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LETTERATURA: INCIPIT: Michael Wilding: “Con folle stupore”, Controluce (2008)

21 Giugno 2008

Traduzione di Aldo Magagnino  

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QUALCOS’ALTRO

“Qualcos’altro”, diceva il titolare del locale negozio di gastronomia ogni volta che serviva un ordine. Formaggio, marmellata, pane, olive, ogni transazione era inframmezzata da un “qualcos’altro”. Senza punto interrogativo.
Era una semplice affermazione, forse perfino un imperati ­vo. Ci sarebbe sempre stato qualcos’altro. Tutte le delizie d’Oriente non avrebbero potuto soddisfare quel desiderio struggente. Avremmo potuto svuotare il negozio di tutta la pasta, dei pí¢té, della carne e del pesce affumicati, dei sottace ­ti e dei peperoni, dei biscotti Leibniz e dei cioccolatini Mozart, del latte in polvere Marvell, del disinfettante Milton, degli oli d’oliva Borges e Dante, delle caramelle al burro Werther e delle gassose Shelley, ma ci sarebbe sempre stato quel desiderio di qualcos’altro.
Mi ha riportato indietro. “Ora ce l’ho”, mi dicevo, mentre compravo formaggi Stilton e marmellate originali Oxford secondo i precetti dei migliori autori, “ora mangio come un vero inglese, anche se in esilio”.
Ora le dovizie in quei romanzi di gentiluomini inglesi potevano essere mie, assieme a quei misteriosi esotismi dei quali parlavano con tanta familiarità i miei coetanei di Oxford: terrine e quiche, frittate e focacce, croissant, camem ­bert e brie, ciambelle, parmigiano e pesto, lasagne e cannel ­loni, gnocchi e minestrone, dolmade e tzatziki, taramosalata e moussaka, melanzane e pasticcio. Era tutto qui.
E ogni qualcos’altro scivolava in qualche altro luogo, custodiva i siti del desiderio, non solo i gusti. Le fragranze degli altri, che si trattasse di scuole di lingua in Italia o di vacanze in Provenza o di viaggi d’affari a New York o di viag ­gi studio in Grecia. Non era il cibo. Non avevo patito la fame. Avevamo pasticcio di uova e pancetta e lo sformato dello Yorkshire, salsa alla menta e salsa al prezzemolo, tortino del pastore e budino di strutto, pane e grasso e dolce di mele cotte, albicocche Blenheim, mele Bramley e pesche Pershore purpuree, prugne gialle, lamponi e more rosse, rabarbaro e uva spina, tutti raccolti freschi in giardino o nelle fattorie vicine. Ma non erano l’esotico. Erano il quotidiano. Ciò che non si apprezzava.
Ora lo apprezzavo, ma ora non è allora; ora ammiro, apprezzo e ringrazio, troppo tardi, le provviste dei miei geni ­tori. Ma allora era l’altro che desideravo, qualcos’altro, da qualche altra parte.
Era la maledizione delle Midland, l’eterno anelito di esse ­re da qualche altra parte. In quel paese interno, lontano dal mare, vedevo il sole che tramontava dietro le colline Malvern o da qualche parte in quella direzione; l’esatta topografia sbia ­disce davanti alla memoria immaginosa, ma l’esatta topogra ­fia non era il punto centrale, qualunque cosa ci fosse dietro quelle colline era sconosciuto e solo immaginabile.
Dietro quelle colline c’era Ledbury e poi Hereford e poi il Galles e poi il Mare di San Giorgio e poi l’Irlanda e poi l’Atlantico e poi l’America. Non era questo il punto. Non c’era alcuno specifico desiderio di Ledbury o di Hereford o del Galles o dell’America. Allora, come ora, l’America non era un oggetto di desiderio. Ci può essere stato, infatti, purtrop ­po, c’è stato, un intermezzo nel quale ha offerto le sue lusin ­ghe. Ma ora non più. E nemmeno allora. Guardando a occi ­dente, dove una vampata di rosso declinava verso l’isola dei fortunati, non era l’isola dei fortunati che desideravamo. Non speravamo di vedere Artù riemerso con in pugno