LETTERATURA: Intervista a Paolo Agaraff21 Novembre 2007 di Giuseppe D’Emilio e Arturo Fabra La letteratura e il cinema di genere (fantasy, fantascienza, poliziesco ecc.) sono spesso considerati arte “di serie B”, non solo da critici “ufficiali”, ma anche da una parte del pubblico, forse quello più snob. Il protagonista del romanzo è un vecchio diario impolverato, dalla copertina nera, rigida, con la pelle segnata dalle mani che lo hanno scritto e sfogliato. [D] In questo nuovo romanzo, i “Dieci piccoli Indiani” di Agatha Christie incontrano gli Abitatori del Profondo di Lovecraft; anche nel primo (“Le rane di Ko Samui”), c’erano mostri lovecraftiani; dunque, un filo conduttore c’è, ma come mai un cambiamento così deciso di tipologia di vicenda narrata? [R] In realtà è un ritorno alle origini. “Il sangue non è acqua” è nato nel 1993, come trama per uno scenario de “Il richiamo di Cthulhu”. Sin da allora accarezzavamo l’idea di trarne un romanzo, ma il progetto era talmente impegnativo che l’abbiamo rimandato per dieci anni. Nel 2003, dopo la pubblicazione de “Le rane di Ko Samui”, abbiamo proposto ad Antonio Rizzo della PeQuod vari progetti. Alcuni erano nel segno della continuità : prequel o sequel della vicenda tailandese dei tre vecchiacci protagonisti del romanzo. Tra i vari progetti, però, c’era anche “Il sangue non è acqua”: l’editore ha apprezzato la complessità della trama e i vari livelli narrativi… così abbiamo intrapreso questa nuova avventura. [D] I tre vecchiacci del precedente romanzo breve non sono personaggi occasionali, dunque, ma destinati a farsi rivedere? I tre vecchi cinici, così distanti dalle figure tradizionali dei protagonisti dell’horror, sono personaggi troppo ghiotti per abbandonarli in Tailandia. Tre protagonisti che guardano il mondo con l’occhio disincantato di chi ha visto tutto, di chi pensa che gli orrori quotidiani non siano meno assurdi dei mucillaginosi esseri lovecraftiani. [D] La vostra non è certo l’unica esperienza di scrittura a più mani; pensiamo, ad esempio, ai Wu Ming o alla Babette Factory; perché, secondo voi, si stanno moltiplicando queste “gestalt” di scrittori? [R] Crediamo che la principale barriera alla scrittura a più mani sia sempre stata la scarsità di strumenti per affrontare il procedimento da un punto di vista pratico. È già difficile l’impresa di mettere in sintonia su una stessa storia cervelli di più persone; coordinare poi un’attività di questo genere senza Internet, posta elettronica e sistemi evoluti di videoscrittura diventa praticamente impossibile. L’ampia diffusione di questi strumenti informatici, probabilmente, è stato il catalizzatore della nascita di buona parte dei nuovi gruppi di scrittura. [D] Diciamo che fate del brainstorming il punto centrale della vostra esperienza; ma siete in contatto solo via Internet oppure… [R] Internet non basta. Anche se, per motivi di lavoro, attualmente abitiamo in città diverse, i momenti mitopoietico-etilici degli incontri fisici sono essenziali, sia per definire le prime bozze dei progetti, sia per verificarne lo stato di avanzamento. Le idee migliori nascono sempre quando siamo riuniti tutti insieme, quando si chiacchiera, davanti a un buon bicchiere di grappa o di whiskey. L’unico problema è scrivere subito tutto quel che passa per la mente… altrimenti questi pensieri andranno perduti come lacrime di distillato nella pioggia… [D] Che tipo di tecnica adottate nello specifico della stesura? Ognuno gestisce un personaggio, oppure… [R] Il procedimento è abbastanza anarchico, ma segue una “logica” precisa. Innanzitutto concordiamo un canovaccio ragionevolmente stabile, capitolo per capitolo, e cerchiamo di definire nei dettagli l’ambientazione, rovistando in librerie polverose e navigando su Internet. Per quanto riguarda i personaggi, protagonisti e comprimari, prepariamo schede descrittive simili a quelle che usano i giocatori di ruolo. Dettagliamo tutto per ottenere coerenza e introdurre sottotrame che spingano i personaggi ad agire, piuttosto che a subire passivamente la propria sorte, trascinati dagli eventi. [D] Insomma, la posse va allargandosi, più o meno come un gruppo di giocatori di ruolo; o sbagliamo? [D] Non sbagliate. Il paragone è abbastanza azzeccato. Alcuni anni fa, infatti, è nata “Carboneria”, una mailing-list che raccoglie autori di varie regioni italiane, interessati al fantastico, al grottesco, alla narrativa “di confine”. Un melange tra noir, horror, fantasy e fantascienza. Un punto d’incontro in cui commentare e criticare i rispettivi racconti e romanzi, e ragionare su progetti comuni. Una specie di “Castello dei cavalieri cosmonauti mannari”, un luogo virtuale in cui scambiare idee. “Carboneria” ha finito per generare un’antologia di racconti che è stata recentemente (novembre 2007) pubblicata dall’editore Cento Autori, oltre ad un altro autore multiplo, Pelagio D’Afro, che ha preso in carico proprio il progetto del prequel de “Le rane di Ko Samui” di cui parlavamo prima. Ma, del resto, nella “Carboneria”,  ci siete anche voi due bravi intervistatori… [D] Già , non potevamo sbagliare… [R] Un libro e una sessione di gioco di ruolo possono essere considerate forme differenti della stessa storia, quello che cambia è solo il modo di raccontarla. Nel caso del libro, è il narratore che si fa al contempo regista e interprete: prevale la forma scritta, un monologo che guida il lettore attraverso le vicende narrate. Nel caso del gioco, invece, sono i giocatori a costruire sulla base del canovaccio la propria storia, tutti insieme. Un giocoruolista e uno scrittore hanno, in fondo, un’analoga genesi: sono entrambi dei cantastorie. Questa intervista, presente anche nella sezione di Liber Liber dedicata alla scuola, è stata pubblicata sul “Falco letterario” anno XXV, n. 1, Edizioni Artemisia APPROFONDIMENTI Letto 1941 volte.  Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||