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LETTERATURA: TEATRO: I MAESTRI: Wilder. Le regole di un vecchio gioco

10 Marzo 2016

di Claudio Gorlier
[da “La fiera letteraria”, numero 1, giovedì, 4 gennaio 1968]

THORNTON WILDER
L’ottavo giorno
Garzanti, pagine 375, lire 2500.

Vi sono scrittori che acquistano una loro tranquilla e stabile notorietà che coincide con l’abitudine di incontrarli a periodi fissi, proprio come capita a certe statue collocate nei parchi pub ­blici e di cui nessuno si domanda mai quanto esattamente valgano. La loro stabilità viene assunta quale istitu ­zione, e si perpetua con la regolarità piacevole degli utili di un pacco di obbligazioni tenute in banca. E’ stato così, mi sembra, per Thornton Wilder.

Il teatro di Wilder ha incontrato un favore considerevole negli Anni Qua ­ranta, dapprima presentandosi secon ­do una dubbia angolatura sperimen ­tale, poi, man mano che si accentua ­vano al suo interno le riaffermazioni tra patetico e volontaristico, prenden ­do un posto per così dire ufficiale nei repertori, compresi quelli di compa ­gnie americane itineranti in Europa e altrove, ovviamente finanziate da enti governativi o a essi vicini. La curio ­sa e astuta commistione di cecovismo (l’ingrediente fondamentale per de ­cenni nel teatro americano, sino al ­meno a Tennessee Williams) e pirandellismo, adagiata sul gusto per il ri ­tratto della provincia, funzionò e per molti versi funziona ancora, senza che si possa mai stabilire fino a che pun ­to gioca nel successo l’ingrediente, la trovata, il moralismo appena dissi ­mulato, o semplicemente l’accortezza divulgativa che stempera la tensione ed evita alternative troppo brusche. Critici di qualche impegno hanno scritto pagine sull’uso originale della dimensione temporale, quasi che Wil ­der non fosse in realtà, un estremo discepolo di Bergson.

Anche il romanzo più noto e più diffuso di Wilder, Il ponte di San Luis Rey, si fonda su una tecnica affine a quella del teatro, su un’idea accor ­tamente sviluppata per preparare la indagine fortemente paradigmatica del destino umano, con l’aggiunta di quel tanto dì esotico che ancora cir ­conda l’ambiente del Sud America. A questo suo repertorio Wilder si attie ­ne anche nel romanzo più recente, L’ottavo giorno, che naturalmente, co ­me tutti i prodotti di una certa ambi ­zione e di buona confezione, ha subi ­to raggiunto la lista dei best-sellers. La spiegazione della favola, posta dall’au ­tore al termine del libro per chi con ­servasse ancora qualche dubbio in me ­rito al suo significato, parla dell’esi ­stenza umana da considerarsi simile a un grande arazzo: « La storia è un unico arazzo… Si parla molto del di ­segno dell’arazzo. Alcuni sono sicuri di vederlo. Alcuni vedono ciò che è stato detto loro di vedere. Alcuni ri ­cordano di averlo scorto una volta ma l’hanno dimenticato. Alcuni traggono forza dal vedere un disegno in cui gli oppressi e gli sfruttati a poco a poco si svincolano dalla loro schiavitù. Al ­cuni trovano forza nella convinzio ­ne che non ci sia nulla da vedere ». L’idea non è per nulla peregrina, e rimanda, superficialmente, al « dise ­gno nel tappeto » di Henry James; senonché là si trattava della formula ­zione â— sia pure per vie negative e indirette â— di una poetica, della teo ­rizzazione del romanzo « oggettivo » e necessariamente ambiguo, che valeva per James e per molta parte della narrativa del Novecento. Qui, invece, la spiegazione risulta piuttosto didat ­tica e corrente; difatti, l’arazzo si de ­finisce gradualmente con molta pre ­cisione, e rimane arduo sottrarsi al ­l’impressione che Wilder ne tessa i fili attentamente, perché il disegno si possa, in definitiva, cogliere.

