LETTERATURA: I MAESTRI: Un segno nel cielo18 Luglio 2017 di Carlo Laurenzi « Noi della razza di chi ri mane a terra », dice il poe ta. Dinanzi al dramma nello spazio, la nostra « terrestri tà » è schiacciante: alcuni la dimenticano nella preghiera. Sul piano letterario o fanta stico, ci soccorrono confronti illusori. Ovviamente, si pensa in primo luogo ai racconti o ai film di fantascienza; la fantascienza ha già ipotizzato molte tragedie di questo tipo, pionieri rapiti per sempre in orbite disumane. Altrettanto ovviamente, ci riassorbe il mito di Ulisse: non l’Ulisse dantesco (giacché qui, nell’avventura dell’Apollo 13, non c’è sfida), ma il vero e proprio Ulisse omerico, cui una potenza oscura o una condanna che sembrò ineso rabile vietava il ritorno. Nei tre uomini, di fronte alla pro va, rinascono la perseveranza di Ulisse, la fortezza, lo stesso calmo coraggio. Come Ulis se, i tre uomini torneranno. Così, fermissimamente, spe riamo. * A parte le evasioni libre sche, tuttavia, penso che la nostra terrestrità non debba essere subita come passiva, al la stregua di mera contempla zione, trepidazione, preghiera, speranza. In altre parole: la terrestrità ha i suoi doveri, giacché questo dramma nello spazio ci coinvolge tutti; an che se non tutti, credo, ne sia mo consapevoli. Tutti â— questo sì â— ne siamo turbati. Ma capiamo? Le reazioni sono per lo più sentimentali e superficiali. Cia scuno di noi ne avrà fatto esperienza; comunque la TV ha portato nelle nostre case i visi, e le voci (generalmen te romanesche) della gente in tervistata per le vie. Non uno che non si dichiarasse pen soso, quasi esclusivamente, delle mogli, dei figli, dei vec chi genitori: l’astronautica in pantofole, « Poverelli, poverel li… ». « Lei giudica che ab bia più importanza la Luna o la vita umana? ». « La vita umana, non c’è neanche da discuterne ». Senza dubbio. Però, non scordiamoci che per quei tre â— scientemente, di rei religiosamente â— la pro pria vita è meno importante della Luna. E quale impresa può giudicarsi grande se al suo esito e ai suoi rischi non si subordina l’attaccamento alla vita? Ora, io sono persuaso, o almeno mi auguro, che siano pochissimi i misantropi o gli antiamericani così cupi da rallegrarsi del « fallimento tecnico » di questa impresa spaziale; del resto, se il ritor no avverrà, non si vede nep pure come si potrebbe parlare di « fallimento tecnico », giac ché le tappe del progresso so no spesso contraddittorie e ogni insegnamento è prezioso. Ma non ci si possono nascon dere certi pericoli, inerenti non al significato dell’avventura bensì, appunto, alla fiacchez za della nostra condizione ter restre. E’ più che probabile una vampata, – o addirittura un’ondata di qualunquismo specifico: non tanto in Euro pa e nei paesi ostili all’Ame rica quanto nella stessa Ame rica, la cui forza di autocri tica â— per chi non conosca o non comprenda la democrazia americana â— può confondersi con l’autolesionismo. Immagi niamo facilmente la sequela delle accuse. Perché insistere nei programmi spaziali quan do urge risolvere il problema negro e quello dell’inquina mento atmosferico, e il terzo mondo ha fame, e le cose non vanno bene in Indocina, e monsignor Camara si lagna del latifondismo in Brasile, e via deplorando? Rendersi conto di questo perché, confutare queste de plorazioni significa assolvere ai doveri della nostra terrestrità e riscattarne l’inerzia. Viviamo in un mondo stupefacente e amaro insieme, esal tante e mortificante. Le sue contraddizioni lacerano ciascu no di noi. La tecnologia ci opprime, eppure racchiude ogni residua possibilità di salvezza. La connotazione e la vocazione di questo secolo, se nella sua positività, consistono in questo guardare in alto: la scienza apre agli uomini il cammino dell’esplorazione celeste; è dovere degli uomini non sottrarsi all’invito. Solo se si guarda in alto â— se si pro gredisce nell’esplorazione del cosmo â— è ormai lecito par lare di « uomini » anziché di « occidentali » e « orientali ». Ascoltando la sua vocazione celeste (in senso proprio e non traslato, infine) il mondo sce glierà la concordia, una via faticosa ma non preclusa. Ri fiutando questa vocazione, il mondo si perderà. Nessun problema, al di fuori della concordia, potrà essere radi calmente risolto. Il prepotere tecnologico ha generato una palude nella quale ci dibat tiamo; ma un’astronave nello spazio è uno di quei « segni che si vedono in cielo », un monito a credere in noi stessi. Da questo punto di vista, gli astronauti sono i migliori fra noi. Però, vengono da noi. Sono noi. * Qualcuno magari pretende rebbe che ogni volo spaziale fosse perfetto e quasi divino; nessuno si stupisce che una nave affondi, un aereo di linea precipiti, un’automobile cozzi contro un paracarro. A me invece (e a moltissi mi altri, ritengo) pare che se un’astronave si guasta e i pi loti tornano ad essere noc chieri in una navigazione de lirante e paziente, ciò costi tuisca un superamento e an che un potenziamento della scienza, creatura dell’uomo, ancella dell’uomo, banco di prova dell’uomo. Il pericolo â— sia che lo si domini, sia che ci sopraffaccia. â— conferisce alla scienza la sua dimensione umana (o umanistica); e del resto coloro che salgono sulle astronavi sanno di operare me no per sé che per quelli che verranno. In questa prospet tiva, nella quale il sacrificio è possibile, risiede persino un elemento di religiosità. La no stra epoca ha i suoi angeli; questi angeli sono mortali. Letto 1035 volte. Nessun commentoNo comments yet. 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