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LETTERATURA: I MAESTRI: Vani propositi

14 Settembre 2017

di Virgilio Lilli
[dal “Corriere della Sera”, venerdì 29 maggio 1970]

La morte è un vivaio di promesse. Dico la morte di chi amiamo. Essa produce propo ­siti come il prato di prima ­vera produce fiori. Sotto que ­sto aspetto essa si rivela a tutta prima come un fertiliz ­zante il quale, mentre contie ­ne una carica di veleno mor ­tale capace di cancellare dalla luce del sole la vita di ciò che prende di mira, agisce da ri ­generatore sul terreno circo ­stante.

Subito dopo la morte d’un nostro caro la nostra anima, fertilizzata dal dolore, diviene pregna come un podere appena seminato. Le lacerazioni che tutto il nostro organismo sen ­sibile ha subito sotto gli at ­triti della disperazione sono divenute solchi d’aratro: fe ­rite, ma allo stesso tempo hu ­mus generoso irrigato dalle lacrime che abbiamo versato. La nostra stessa mente ha preso la consistenza d’una ter ­ra molle, madida di succhi vi ­tali, e noi non ci stanchiamo di seminarvi a piene mani foraggi, frutta, fiori: il foraggio del ricordo, il frutto del pentimento, il fiore del culto.

Chi ci avvicina in quei momenti trova il nostro spirito di difficile accesso: la nostra stes ­sa ricchezza di pietas, di in ­tenzioni amorose, di vocazioni sacrificali costituisce per gli estranei un muro di cinta, pro ­prio come attorno a un vivaio di piante, isolato dal resto del ­la campagna. Alcune definitive espressioni dominano il nostro orizzonte emotivo con un vi ­gore che ci sottrae alle realtà del mondo di tutti i giorni: « Da oggi », « Per sempre », « Mai ». Sono i primi germo ­gli della semina che la morte ha operato nel nostro animo irrorato dal pianto.

*

« Da oggi vivrò con te », af ­ferma in noi con tutta la pe ­rentorietà dell’amore spezzato una voce che si illude di rag ­giungere la frontiera dell’aldilà. « Con te che sei un’ombra dell’inconoscibile. Non ci sarà giorno â— da oggi â— nel quale permetterò che tu esca dai con ­fini della mia intelligenza, del ­la mia dimestichezza, del mio rimpianto ». Afferma: « Da oggi ha inizio una seconda sta ­gione della mia esistenza, e si identifica con la tua morte. Da oggi io sarò la tua casa, abi ­terai in me. Da oggi ti leggerò come si legge un libro nel qua ­le non vi è traccia della parola fine. Da oggi e per sempre ».

« Per sempre, â— insiste quella voce. â— Sarà questo lo strumento che mi consentirà di trasformare la tua morte in una nascita, poiché sempre io la ricostruirò dentro gli am ­bulacri della mia fantasia, ti vedrò morire ogni giorno e se non altro per questo ogni gior ­no ti vedrò rinascere. Per sem ­pre, e cioè finché sarò in vita io, sarai in vita tu: io diverrò il tuo involucro vitale come se avessi operato un trapianto del ‘te’ nel ‘me’. Avrai i miei occhi per vedere, la mia bocca per parlare, i miei orecchi per udire. Perché per sempre io guarderò il mondo anche con i tuoi occhi, come lo guardavi tu. E pronuncerò anche le tue parole formulandole sui tuoi pensieri che ricreerò in me devotamente. E ascolterò il suono del creato e dei suoi abitatori, un poco ogni giorno, come lo ascoltavi tu, sostituendo ai miei interessi, un poco ogni giorno ripeto, i tuoi. Mi presterò a te, sia pure un at ­timo di ogni ora, perché abi ­tando me tu abiti questa ter ­ra. E mai cesserà il da oggi, mai cesserà il per sempre ».

Anche il « mai », dunque, trova nella chimica del dolore messo in moto dalla morte una manipolazione che da negativa ne rende positiva l’essenza trasformandola in una affermazione incisiva quanto appas ­sionata. Atterrito dalla violenza del « no » che la morte so ­la è capace di imporre alla vita, il nostro umore reagisce tentando di creare a sua volta una sua eternità mentale e sen ­timentale affidata alla energia soggettiva della evocazione. In queste condizioni, la memoria diviene il nostro Dio e allo stesso momento la nostra spa ­da, ci abbandoniamo alle sue possibilità di rigenerazione del passato con la fede del cre ­dente e ce ne serviamo col coraggio del combattente. La contrada nella quale essa ci insedia è il ricordo, un gigan ­tesco archivio dal quale pre ­leviamo le schede che ci per ­mettano di mettere insieme una monografia biografica il più possibile approssimata al ­la realtà di colui (o di colei) del quale la biografia è ormai un ponte crollato. Ci accingia ­mo, in nome della memoria, a intrecciare coi fili dello ieri un tessuto che ci offra un oggi (sia pure più simile a un iner ­te arazzo che a un vivo pae ­saggio) .

