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LETTERATURA: I MAESTRI: Un altro Giona

15 Luglio 2017

di Carlo Laurenzi
[dal “Corriere della Sera”, domenica 8 marzo 1970]

Poiché tutto era creduto, tutto era vero. Ciò che veniva proposto come favoloso e allegorico, anch’esso era vero, cioè verosimile. Pinocchio in ­ghiottito dal pescecane trovò, nella caverna del ventre, suo padre (che piuttosto era il suo creatore), e la salvezza. Nes ­sun mostro ci impauriva; la nostra infanzia â— come l’in ­fanzia della vita terrestre â— si è consumata in mare. Gio ­na il profeta fu inghiottito da « un gran pesce » per volontà dell’Eterno: questa non era una favola; erano le Scrittu ­re. E dal ventre del pesce, per tre giorni e tre notti, il pro ­feta levò gloria all’Eterno. « L’abisso mi avvolge, le ac ­que mi hanno attorniato fino all’anima ». Così, dopo tre giorni e tre notti, Giona fu vomitato all’asciutto. La sua strada, nei disegni dell’Eter ­no, era la predicazione, per la salvezza di Ninive.

I prodigi avvengono anco ­ra, ma non decifrabili: per questo li neghiamo. E’ un fat ­to, però, che il 22 febbraio 1970 a Pangkal Pinang in In ­donesia, quelle isole crudeli, certi pescatori sventrarono un mostro e dalle viscere appar ­ve, intero, un uomo. Non ave ­va perduto che le sue doti più effimere, la vita e la carne. Era uno scheletro intatto; e, nella poltiglia insanguinata, brillava.

*

Si tratta di un segno? Non dico un segno di collera: i teologi, se ci sono ancora teo ­logi tradizionali, sosterranno che fra le doti effimere dello sconosciuto la prima gli è sta ­ta mutata non tolta, e l’altra la sua carne, egli la riavrà Egli risorgerà. Il corpo di lui maciullato e digerito dal mo ­stro, acquisterà virtù inaltera ­bili, le dotes delle quali di ­scetta San Tommaso: sarà im ­mortale, integro, bello, impas ­sibile, chiaro, agile, sottile. (Il Catechismo Olandese, più in voga ai giorni nostri della Somma Teologica, esita di fronte a questo elenco di bea ­titudini: la resurrezione della carne, a giudizio degli olan ­desi, non riguarda il « nostro corpo biologico » ma « un cor ­po che vivrà nella nuova crea ­zione ». Anche per gli olan ­desi, comunque, lo scheletro di Pangkal Pinang si rivesti ­rà).

Quando mi chiedo se siamo di fronte a un segno, ecco il punto, penso che il prodigio di Pangkal Pinang potrebbe decifrarsi come simbolico. For ­se simbolico di un rifiuto, for ­se di un perdono. Non vorrei che « rifiuto » e « perdono » si connettessero fatalmente a un concetto di trascendenza; ritengo semmai che il prodi ­gio contenga la nascosta am ­monizione di un uomo agli uomini. Rimasti senza guida, dobbiamo noi giudicare noi stessi, temerci, compiangerci, assolverci. Lo scheletro intatto è un Giona che non ha lo ­dato l’Eterno perché lo ha smarrito: per questo, serban ­do l’armatura d’osso nelle vi ­scere del mostro marino, non ha serbato la vita. Giona so ­pravvisse (e fu vomitato al ­l’asciutto) perché « credeva »; ma credeva perché il suo com ­pito era la salvezza di Ninive. Oggi i confini di Ninive si di ­latano ai confini del mondo, e sappiamo che Ninive non si può salvare. Il peso della car ­ne ci schiaccia. E’ la nostra condanna; l’uomo di Pangkal Pinang, riemerso alla luce ma spoglio di tutta la propria car ­ne, allude forse a questo de ­creto; nel contraddirlo, lo svela.