Il ponte, cioè l’elemento connettivo utilizzato in passato da Wilder, viene sostituito qui da un delitto misterioso. Un ingegnere minerario, John Ashley, avrebbe ucciso in una cittadina dell’Illinois il migliore amico durante una esercitazione di tiro a segno, e l’avrebbe fatto deliberatamente per sbarazzarsi di lui in quanto aveva una relazione con la moglie. Processato, condannato a morte senza che si sia praticamente difeso, viene liberato da un gruppo di individui misteriosi e, incredibilmente, disarmati, durante il viaggio verso un penitenziario dove l’attende l’esecuzione capitale. L’auto ­re può dunque sbizzarrirsi ora a inda ­gare la vita intima della vedova e dei figli di Ashley, ma anche di Eustace Lansing, moglie dell’ucciso, e dei suoi figli, andando avanti e indietro nel tempo e contrapponendo il presente al passato. Ashley fugge (ecco nuova ­mente l’America spagnola) in Cile, inutilmente braccato; a Coaltown, la cittadina dove viveva, la sua famiglia e quella dei Lansing si trova costret ­ta a una serie di difficili decisioni che corrispondono almeno in parte a un riesame, volontario o meno, della pro ­pria condizione umana, a un bilancio reticente ma indispensabile.

I fili dell’arazzo vengono qui in lu ­ce e tradiscono, tra l’altro, una certa usura. Siamo infatti alla ripresa di materiali non insoliti nella narrativa americana del secondo Ottocento e del primo Novecento. Intanto, abbiamo il quadro della provincia, seguito all’in ­terno, e l’itinerario del giovane privo di mezzi ma intraprendente, autodi ­datta, irrequieto (il figlio di Ashley) che si trasferisce nella grande città â— Chicago â— per affermarsi, e natu ­ralmente ci riesce, diventando un giornalista di fama. Non manca il vec ­chio medico saggio e debitamente scet ­tico a Coaltown, o lo strenuo e incor ­rotto anarchico a Chicago. La vedova Lansing è una creola, con le caratte ­ristiche di disponibilità per gli affet ­ti e di morbida inquietudine che una simile qualificazione comporta. L’elen ­co potrebbe continuare a lungo.

Dicevamo prima che la storia del delitto e della condanna di un innocente appare, quasi dichiaratamente, un pretesto. Vale la pena di osserva ­re che il personaggio di John Ashley finisce per essere abbandonato e posto in secondo piano, anche se da lui co ­mincia il processo di sgretolamento che in sostanza rimane, anche se allo stato di intenzione, il pregio principa ­le del libro. La provvidenza di Wil ­der, difatti, si presenta ambiguamente e con un’immagine bifronte: essa agi ­sce imprevedibilmente quanto impre ­vedibili sono gli individui; nessuno dei personaggi, salvo forse la vecchia emigrata russa insediatasi a Coaltown ma rimasta idealmente nella terra di origine, e quindi sufficientemente for ­te per difendersi dai veleni del nuovo Paese, approda mai a una autentica definizione di sé, a una identificazio ­ne coerente. Tutti sono esposti al compromesso, all’incertezza, e conti ­nuamente alle soglie del fallimento. Non a caso del figlio del figlio di Ash ­ley, appena un ragazzo, sappiamo, con una anticipazione senza seguito, che si autodistruggerà, coinvolgendo gli stessi genitori. E soprattutto ogni pre ­messa che riguarda i protagonisti pos ­siede una sua fatale fragilità; ognu ­na delle scelte che essi hanno com ­piuto si rivela affrettata, superficiale quando non addirittura gratuita.

Ma l’ambiguità che dovrebbe sostan ­ziare il libro non si realizza né si definisce mai compiutamente. Se è ve ­ro che Wilder offre una morale poli ­valente ed elusiva, egli ha l’aria di preoccuparsi di continuo di chiarire che una conclusione si può trarre, a patto di seguire correttamente le sue istruzioni; che la fedeltà a valori asso ­luti consente una salvezza, sí³lo che la si cerchi. La visione di Wilder, ove si superi il suo giocare a rimpiattino col lettore, si identifica curiosamente con quella di un tardo vittoriano che abbia subito una crisi religiosa, senza prendere con questo la sua innata pruderie. Una simile disposizione fi ­nisce per trasferirsi allora nelle strut ­ture del romanzo, che è di impianto rigidamente tradizionale e rammenta le maestose costruzioni della narrati ­va alla Thackeray o, in qualche mi ­sura, alla Dickens, ma senza lievità e senza ironia. Le apparizioni dello scrittore sono frequenti e insistite; egli interviene spesso per rimettere le cose a posto, per esprimere un giudi ­zio generalmente paternalistico, per richiamare all’ordine il lettore. Sono le regole di un vecchio gioco, come si sa; Wilder rientra legittimamente nella categoria del romanziere-Dio di cui parlava trent’anni or sono Jean Paul Sartre, lamentando che purtrop ­po Dio non è un buon romanziere.


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