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La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

LETTERATURA: La Quaresima e la Pasqua tra fine ‘800 e primi del ‘900

19 Gennaio 2020

di Bartolomeo Di Monaco

I precedenti (nell’ordine) quiqui, quiqui  qui , qui e qui.

(Sempre dal libro: “Il Pratofiorito. La mia Famiglia, due secoli di storia” di Mariano Giannini. Devo precisare che anche qui viene ricordata la processione del “Gesù inalberato” organizzata dal rione di Pelleria (Chiesa di S. Tommaso in Pelleria, parroco don Silvio Giurlani) e viene indicato che si svolgeva il Venerdì Santo. Anch’io ricordavo così, ma ho dovuto correggere alcuni miei scritti poiché ho trovato testi e testimonianze che la collocavano al Giovedì Santo. bdm).

Per tutta la Quaresima c’era la predica in Duomo la sera, tenuta da un bravo Quaresimalista, per lo più forestiero: vi si recavano mamma con le mie due sorelle maggiori e la zia con Gemma. Venivano poi, finalmente, le tanto sospirate vacanze di Pasqua. Alle solenni funzioni della Settimana Santa, noi vi assistevamo nella nostra chiesa parrocchiale di S. Maria Forisportam, che anche allora era affidata ai Canonici Lateranensi e, sia perché questi nelle funzioni portano una veste bianca, sia perché sull’altar maggiore vi è una bella statua della Madonna di candido marmo, la chiesa è chiamata comunemente “S. Maria Bianca”, in contrapposto a S. Maria Corte Orlandini, detta “S. Maria Nera”, perché è retta dai Chierici Regolari della Madre di Dio, vestiti di nero, ed ha sull’altar maggiore un gran quadro della Vergine, annerito dal tempo.
Io e Martino tutte le domeniche ci recavamo alle 9 in parrocchia per prendere parte alle adunanze della Congregazione Mariana che il vice parroco don Alberto Ghilardi, fratello del sor Federico, aveva istituito.
Andavamo volentieri a questa Congregazione che può considerarsi l’inizio della futura Azione Cattolica giovanile. Però la zia ed i miei genitori avrebbero preferito che non uscissimo di famiglia neppure la domenica e che alle funzioni religiose partecipassimo coi nostri famigliari perché avevano timore della promiscuità con altri. Anche
Il parroco era in fondo di questo parere, quando si tratta, diceva, di famiglie cristiane; tuttavia bisognava anche dare il buon esempio e procurare inoltre che il passaggio dei figli alla vita sociale avvenisse gradatamente, attraverso queste associazioni di giovani di buona condotta vigilate e guidate da sacerdoti.
Per Pasqua, com’è noto, viene fatta dai parroci la “benedizione delle case”.
Quindi, ogni anno, per alcuni giorni regnava in casa nostra una grande confusione, perché per il mercoledì della settimana di Passione, la casa doveva essere in ordine, rimessa a nuovo, lucida e pulita. Un odorino amarognolo di vernice era diffuso per tutte le stanze, tenute in una mezza luce, con le persiane socchiuse.
Le donne stavano spiando per tempo l’arrivo del prete, il quale veniva la mattina verso le nove, accompagnato da un paio di chierichetti con la cotta.
Quelli di noi che erano alle elementari avevano da pappa il permesso di fare vacanza, ricevevamo tutti insieme la benedizione, inginocchiati nel salotto, poi uno di noi prendeva dalle mani del chierico il secchiello dell’acqua santa e guidava il prete per tutta la casa a benedire ogni stanza.
Il Giovedì Santo, alle cinque pomeridiane, con la Compagnia della Rosa, incominciavamo la “Visita delle sette chiese”. Era un giro piuttosto lungo, che durava oltre un’ora, perché dovevamo visitare i “sepolcri” in sette chiese, ed in più, per un’antica consuetudine, anche quello di S. Romano. Col cappuccio calato sul viso, c’era da soffrire un gran caldo, sotto la cappa, specialmente se la Pasqua cadeva di primavera inoltrata: allora però, dopo la visita, pappa ci conduceva a prendere un gelato.
Questa “Visita” era una processione che per noi ragazzi aveva un fascino speciale. Nelle stanze della Compagnia, sulla piazzetta della Rosa, venivano distribuite le cappe, che erano di colore giallo. Due giovanotti, fra i più robusti alternandosi sostenevano scalzi l’antico e pesante stemma della Confraternita, con al lato due lampioni portati da ragazzi, e noi tutti naturalmente aspiravamo ad ottenere questo privilegio.
Lungo la strada recitavamo a voce alta il Rosario, ma ad ogni posta, invece del “Gloria Patri”, cantavamo: “Miserere nostri Domine, miserere nostri” con una intonazione lamentevole, lunga, caratteristica.
Se era l’anno in cui cadeva in questo giorno la processione di “Gesù inalberato”, ci recavamo in piazza Bernardini a vederla sfilare. Vi erano infatti due Compagnie una di S. Tommaso in Pelleria, l’altra di S. Cristoforo, con due grandi barelle che venivano portate sulle spalle da una ventina di uomini. La prima, sulla cui barella si vedeva Gesù in croce fra la Madonna e S. Giovanni morto, steso sopra un lenzuolo, e la Vergine Addolorata accanto, usciva invece il venerdì sera. Un anno toccava all’una, l’anno seguente all’altra.
Ma la cosa che più ci piaceva di questa processione erano gli angelini riccioluti, con i vestiti dalle trine d’oro, che portavano gli emblemi della Passione: la croce, il calice, il martello, i chiodi, la lancia, il coltello, la corona di spine, il velo della Veronica, il gallo, la lanterna e così via.

