmina di cinghiale in una gabbia, coi suoi cuc ­cioli: la tenevano in un risto ­rante della Maremma, quei maledetti, vicino all’ingresso, per richiamo e garanzia di buona cucina. Bene, quando mi avvicinai a quella gabbia, la brava bestia cominciò a di ­menarsi e a mugolare di gioia, strofinando il muso contro la rete, guardandomi con occhi imploranti, quasi chiedendo le mie carezze. Mi lasciò una serena impressione di affetto; e la certezza che in ogni ani ­male c’è un nostro amico, che noi ignoriamo.

La jena no, non dà questa impressione, che persino i ser ­penti possono comunicare. La jena è fissa a un suo orribile traguardo, vuole il nostro ca ­davere, e ben putrefatto per giunta. Vile e sospettosa, man ­da un pessimo odore. Non so se questo sia dovuto al cibo che preferisce. Appare timi ­da, ansiosa, non sta mai fer ­ma, sempre fiutando l’aria col suo naso diabolico e mostran ­do i denti per una incapacità direi comica a tener chiuse le labbra: è il suo sorriso pe ­renne. Il suo riso, lo sappia ­mo tutti, è agghiacciante: ci senti il sarcasmo e la ferocia dell’assassino.

« Allora â— disse quel gior ­no il capo dei servizi di cro ­naca â— ve le lascio qui con voi, ci sono questi due tavoli liberi. E aggiunse: « Spero che diventerete buoni colleghi e che nei primi tempi le aiu ­terete ».

Veramente sorpreso, osai chiedere: « Colleghi? Che dob ­biamo farne? ». Il capo dei servizi di cronaca se ne andò senza nemmeno rispondere, sono un praticante, come Ros ­so e Milito, posso essere man ­dato via senza preavviso. Ci lasciò con le due jene. Esse si sdraiarono sui loro tavoli: e rimasero lì a guardare noi, le finestre e il soffitto, alter ­nativamente. Ogni tanto ar ­ricciavano il naso e guaivano per lontani fetori che soltanto esse percepivano. Questo il primo giorno. Il secondo gior ­no si fecero più audaci, veni ­vano a frugare nei cestini del ­la carta straccia, a leggere i nostri pezzi: e quando arrivò il ragazzo del bar coi nostri sandwich, gli tagliarono la strada e se li mangiarono di colpo.

Ci si abitua a tutto. Dopo una settimana c’eravamo abi ­tuati anche al fatto che con ­sumassero lì, sotto i tavoli, con uno sgranocchiare infer ­nale, la loro colazione. A mez ­zogiorno viene infatti un gar ­zone di macelleria con un gran cesto di frattaglie e di ossa. In un attimo se lo lap ­pano, e restano poi a leccarsi le labbra e a girare attorno al cesto, sempre sperando che vi sia rimasto qualcosa. Ho fatto le mie proteste quando le be ­stie hanno cominciato a depo ­sitare i loro escrementi nei vani delle finestre. Dalla dire ­zione del personale ci hanno risposto mandandoci un sac ­co di segatura. O prendere o andarsene. Abbiamo finito per accettare la sconfitta, che ha qualche vantaggio: infatti, le jene ci aiutano nel nostro la ­voro e, poiché tutti i colleghi vengono con qualche scusa a vederci, ne ricaviamo un cer ­to prestigio. Noi siamo « quel ­li delle jene ». L’essenziale è lasciare sempre le finestre aperte e spruzzare ogni tanto un deodorante. E tapparsi le orecchie quando ridono alle loro storielle.

C’è di più: dopo una die ­cina di giorni abbiamo comin ­ciato, Dio ci perdoni, a sti ­marle. Sanno fare il nostro lavoro, lo perfezionano anche, si direbbe che ce l’hanno nel sangue. Noi abbiamo su di esse il vantaggio di conoscere bene o male la grammatica e di sapere scrivere a macchina; abbiamo maggiore abilità nell’incollare le notizie d’agenzia, sappiamo telefonare e usare le figure retoriche, la metafora, la metonimia, l’antonomasia, la litote e l’iperbole: abbiamo, suvvia!, una certa cultura classica che ci permette di citare autori e fatti e prendere le cose alla larga, letterariamente. Ma quanto â— mi chiedo â— quanto durerà que ­sto nostro vantaggio?

