di Gian Gabriele Benedetti

[Oltre a numerosi libri di poesia, ha pubblicato la raccolta di racconti “Paese”, Lalli Editore, 1986]

 
Stanco, il soldato, sfuggito alla disfatta, si fermò sulla collina a due passi da casa. In fondo il paese, raccolto e accoccolato alla pendice, era lì ad attenderlo. Il sole, al tramonto, mandava lampi rossastri dai vetri e allungava le ombre precoci.
                      Aveva camminato giorni interi per terre sconosciute; aveva attraversato valli oscure e scavalcato monti alti quanto il cielo. Portava con sé l’ansia soffocante del ritorno e l’eco malvagia della guerra col suo rosario interminato di rovina e di morte. Aveva le vesti logore e strappate, le scarpe consumate e rotte, gli occhi tristi come laghi d’inverno e il cuore gonfio.
                      Aveva sparato e ucciso. Così gli avevano ordinato di fare, ma non sapeva il perché. Aveva ucciso giovani come lui, ai quali aveva tolto le ali per il volo della vita. Aveva ucciso dei suoi simili che non avrebbero più fatto ritorno agli odori buoni ed agli affetti delle case, ora smarrite di dolore. Era passato come un automa sopra corpi straziati dai volti cerei, rappresi, dove il sangue pareva aver giocato con beffarde fioriture di rubino; aveva visto sguardi sbarrati simili ad estreme patene di terrore; era stato dilaniato dentro dalle grida laceranti e dai lamenti pietosi dei feriti, e quelle grida e quei lamenti lo perseguitavano ogni momento e lo facevano impazzire. Perché, poi si domandava, lui era stato preservato? Sapeva di aver giocato pesantemente col destino, ed aveva vinto. E così ritornava, lui fortunato, anche se non da eroe. Ritornava, ma aveva l’animo avvilito, piagato, offeso, umiliato, e l’angoscia più profonda lo invadeva.
                      Aveva mille e mille volte sognato questo momento, che temeva non venisse mai, eppure, ora, non provava appieno quella gioia e quell’ebbrezza immaginate nei lunghi anni della guerra e che lo avevano portato a sopravvivere. Era sopraffatto inesorabilmente, oltre che dalle immani sofferenze, oltre che dalle paure, oltre che dalle atrocità cucite nella pelle, da dubbi pesanti, da pensieri di polvere, da sconforto desolante, da incertezze infinite, che lo ferivano come artigli aguzzi addosso.
                      In quell’inferno aveva lasciato tutta la sua gioventù e si sentiva come un vecchio tronco ferito, senza più entusiasmo per l’avvenire. Era spogliato d’ogni scopo e senso. Avvertiva maledettamente il vuoto dentro e intorno a sé e mai come in quel momento si sentì solo, solo col suo fardello di afflizione e di travaglio.
                      La sera, intanto, progredita con passi felpati, si apprestava ad offuscare il pudore delle cose. Il paese, sfumata la carezza rosa dell’ultimo sole, s’era fatto macchia scura, indistinta. Qualche rara finestra cominciava ad accendersi di lumi fiochi. Il bosco lontano, sul declivio opposto, vaporava l’estremo gemito compatto di colore e s’acquattava sonnolento nel primo buio e nel linguaggio del suo mistero. Nella filigrana ormai sbiadita dei prati, al calare deciso dell’ombre, prese a dilatarsi la nenia dei grilli, che ruppe il gocciolio denso del silenzio. Si svegliò improvvisa anche la brezza col suo tremore carezzevole di mani non viste. Il quarzo acceso della luna non tardò a spuntare dal davanzale nero dei monti: tinse subito di bianco le case e ricamò angoli segreti con fili d’oro pallido. Vibrò imprevista la campana grossa dal vecchio campanile a ricordare l’Ave Maria. E quel suono largo e dolce ondeggiò tardo e si sparse nell’aria inquieta fino a stamparsi nel cuore del soldato.
                      Uno struggimento sconfinato lo afferrò e gli serrò la gola. Il pianto dirotto e caldo lo vinse. Si portò le mani al viso e si coprì gli occhi, ché nessuno vedesse le sue lacrime, neppure la notte. Pianse a lungo sconsolato. Quando si riprese, lo sguardo umido gli mostrò ai suoi piedi il paese ammorbidito di luna. E solo allora capì che il peggio se n’era andato, che tutto era finito per davvero e che tutto, forse, poteva ricominciare daccapo.

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