*

« Da oggi », « Per sempre », « Mai ». Chi di noi non ha formulato almeno una volta nella vita, col fazzoletto fra ­dicio di pianto premuto con ­tro la bocca che trema, queste promesse che in quei convulsi momenti ci sono sembrate pe ­netrare nell’animo dallo zenith della ragione e non dall’occi ­dente della emozione? Chi di noi, dico, il quale abbia visto la morte varcare la porta della propria casa, o della casa di un amico, non ha giurato a se stesso di fare un reliquiario di quanto chi non è più ha lasciato sulla terra? Conserva ­re perfino i suoi abiti, perfino le sue scarpe, i suoi scialli, le sue cravatte; catalogare i suoi libri, le sue lettere, le sue fo ­tografie. Fare della sua stanza un piccolo santuario, del suo letto un piccolo altare.

Chi di noi, nella solitudine instaurata dal « dopo » non ha meditato di inserire la vita di colui (o colei) che, caro al suo cuore, è emigrato di là, di inserirla nella vita dei propri amici, nel circuito dei propri interessi, nell’alone delle pro ­prie speranze? Chi non ha det ­to a se stesso con fermezza: « Raccoglierò le sue carte… Riordinerò i suoi appunti… Completerò la sua opera inter ­rotta… Pubblicherò i suoi scrit ­ti… Propagherò le sue idee… Incontrerò i suoi conoscenti… Visiterò i paesi ove ha vissuto… Cercherò le testimonianze di quel che ha fatto… Scoprirò i programmi che non ha po ­tuto realizzare… Sarò il suo storico, sarò il suo editore, sarò il suo pubblico ». « Da oggi », un « per sempre », senza « mai » arrestarmi.

C’è questo pungolo, da par ­te della morte, poco dopo il suo passaggio demolitore sul cammino della nostra avven ­tura terrena, questo pungolo che spinge tutto il nostro es ­sere alla disperata lotta per il recupero di chi è stato stac ­cato dall’albero dell’esistenza giusto come un ramo spezzato dal ciclone. C’è questo scatto dentro il vento del dolore alla rincorsa di « una cosa » che ci è stata strappata di dosso o dalle dita e che rotola via, proprio come dietro a un cappello, a un giornale, a un bi ­glietto di teatro. (E poi quel fermarsi vinti, la «cosa » è lontanissima, non si distingue più, è perduta, andata dal ­l’altra parte del fiume, o nel ­l’oceano).

E’ proprio questo affronto; da parte dell’indefinibile e dell’irrazionale a sollecitare il no ­stro ardore combattivo per la sopravvivenza di colui (o co ­lei) del quale qualcuno ha de ­cretato la fine. E si trasforma in un invito alla ricreazione della vita su un piano imma ­ginario che ci sembra possa essere anche più vitale della realtà, perché nessun colpo mortale potrà più essere infer ­to alla sua essenza, che è solo ideale.

C’è questa spinta; ma non è che una transitoria, fragile illusione. Non è che una vibrazione dei nostri nervi per lo strappo del dolore, precisa ­mente come fossero le corde di uno strumento musicale strappate dalle dita rabbiose di uno sconosciuto.

*

Recupero di una vita spen ­ta mediante il raddoppio della nostra personalità con l’acqui ­sizione della personalità di chi semplicemente ha finito di esi ­stere? Erezione di un mauso ­leo delle memorie nel muro di cinta della nostra tristezza, per il rimodellamento impossibile d’un bene ormai naufragato? Dedizione della nostra realtà a una irrealtà piena d’ombre e di enigmi, ormai più lontana da noi di una stella? Vani pro ­positi. Scintille generate da uno stato d’animo rosso come un ferro rovente, il quale via via fatalmente si raffredda fino a divenire di gelo. Finché una voce che vorremmo non udire, che vorremmo soffocare, non comincia a sussurrarci all’orec ­chio dell’anima: « Il da oggi è finito, il per sempre è finito, il mai s’è rovesciato ».

Questa voce non amabile, che riteniamo addirittura in ­giuriosa, ci desta da un sogno che fino a quel momento ab ­biamo ritenuto la più vera del ­le verità da noi sperimentate: essa ci informa che quelle let ­tere, quegli abiti, quelle opere, quelle fotografie, quelle paro ­le dette e non dette, sono an ­che per noi divenute foglie secche; il santuario che vole ­vamo erigere â— ci dice la non amabile voce â— è crollato pri ­ma di nascere, e l’altare che volevamo elevare s’è dissolto prima di prendere forma. Il mondo â— continua la voce nel suo tono ingiurioso ma irre ­parabile â— lo guardiamo solo con gli occhi nostri, e le sue voci le ascoltiamo solo con i nostri orecchi, mentre le no ­stre labbra pronunciano solo le nostre parole.

Vani propositi; la cui vanità di chi sovrappone alla cicatrice d’una ferita ormai sclerotizzata e, ahimè, pressoché insensibile l’avvilimento della nostra impotenza. Una vanità che ci àncora più strettamente alla terra e ci rende più remoto il cielo.


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Bart