Excalibur. Noi abitanti delle Midland scrutavamo l’occidente già molto prima che Artù vi affondasse. Anch’egli, come tutti i leader politici, stava semplicemente traendo profitto dalla leggenda. Tutti guardavano a occidente, così fu in quella direzione che lo sospinsero a remi, da dove aveva detto che sarebbe torna ­to. L’occidente. Ma si sbagliava. Non era l’occidente che ane ­lavamo. Era qualche altro luogo, al di là dei colli Malvern, oltre il Galles selvaggio, oltre l’Irlanda, oltre l’occidente. Oltre, l’occidente diveniva oriente. Aspiravamo ardentemen ­te a quel lontano lido come Colombo, ma senza l’impedi ­mento fastidioso delle Americhe nel mezzo. Poiché sapevamo che mentre agognavamo il sole occidentale del tramonto, agognavamo l’alba orientale e, agognando l’oriente che sorge ­va, lo superavamo, ritornando su noi stessi: eravamo noi stes ­si l’oggetto di quel desiderio, la nostra incompletezza, il nostro potenziale inespresso, le nostre speranze non realizza ­te. Non c’era un qualcos’altro, né un altrove; o meglio, il qualcos’altro era tutto interiore. Non avevamo bisogno di qualcos’altro, non avevamo bisogno d’altri luoghi, avevamo tutto in potentia. Ma prima che lo comprendessimo, o prima che io lo comprendessi, poiché presumo di parlare solo per me stesso in questo caso, prima che lo comprendessi, avevo già trovato il mio altrove, ne avevo gustato il pane nero, le birre Pilsener, i chiaretti, le grenaca e le shiraza, le moussaka, i falafel, i borscht, le laksa, i sambal, i cachi, le pesche, i fichi, i paw paw e i meloni come se avessi sofferto la fame.
Oh, Sydney. Non ha il trillo immediato di oh, Atene, la bella Grecia, triste vestigio. Non è una questione di genere. Oh, Parigi, oh, Georgetown, oh, San Pietroburgo non hanno un suono meno maschile. Maschilista scriverebbero oggi. In seguito, quando Sydney divenne per dieci minuti il centro del mondo gay, la denominazione maschile sarebbe sembrata adatta. Ma quello è il mondo di Joseph Wendel Holmes e dei suoi racconti di tenerezza maschile. Per lo meno alcuni. Idilli con i soldati americani in licenza.
“Non erano soldati americani”, disse, petulantemente, pedantemente, una di quelle parole. Non lo erano più. Allora a quale servizio appartenevano quei giovani snelli in borghe ­se? Joe non lo disse mai. Non disse mai tante cose, nonostan ­te la sua dedizione alla parola. E quando cominciai a pormi domande, ormai non comunicavamo più. In quei primi gior ­ni, quei primi racconti, fu Weil il libraio a sottolinearlo per la prima volta. Ad alta voce nel vecchio ristorante malese, le braccia irsute, che avevano trasportato tante casse di libri invenduti, stese lungo tutto il tavolo di formica, con i fili di laksa appesi alla barba di rivoluzionario e una furiosa sovrec ­citazione che gli fumava negli occhi di mercante porno. “Sai chi compra le tue cazzo di storie da finocchio, Joe? Quei fot ­tuti finocchi, quello è il tuo mercato, amico. Si avvicinano furtivi sul retro e domandano con la esse blesa: ‘Quello scrit ­tore australiano che scrive racconti?’ ‘Henry Lawson?’ ‘No, non è proprio quello il nome, è più moderno di quello’. Ti lappano, se questa è la parola giusta. Credono che tu sia moderno, è una linea che rende quella, amico”.
Weil vendeva classici marxisti e pornografia, faceva tutto parte della stessa lotta. Senza dubbio c’era una macchina foto ­grafica nascosta da qualche parte nel negozio o sulla finestra sopra il negozio di fronte che fotografava gli andirivieni, poi ­ché in quei giorni, come in questi, non c’erano molti negozi che vendevano classici marxisti né, in quei giorni, diversa ­mente da oggi, c’erano molti negozi che vendessero porno ­grafia. Joe non ne sembrò divertito. Non c’era molto al di sotto dell’aperta adulazione che lo divertisse e in questo non era il solo, faceva parte della professione. E il lamento sarca ­stico e importuno di Weil, non poteva di certo essere inter ­pretato come adulazione.