La mattina seguente, Venerdì Santo, verso le nove, eravamo di nuovo in S. Maria, ci mettevamo la cappa ed assistevamo allo scoprimento ed all’adorazione della Croce. Il sacerdote “toglieva Gesù dal sepolcro” e noi accompagnavamo processionalmente coi ceri accesi l’Ostia Consacrata, fino all’altare maggiore dove veniva consumata dal sacerdote. Dopodiché gli altari spogli, senza ceri, senza tovaglie, davano un senso di squallore, come il suono della “traccola” che incuteva quasi paura.
Anche il nostro desinare, quel giorno, era diverso dal solito. Prima di tutto per vecchia consuetudine, c’era soltanto “zuppa di ceci e baccalà lesso”, nient’altro. Inoltre la zia e qualcuna delle mie sorelle mancavano a tavola, avendo pranzato prima, per assistere a mezzogiorno in punto, nella vicina chiesa dè Servii alle “tre ore d’agonia”, predicate dal Quaresimalista del Duomo. Anche i più grandicelli di noi, dopo aver pranzato in fretta, venivano condotti a questa funzione.
Vi giungevamo per lo più quando il predicatore commentava le ultime parole di Gesù sulla Croce. Sull’altare maggiore, sotto al baldacchino di legno, sorretto dalle quattro colonne di marmo, era innalzato un grande Crocifisso, con le statue della Madonna, tutta vestita di nero, e di S. Giovanni, ammantato di rosso. Uno scenario teso fra le due colonne posteriori, faceva da sfondo, e rappresentava il Calvario, con il Tempio e la città di Gerusalemme. Il tutto circondato da rami di cipresso e di palme, che rendevano più suggestiva la scena. Soprattutto mi piacevano i canti mesti, gravi, che si levavano al termine di ogni “parola”, nel coro, da un gruppo di giovani e di uomini, con l’accompagnamento dell’armonium e dei violini.
Sull’imbrunire di questo giorno, andavamo a vedere in piazza S. Frediano la processione detta “Del Preziosissimo Sangue”, perché sotto al baldacchino l’Arcivescovo porta in un ostensorio una piccola ampolla contenente il sangue di Nostro Signore trovata, secondo la tradizione, dentro al busto del Volto Santo. Anche questa processione era una delle più belle e molto lunga, perché vi prendeva parte un grandissimo numero di confratelli della Misericordia, incappati di nero, con il loro pesantissimo Crocifisso sormontato da una grande corona di legno dorata e cinto da un drappo di damasco rosso, che era portato a piedi scalzi da uomini alti e tarchiati. Seguivano numerosi seminaristi dei tre seminari, ché tanti erano allora in Lucca, e la Confraternita di S. Frediano con le cappe rosse ed i Canonici delle varie Collegiate. Dietro al baldacchino marciavano i bandisti della Banda Comunale e si vedevano ondeggiare, al passo, i loro elmi piumati; poi veniva la fiumana della gente.
Il Sabato Santo c’era molto lavoro in fabbrica. Nel cortile, legati alla pergola, al fico, alla ringhiera della scala del terrazzo, alle inferriate delle finestre, stazionavano e si avvicendavano cavalli, micci e vacche con barrocci e carri, venuti dalle parrocchie di campagna per caricare le casse dei ceri.
Ad un tratto uno scampanio festoso di tutte le campane della città, dal rombo possente di quelle del Duomo allo squillo acuto delle campanelle della Rosa, annunziava che Gesù era risorto e noi ci affrettavamo a baciare la terra.
Nel giorno di Pasqua il desinare cominciava con le uova sode, fatte benedire dal Correttore nella sacrestia della Rosa e non mancava mai l’abbacchio con le olive cucinato al forno. Beppe infatti mandava tutti gli anni da Controni due agnellini già spellati che Mea attaccava a testa in giù in cucina.
Il lunedì dopo Pasqua, nel pomeriggio, andavamo tutti a fare “il merendino” in campagna. Un anno che io ero ancora piccino, ci recammo agli “archi delle fontane” nei cosiddetti “chiariti” dove sono dei bellissimi prati e, fra file di ontani, scorrono molti fossetti. Beppino, che si divertiva a saltarne uno, avanti e indietro, finì per cascarci dentro. La povera mamma dovette togliersi la sottana per asciugarlo.
Il merendino del 1901, invece, lo facemmo sul poggio del fiume o meglio sull’argine, nei pressi del Camposanto e pappà insisté tanto, che Gemma dovette acconsentire a venire con noi e sembrava contenta e sorrideva, seduta sul poggio con le mie sorelle.”.


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Bart