LETTERATURA: I MAESTRI: Vani propositi14 Settembre 2017 di Virgilio Lilli La morte è un vivaio di promesse. Dico la morte di chi amiamo. Essa produce propo siti come il prato di prima vera produce fiori. Sotto que sto aspetto essa si rivela a tutta prima come un fertiliz zante il quale, mentre contie ne una carica di veleno mor tale capace di cancellare dalla luce del sole la vita di ciò che prende di mira, agisce da ri generatore sul terreno circo stante. Subito dopo la morte d’un nostro caro la nostra anima, fertilizzata dal dolore, diviene pregna come un podere appena seminato. Le lacerazioni che tutto il nostro organismo sen sibile ha subito sotto gli at triti della disperazione sono divenute solchi d’aratro: fe rite, ma allo stesso tempo hu mus generoso irrigato dalle lacrime che abbiamo versato. La nostra stessa mente ha preso la consistenza d’una ter ra molle, madida di succhi vi tali, e noi non ci stanchiamo di seminarvi a piene mani foraggi, frutta, fiori: il foraggio del ricordo, il frutto del pentimento, il fiore del culto. Chi ci avvicina in quei momenti trova il nostro spirito di difficile accesso: la nostra stes sa ricchezza di pietas, di in tenzioni amorose, di vocazioni sacrificali costituisce per gli estranei un muro di cinta, pro prio come attorno a un vivaio di piante, isolato dal resto del la campagna. Alcune definitive espressioni dominano il nostro orizzonte emotivo con un vi gore che ci sottrae alle realtà del mondo di tutti i giorni: « Da oggi », « Per sempre », « Mai ». Sono i primi germo gli della semina che la morte ha operato nel nostro animo irrorato dal pianto. * « Da oggi vivrò con te », af ferma in noi con tutta la pe rentorietà dell’amore spezzato una voce che si illude di rag giungere la frontiera dell’aldilà. « Con te che sei un’ombra dell’inconoscibile. Non ci sarà giorno â— da oggi â— nel quale permetterò che tu esca dai con fini della mia intelligenza, del la mia dimestichezza, del mio rimpianto ». Afferma: « Da oggi ha inizio una seconda sta gione della mia esistenza, e si identifica con la tua morte. Da oggi io sarò la tua casa, abi terai in me. Da oggi ti leggerò come si legge un libro nel qua le non vi è traccia della parola fine. Da oggi e per sempre ». « Per sempre, â— insiste quella voce. â— Sarà questo lo strumento che mi consentirà di trasformare la tua morte in una nascita, poiché sempre io la ricostruirò dentro gli am bulacri della mia fantasia, ti vedrò morire ogni giorno e se non altro per questo ogni gior no ti vedrò rinascere. Per sem pre, e cioè finché sarò in vita io, sarai in vita tu: io diverrò il tuo involucro vitale come se avessi operato un trapianto del ‘te’ nel ‘me’. Avrai i miei occhi per vedere, la mia bocca per parlare, i miei orecchi per udire. Perché per sempre io guarderò il mondo anche con i tuoi occhi, come lo guardavi tu. E pronuncerò anche le tue parole formulandole sui tuoi pensieri che ricreerò in me devotamente. E ascolterò il suono del creato e dei suoi abitatori, un poco ogni giorno, come lo ascoltavi tu, sostituendo ai miei interessi, un poco ogni giorno ripeto, i tuoi. Mi presterò a te, sia pure un at timo di ogni ora, perché abi tando me tu abiti questa ter ra. E mai cesserà il da oggi, mai cesserà il per sempre ». Anche il « mai », dunque, trova nella chimica del dolore messo in moto dalla morte una manipolazione che da negativa ne rende positiva l’essenza trasformandola in una affermazione incisiva quanto appas sionata. Atterrito dalla violenza del « no » che la morte so la è capace di imporre alla vita, il nostro umore reagisce tentando di creare a sua volta una sua eternità mentale e sen timentale affidata alla energia soggettiva della evocazione. In queste condizioni, la memoria diviene il nostro Dio e allo stesso momento la nostra spa da, ci abbandoniamo alle sue possibilità di rigenerazione del passato con la fede del cre dente e ce ne serviamo col coraggio del combattente. La contrada nella quale essa ci insedia è il ricordo, un gigan tesco archivio dal quale pre leviamo le schede che ci per mettano di mettere insieme una monografia biografica il più possibile approssimata al la realtà di colui (o di colei) del quale la biografia è ormai un ponte crollato. Ci accingia mo, in nome della memoria, a intrecciare coi fili dello ieri un tessuto che ci offra un oggi (sia pure più simile a un iner te arazzo che a un vivo pae saggio) . * « Da oggi », « Per sempre », « Mai ». Chi di noi non ha formulato almeno una volta nella vita, col fazzoletto fra dicio di