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LETTERATURA: La Befana, la Candelora e il Carnevale tra fine ‘800 e inizio ‘900

18 Gennaio 2020

di Bartolomeo Di Monaco

I precedenti (nell’ordine) quiqui, quiqui  qui e qui.

La fonte è ancora una volta lo straordinario racconto di Mariano Giannini, inserito nel libro di Mario Giannini (il figlio) e intitolato “Il Pratofiorito. La mia Famiglia, due secoli di storia”, edito da Tra le righe libri, un’opera che dovrebbe entrare nelle librerie di tutti i Lucchesi, ma utile anche a chi, fuori di Lucca, volesse conoscere e ritrovare una vita che, con piccole variazioni, era diffusa per tutto il nostro Stivale.
Io ne sono restato affascinato, mai una rievocazione ha fatto risorgere un’epoca, come è accaduto con la penna abile e matura di Mariano Giannini, e con il suo sguardo attento e sensibile di osservatore.

Pagine come queste riconciliano con la lettura, poiché il personaggio principale non sono né gli uomini né il paesaggio, ma il Passato, il quale, simile ad un gigante dalla lunga e folta barba bianca, vediamo incedere con il suo lussureggiante e magico carro di Tespi sopra cui la storia dell’uomo è eternamente rappresentata.

Qui, la fanno da protagoniste tre tradizioni che ancora perdurano: la Befana, la Candelora e il Carnevale.

“La sera della Befana dovevamo andare a letto prima del solito, perché se la befana ci avesse trovato alzati, non avrebbe lasciato niente. Guai a chi si fosse ostinato a voler vedere la befana!
Ognuno di noi ragazzi preparava dunque, alla vigilia, sul tavolo del salotto, un vassoio e quelli di noi che sapevano scrivere mettevano una letterina sul caminetto anche per i più piccoli, nella quale esponevamo i nostri vari desideri. Ponevamo anche, vicino al caminetto, un po’ di legna perché la befana potesse scaldarsi e un po’ di fieno o di crusca per il miccetto, il quale un anno lasciò persino sul pavimento le tracce di ciò che aveva mangiato e digerito! (raccolte probabilmente da Basilio nella rimessa della zi’ Sofia).
La mattina seguente ci alzavamo che era ancora notte e trovavamo I capo del letto o sotto il guanciale una calzina con dentro dei dolci, segno che la befana era venuta. Vestitici in fretta correvamo giù nella loggia ma la trovavamo chiusa e bisognava rassegnarsi .ni aspettare che fossero presenti tutti i grandi, ma soprattutto il zio perché era proprio lui che aveva la chiave.
Nell’attesa annusavamo l’aria dal buco della serratura e ci sembravi di sentire un odorino di vaniglia, di cioccolata, di confetti. Finalmente la porta veniva aperta e noi ci precipitavamo dentro il salotto. Da principio, nel buio e nell’ansietà non riuscivamo u scorgere nulla, poi al fioco lume delle candele, vedevamo qualche cosa in confuso. Allora ognuno cercava la propria “befana” comi l’aveva chiesta nella lettera e si dava da fare a leggere il suo nome fra quelli scritti dalla befana col carbone su certi fogliacci di caria gialla lasciati da lei sopra ogni vassoio. Ed erano grida di sorpresa e di gioia.
I grandi partecipavano alla nostra contentezza e ci facevano osservare particolari che noi sul momento non avevamo potuto notare: le mie sorelle ammiravano le loro bambole dentro le scatole di cartone o nella carrozzina. Bambole piccine e grandi, che chiudevano gli occhi o piangevano o chiamavano mamma; con i vestitini, le calzine, le scarpine e le varie suppellettili, dalla cucinina al lettino, dalla brocchina con la catinella al vasino!
Per i maschi c’era il cerchio con relativa bacchetta, il cavallo a dondolo o da trascinare sulle ruote, il carrettino, il teatrino coi burattini, la lanterna magica, il biliardino, la trottola che girando manda un suono, il trenino che caricato corre sulle rotaie. Non solo giocattoli ma anche cose utili portava la befana, come scatole per disegnare o per dipingere, astucci con penna lapis e gomma, calamai tascabili, cartolari ed altri oggetti da scuola, compreso quaderni e libri. Per ciascuno di noi c’era poi un fogliaccio, scritto malamente, perché la befana è vecchia e quando scrive poveretta, le trema la mano, con un ammonimento solenne di correggerci del nostro difetto principale, altrimenti l’anno dopo non ci avrebbe portato più niente. Ma chi andava a pensare all’anno seguente con tutto quel bene davanti agli occhi!
S. Gemma ha assistito anche lei alle nostre Befane, standosene però come sempre in disparte e silenziosa, tutt’al più si prendeva cura di Carlino che nel 1900 aveva appena 5 anni, perché non facesse “quare me ripulisti” del contenuto del suo vassoio, col pericolo di prendere una indigestione.
Anche Mea, Caterina, Poldo, Basilio e altri venivano a vedere che iosa di buono aveva portato la befana e noi, per cortesia e come segno di buon cuore, dovevamo naturalmente offrire loro “qualche cosina” del vassoio che essi per altro quasi sempre rifiutavano ringraziando.
Dopo essere stati un bel po’ in contemplazione davanti ai nostri vassoi dovevamo riporre tutto nel banco nel salottino, poi i più grandicelli, non appena suonava la campanella della “Rosa”, venivano condotti alla Messa; ma il nostro pensiero come si può facilmente immaginare restava al vassoio dei dolci ed ai giocattoli.