Chi cerchi un appiglio scien ­tifico, sia pure molto labile pensi all’Inconscio Collettivo, se vuole. In una maniera o nell’altra, non sono capace di sottrarmi all’ammonizione in ­sita in questo sacrificio della carne, qualunque sia la con ­cretezza del monito. Non mi spingo neanche a discutere come peccato il Peccato della Carne; ho detto infatti Condanna, e ho parlato di Perdono. Alla fine, possiamo solo perdonarci l’un l’altro. Per me capii a fondo questa condanna e questa esigenza di perdono, a New York, in un inverno di solitudine.

New York è un po’ più Ninive di tutto il resto della terra. Avevo udito affermare che un uomo, intellettualmen ­te, non è completo se non ha vissuto da solo a New York. Può darsi. Non ci sono che case, uffici, negozi, automobi ­li, strade, luci al neon, la li ­nea stupenda e assurda dei grattacieli, clamori, o inquie ­ti silenzi. Le strade, che io mi ricordi, non hanno alberi: tut ­ti gli alberi, rossi nel bell’au ­tunno, sono confinati e dere ­litti nel parco. Mi esaltava e mi struggeva la dimensione totalmente urbana di New York: come chiunque, avendo dietro di me, in me, un en ­troterra d’erba, non sapevo, fisiologicamente, affrancarmi dalla nostalgia.

Il cielo era di un azzurrò di cristallo, algido; e i miei amici, senza mai volgere lo sguardo in alto, vantavano la mitezza dell’Estate Indiana. In venti giorni non vidi una nube nel grande specchio che il tramonto incupiva senza renderlo roseo. Poi vennero giorni di pioggia, poi giorni di tramontana. Ascoltavo jazz, accompagnatrici mi scortavano a teatro, pranzavo in comitive gaie: la mia esperienza culturale fu presumibilmente compiuta giacché ignoravo prima di allora che un uomo potesse sentirsi così solo. Ne ­gli antri (talmente convenzio ­nali) degli hipsters che fre ­quentavo la sera, c’erano, ad ­dossate alle pareti, tènere e sordide figure di donne. Altre donne, altrove, languidamente si spogliavano. A questo â— alla fissità e alla crudeltà del ­la carne â— domandavamo una stilla di misericordia.

*

Non nego che, a volte, sem ­bra che le nubi si squarcino e il castigo e il perdono ci vengano ancora dall’alto, co ­me al profeta: e che il riscat ­to di Ninive, preludio all’in ­staurarsi di un secolo senza fine, ci sia nuovamente pro ­posto. Darei tutto quello che ho, l’immensamente poco che sono, per un barlume di cer ­tezza. Per arrendermi a voci non soffocate del tutto: che importa se via via i pastori ci abbandonano? Se anch’essi re ­clamano il diletto (o la mise ­ricordia) della carne? Non ha detto proprio Dostoievskij: « Distruggeranno Dio sulla ter ­ra, noi lo ritroveremo nel sot ­tosuolo »?

Per un attimo, ma solo per un attimo, lo scheletro di Pangkal Pinang mi ha dato quel brivido di assoluto. Traman ­dano che Gesù, uscito con i discepoli da Gerusalemme, al tramonto, vide presso le mura la carogna quasi scheletrita di un cane, e sostò, sebbene i di ­scepoli lo esortassero a ripren ­dere il cammino. « Come puoi, Maestro, tollerare un fetore così orrendo? », chiedevano. Gesù restava in silenzio. Poi, a un tratto, chiese a sua vol ­ta: « Non vedete, uomini di poca fede, che i denti di que ­sto cane splendono come la grandine e i gigli? ».

Il poeta neo-greco Sikelianos, nei suoi anni tardi, invo ­cò in un’ode il Signore perché fosse concesso anche a lui, Sikelianos, di « cogliere nel fe ­tore della vita un segno bian ­co come grandine o come giglio, qualcosa che splenda a un tratto fuori della putredi ­ne, oltre la putredine, come ì denti del cane, riflesso del ­l’Eterno, duro lampo di spe ­ranza e giustizia ». Però que ­sta dei denti del cane è una falsa parabola; appartiene a un vangelo apocrifo.


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Bart