pianto premuto con tro la bocca che trema, queste promesse che in quei convulsi momenti ci sono sembrate pe netrare nell’animo dallo zenith della ragione e non dall’occi dente della emozione? Chi di noi, dico, il quale abbia visto la morte varcare la porta della propria casa, o della casa di un amico, non ha giurato a se stesso di fare un reliquiario di quanto chi non è più ha lasciato sulla terra? Conserva re perfino i suoi abiti, perfino le sue scarpe, i suoi scialli, le sue cravatte; catalogare i suoi libri, le sue lettere, le sue fo tografie. Fare della sua stanza un piccolo santuario, del suo letto un piccolo altare. Chi di noi, nella solitudine instaurata dal « dopo » non ha meditato di inserire la vita di colui (o colei) che, caro al suo cuore, è emigrato di là, di inserirla nella vita dei propri amici, nel circuito dei propri interessi, nell’alone delle pro prie speranze? Chi non ha det to a se stesso con fermezza: « Raccoglierò le sue carte… Riordinerò i suoi appunti… Completerò la sua opera inter rotta… Pubblicherò i suoi scrit ti… Propagherò le sue idee… Incontrerò i suoi conoscenti… Visiterò i paesi ove ha vissuto… Cercherò le testimonianze di quel che ha fatto… Scoprirò i programmi che non ha po tuto realizzare… Sarò il suo storico, sarò il suo editore, sarò il suo pubblico ». « Da oggi », un « per sempre », senza « mai » arrestarmi. C’è questo pungolo, da par te della morte, poco dopo il suo passaggio demolitore sul cammino della nostra avven tura terrena, questo pungolo che spinge tutto il nostro es sere alla disperata lotta per il recupero di chi è stato stac cato dall’albero dell’esistenza giusto come un ramo spezzato dal ciclone. C’è questo scatto dentro il vento del dolore alla rincorsa di « una cosa » che ci è stata strappata di dosso o dalle dita e che rotola via, proprio come dietro a un cappello, a un giornale, a un bi glietto di teatro. (E poi quel fermarsi vinti, la «cosa » è lontanissima, non si distingue più, è perduta, andata dal l’altra parte del fiume, o nel l’oceano). E’ proprio questo affronto; da parte dell’indefinibile e dell’irrazionale a sollecitare il no stro ardore combattivo per la sopravvivenza di colui (o co lei) del quale qualcuno ha de cretato la fine. E si trasforma in un invito alla ricreazione della vita su un piano imma ginario che ci sembra possa essere anche più vitale della realtà, perché nessun colpo mortale potrà più essere infer to alla sua essenza, che è solo ideale. C’è questa spinta; ma non è che una transitoria, fragile illusione. Non è che una vibrazione dei nostri nervi per lo strappo del dolore, precisa mente come fossero le corde di uno strumento musicale strappate dalle dita rabbiose di uno sconosciuto. * Recupero di una vita spen ta mediante il raddoppio della nostra personalità con l’acqui sizione della personalità di chi semplicemente ha finito di esi stere? Erezione di un mauso leo delle memorie nel muro di cinta della nostra tristezza, per il rimodellamento impossibile d’un bene ormai naufragato? Dedizione della nostra realtà a una irrealtà piena d’ombre e di enigmi, ormai più lontana da noi di una stella? Vani pro positi. Scintille generate da uno stato d’animo rosso come un ferro rovente, il quale via via fatalmente si raffredda fino a divenire di gelo. Finché una voce che vorremmo non udire, che vorremmo soffocare, non comincia a sussurrarci all’orec chio dell’anima: « Il da oggi è finito, il per sempre è finito, il mai s’è rovesciato ». Questa voce non amabile, che riteniamo addirittura in giuriosa, ci desta da un sogno che fino a quel momento ab biamo ritenuto la più vera del le verità da noi sperimentate: essa ci informa che quelle let tere, quegli abiti, quelle opere, quelle fotografie, quelle paro le dette e non dette, sono an che per noi divenute foglie secche; il santuario che vole vamo erigere â— ci dice la non amabile voce â— è crollato pri ma di nascere, e l’altare che volevamo elevare s’è dissolto prima di prendere forma. Il mondo â— continua la voce nel suo tono ingiurioso ma irre parabile â— lo guardiamo solo con gli occhi nostri, e le sue voci le ascoltiamo solo con i nostri orecchi, mentre le no stre labbra pronunciano solo le nostre parole. Vani propositi; la cui vanità di chi sovrappone alla cicatrice d’una ferita ormai sclerotizzata e, ahimè, pressoché insensibile l’avvilimento della nostra impotenza. Una vanità che ci àncora più strettamente alla terra e ci rende più remoto il cielo. Letto 1354 volte. Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||