La chiesina della Rosa al tempo di Gemma era leggermente diversa da quella che è oggi. Le arcate lungo la via della Rosa invece di essere chiuse da vetri, erano murate: soltanto gli occhi rotondi in alto davano luce alla chiesa, onde questa rimaneva assai più buia che adesso tanto più che non c’era la luce elettrica.
L’organo, ora in cima alla navata destra accanto alla porta della sagrestia, era invece, con una piccola cantoria, sopra la porta d’ingresso che era chiusa da una bussola; i mantici venivano azionati non elettricamente ma con due funi. Pappà mi conduceva spesso con lui sull’organo, quando il Correttore lo chiamava per qualche festa, a suonare, appunto perché gli tirassi le corde dei mantici.
Nell’interno, il lato sinistro della chiesa, che oggi mostra le grandi pietre sforacchiate e corrose dal tempo dell’antica cinta di mura romane, allora era liscio, rivestito d’intonaco come il resto della Chiesa.
“Noi siàm pe – ttègole, noi siàm pe – ttègole” sembravano dire queste due campanelle, secondo il commento ironico della gente, quando venivano suonate così a distesa.
A quel tempo la Rosa era ancora frequentata non solo dal “devoto femmineo sesso” ma anche da alcuni uomini, nonostante il gran spetto umano che infieriva.
Passata la Befana cominciava nella fabbrica, oltre al lavoro ordinario, quello straordinario delle “candeline”, che in numero di alcune migliaia dovevano essere spedite in tanti pacchi ai parroci, per la “Candelora”, il 2 febbraio, festa della Purificazione di Maria.
Queste candeline del peso di pochi grammi l’una, non venivano fabbricate al “macchinario”, ma a mano, e vi attendevano, oltre a Basilio, al garzone e alla zia, anche le mie sorelle maggiori nelle ore libere dalla scuola.
Per noi ragazzi era un bel divertimento, specialmente la sera, sgattaiolare via dal tavolino di studio, per andare in fabbrica a portare anche noi il nostro contributo al lavoro per fare le candeline c ci saremmo stati volentieri delle ore a far questo lavoro, se non altro per ascoltare le storie che sapeva raccontare così bene Basilio mentre lavorava ma, appena udivamo che pappà, al ritorno dalla farmacia, infilava la chiave nel portone, ce la davamo a gambe e ci mettevamo di nuovo al tavolino a studiare.
Nel giorno della festa i parroci, dopo averle benedette, distribuiscono queste candeline ai fedeli, i quali le appendono a capo del letto: alla loro tenue fiammella il sacerdote potrà constatare, un giorno, se il nostro corpo irrigidito non mandi più alcun soffio di vita.