Le due jene, oltre a un’intelligenza non comune hanno (ed è questa la loro naturale qualità), hanno il cosidetto fiuto. Ora, per il nostro la ­voro, aver fiuto è tutto. Esse sentono un fatto di cronaca a venti chilometri, e non solo il cadavere. Sentono il mori ­turo, la tragedia, la complica ­zione, la notizia che monta. Succedono ogni giorno fatti orribili ma stancanti, e noi siamo portati dalla noia, dal ­la routine, e anche dalla pie ­tà, a lasciarli esaurire con qualche articolo, attenendoci generalmente alle notizie che ci forniscono gli inquirenti. Le jene no, esse non mollano mai. Vanno fino in fondo, hanno il loro metodo: lavo ­rano soltanto sul cadavere. Gli tirano fuori tutto, le trip ­pe, il cuore, il passato, l’infan ­zia, il servizio militare, gli amori, le possibili depravazio ­ni, i nomi delle amanti, i rap ­porti incestuosi o di natura particolare, le fotografie, i dia ­ri, le più innocenti confessio ­ni, tutto. Alla rinfusa, ma tut ­to. Scovano gli amici della vittima, i camerieri, i lacchè, i lenoni, li fanno parlare, si fanno raccontare dietro com ­penso le cose più segrete e più luride, quelle cose che le stesse vittime avrebbero voluto seppellire nell’oblio per sempre, e hanno creduto di farlo uccidendo o uccidendo ­si. No, le jene vanno lontano, risalgono, scovano: e quando il cadavere è scomposto e non ha ormai più segreti, quando il lezzo è insopportabile, tor ­nano da noi, ridono a cre ­papelle, osano invitarci a pranzo, ai loro pranzi.

Riuscirò mai ad abituarmi? O devo considerare già scon ­tato il fatto che saranno esse a stancarsi di noi e a chie ­derci di abbandonare tutto il nostro lavoro nelle loro ma ­ni? Il successo che ormai ot ­tengono le fa spavalde. Ogni tanto mettono le loro zampacce infette sulle macchine da scrivere e tentano di scrivere. Vogliono imparare: e col tem ­po ci riusciranno. Ma ecco scoppia un altro delitto, un altro scandalo: prima che ar ­rivi la notizia le vedi infilare la porta e per un po’ si re ­spira. La verità è che noi ci sentiamo già inutili, sorpas ­sati. Questa mattina hanno assunto altre due jene e l’uni ­ca nostra speranza è che, col tempo, aumentando di nume ­ro, finiscano per divorarsi tra di loro. Se prima non divore ­ranno noi.

L’EREDITA’. â— « Faccia passare il signor Shakespeare. Buon giorno, poeta, come va? Siedi pure. Un sigaro? Dun ­que, ho letto il tuo copione, ti dico subito quello che ne penso: è un capolavoro. Sì, sì, un capolavoro! Ma permetti ­mi un solo appunto: io lo de ­finirei un meraviglioso dia ­mante montato male. La tra ­ma è felice, serrata, l’ambien ­te è nobile, la Danimarca va di moda (io, anzi, spingerei un po’ con la pornografia), i personaggi sono ben tagliati, drammatici. Forse un po’ trop ­pi, potremmo eliminarne due o tre, ma ci penseremo. Amle ­to va benissimo, potrei farlo io, Ofelia… chi ci vedi in Ofelia? Prendi un caffè? Due caffè! Io toglierei le tirate di quel Polonio, ridurrei un po’ il second’atto, darei per avve ­nuto l’arrivo dei comici e fa ­rei che la loro rappresentazio ­ne è un’orgia danese, un festi ­val pop. Anticiperei la carnefi ­cina finale. Non credi? Otti ­ma l’idea del duello, lo scam ­bio dei fioretti, mi piace che la regina si avveleni per sba ­glio, che il re venga fatto fuo ­ri, mi piace tutto. Ma taglierei, ripeto, qua e là, quei monologhi… per dare un po’ di spazio ad un’altra conclusione, che mi sembra più nostra, più italiana. Te le dico in po ­che parole, tu aggiusterai co ­me meglio credi: l’eredità. A chi spetta l’eredità di Amleto? Chi è morto prima? Il re, la regina, Amleto, Laerte? O si deve ammettere la commorien ­za? E l’eredità di Polonio a chi va? E quella di Ofelia? Chiarire, chiarire. Quel Fortebraccio deve passare anche lui i suoi guai con la legge e gli avvocati. La Danimarca, infi ­ne, di chi sarà? Quali sono i testamenti validi? In fondo, noi vogliamo che la tragedia non finisca per mancanza di personaggi, ma continui nelle conseguenze legali, nelle sot ­tigliezze giuridiche, nei cavil ­li, le perizie, i veri e i falsi testamenti. L’Italia è la patria del diritto. E il titolo? Io la ­scerei: ‘Amleto’, e sotto: ‘ Libidine e eredità nella cor ­te più licenziosa d’Europa, con Fortebraccio nell’imbaraz ­zo ‘. Che ne pensi? Passa do ­mani per il contratto ».

 

 


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Bart