Questo era prima che anche Joe venisse fuori, per quel poco che mai sia venuto fuori, prima di fiondarsi nuovamen ­te dentro, come il signore e la signora vattelappesca della casetta igroscopica, che uscivano a turno a seconda del clima, senza che fosse mai possibile vederli assieme.
E così, oh, Sydney. Forse avrà avuto un richiamo omoero ­tico per i lettori di Joe, come oh, Jamestown, oh, Williamsburg, oh, Port Stevens, oh, San Francisco, oh, Isola di Man. Si potrebbe compilare un dizionario geografico. Ma dopo una sufficiente iterazione il suono muta, le associazioni cambiano, si scorporano o coagulano, tornano a fondersi in un nuovo significato, che ormai indica solo se stesso, la sua stessa icona, oh Sydney.
Altre volte ho scelto di pensare che fosse il giovane sir Philip Sidney in persona a essere commemorato in questo modo. Che si trattasse di un parente più tardo è irrilevante. Stesso nome, stessa famiglia, la tradizione si perpetuava. La scuola di scrittura creativa di Sydney. Avrei detto che era quello il principio che seguivo e lo dico ancora quando me lo chiedono, fin troppo spesso. Guarda nel tuo cuore e scrivi. In quale altro modo? Che cosa ti aspetti? Guardi nel contatore di cassa di Weil e ti fai i conti? C’è chi ha seguito questa stra ­da e dov’è adesso? America. Alcuni hanno guardato dentro i propri organi. Adesso, Joe, il mio vecchio amico, esito a dire alleato, nemico a volte ho temuto, quale scalpello ha negli occhi quando, con frequenza calante, scrive in abito da sera fra gli splendori gotici di quella vecchia scuola di spie e canaglie?
“Devono aver letto i miei libri”, disse, “deve essere per questo che mi hanno invitato”.
Povero Joe, alberga ancora una commovente convinzione che la gente legga i suoi libri, quell’ingenua fiducia che il vec ­chio mondo si curi della produzione culturale del nuovo. Inghilterra, mia Inghilterra.
Beh, lo scoprirà. Comunque è al sicuro fra i venti fradici di Cambridge. Ma Sidney fu un uomo di Oxford, anche se per poco. La nostra musa. Il costruttore del nostro nido di uccelli canterini. L’unico autore del nostro verso epigrafico, il motto del nostro lavoro, l’impresa sul nostro scudo.
“Se non io, vi muova a compassione il racconto mio”, aveva scritto sir Philip in Astrophil e Stella.  

SCHEDA LIBRO:
Autore: Michael Wilding
Titolo: Con folle stupore
Collana: Passages 2
Editore: Controluce

CONTENUTO:  
L’ultimo romanzo del grande narratore e saggista australiano non descrive solo l’atmosfera asfissiante dei convitti inglesi, delle domeniche pomeriggio trascorse a casa a leggere Shakespeare ma anche il senso di libertà dirompente, sfrenata, anarchica che il giovane protagonista assapora una volta giunto nel nuovo grande paese agli antipodi non solo geograficamente. Come si trasforma allora un bravo ragazzo in bohemien dedito agli eccessi? Wilding in questa autobiografia in forma di romanzo parlando degli anni duri della guerra e del dopoguerra inglese, della contestazione del Vietnam, delle ansie, delle speranze e delle delusioni di quegli anni costruisce un percorso che ci aiuta a capire come siamo arrivati a vivere come viviamo ora.
 
AUTORE:
Wilding Michael è considerato uno degli scrittori australiani di maggior talento. È autore di una dozzina di romanzi e di numerosi saggi critici sulla letteratura inglese. Fondamentale sono alcuni suoi studi su Milton.

 


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Bart