“Per la Candelora”, diceva pappà, “se piove o se gragnola, dell’inverno ne siam fora; ma se è sole o solicello, siamo ancora in mezzo al verno”.
Noi ragazzi ci accorgevamo appena di questa festa, così bella nella sua liturgia. Al contrario, il giorno seguente, San Biagio, specialmente se era una bella giornata e tutta la mia famiglia si era trasferita in villa a Carignano, costituiva per noi, come ho già descritto, una delle feste più care dell’anno, perché era la prima che si svolgeva all’aperto in campagna ed il triste inverno sembrava ormai finito, andavamo incontro alla dolce primavera.
Si era inoltre alle soglie del Carnevale, se non era già cominciato addirittura.
Il Carnevale a Lucca non è più, oggi, che una pallida copia di quello che era una volta, almeno per la parte che si svolge all’aperto. Allora vi si facevano dei corsi mascherati che, se per grandiosità non avrebbero potuto stare al confronto con quelli che si fanno attualmente, per esempio, a Viareggio, tuttavia li superavano per signorilità ed eleganza. Forse anche per brio ed originalità.
Oltre ai vari carri e maschere, in gruppo o isolate, vi prendevano parte con le loro carrozze a due e a quattro cavalli, i nobili e le più ricche famiglie di Lucca. Il corteo faceva alcuni giri lungo la via del Corso. Dalle finestre delle case prospicienti gremite di persone c dalla gente assiepata lungo i marciapiedi, un getto abbondante non di coriandoli di gesso, che erano proibiti, ma di confetti, di cioccolatini, di gianduiotti e di stelle filanti, rispondeva a quello non meno nutrito, che partiva dai carri e dalle carrozze che passavano. Sotto alle finestre più bersagliate, gruppi di ragazzi si buttavano pei terra e si accapigliavano fra i piedi della gente per raccattare quei confetti che non venivano afferrati al volo da coloro cui erano diretti. Erano, a volte, mascherate molto eleganti e riccamente vestite. Ne ricordo una formata da una ventina di ciclisti in bicicletta, mascherati da capo a piedi da ranocchi, tutti in seta verde, che passando lanciavano alle signore dei ranocchietti di latta, pieni di confettini. Un’altra volta, un enorme elefante di carta, con una ricca gualdrappa, sembrava vivo, ed era invece sostenuto da uomini che vi camminavano sotto, nascosti.
L’ingresso al corso era gratuito: vi erano poi, a pagamento, i veglioni nel cortile degli Svizzeri, al Teatro del Giglio, alle stanze civiche ed in altri ritrovi, ma noi, come è ovvio, a questi non siamo mai andati. Caterina ci conduceva tutt’al più nelle vie del centro a vedere le maschere le quali, incontrandosi, gridavano fra loro in falsetto: “Mascherina, mi conosci?”.
Noi però la maschera non ce la siamo messa mai perché, diceva la zia, era cosa del diavolo.
Qualche anno, come ho accennato, abbiamo passato il Carnevale a Carignano dove, com’è naturale, si effettuava con maggiore semplicità. Eppure ci divertivamo tanto egualmente nel vedere gruppi di contadini, bimbi, giovanotti e ragazze, tutti più o meno parenti fra loro, andare schiamazzando da una casa all’altra, mascherati ingenuamente con travestimenti strani e goffi ma spesso pittoreschi, coperti con scialli, veli, fazzoletti e cappellacci, la faccia tinta col carbone, le donne camuffate da uomini e gli uomini da donne. A Frediano c’era il “bruscello” e da casa si sentiva cantare: “Vienga Pietro e vienga Paulo!”.

Durante il Carnevale a Lucca, qualche sera ci era concesso di recarci al Teatrino “Dell’Immacolata”, in un salone del 1 ° piano di un palazzo in piazza Bernardini. Vi recitavano soltanto uomini. Alcuni lo chiamavano per scherzo il “Teatrino delle serve” e realmente nella sala queste predominavano, sia giovani che anziane, ed a certe scene commoventi tiravano fuori i loro fazzoletti e piangevano a calde lacrime. Molto più signorile, raccontava la zia, era stato alcuni anni prima il Teatrino del Reale Collegio, dove recitavano i collegiali ma era frequentato soltanto dalle famiglie di questi e da pochi invitati scelti.
Dopo aver preso “le ceneri”, il mercoledì, nella chiesina della Rosa, facevamo “uno strappo” alla Quaresima, la domenica successiva, andando con pappa sul Giannotti, per assistere alla festa della “Tavernella”, un prolungamento del Carnevale. Vi era infatti un corso mascherato, piuttosto rustico, che si svolgeva dalla Porta di Borgo al ponte di Monte S. Quirico, con carri e maschere ed i soliti banchetti di dolciumi. Col tempo bello, vi accorreva una gran folla. “Per la Tabernella, si schicchera e si frittella”, diceva pappà.
La Quaresima, quanto alle vigilie, era allora assai più rigorosa di oggi. Oltre al venerdì, anche il sabato era giorno di magro e per tutta la quaresima erano proibiti uova e latticini. La zia usava ripeterci scherzando: “Ohimè, disse il maturo, la Quaresima m’ammazza – lascia far che venga Pasqua – vo’ mangiare un uovo duro”.”.


Letto 480 volte.


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Bart