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LETTERATURA: Marino Magliani: “La spiaggia dei cani romantici”, Instar libri

16 Febbraio 2011

di Francesco Improta

Marino Magliani, credo che lo si possa affermare senza dubbio alcuno, è ormai una presenza autorevole e assidua nella narrativa italiana del terzo millennio. Nel breve arco di tempo di un decen ­nio, forse anche meno, se si escludono alcune prove narrative giovanili che hanno avuto diffusione e risonanza soltanto locale, sono stati pubblicati da editori diversi sette suoi romanzi, oltre a diverse raccolte di racconti, a conferma di una vena copiosa e di una incontenibile urgenza di raccontarsi e di raccontare. Non meraviglia, quindi, che Marino, per l’insistenza su alcuni luoghi e su certe tematiche ed ossessioni, talvolta abbia corso il rischio di ripetersi o di rimanere confinato nell’ambito di una realtà alquanto provinciale. Il romanzo, invece, di cui ci occupiamo oggi, La spiaggia dei cani romantici, pubblicato dalla casa editrice Instar, s’impone come una novità assoluta nell’ambito della sua pro ­duzione per l’originalità dell’intreccio, per la varietà delle loca ­tion, per la mancanza di un protagonista nell’accezione tra ­dizionale del termine, per il cambio improvviso, all’interno della vicenda, del punto di vista e dell’io narrante, per la qualità della scrittura e per l’uso di un linguaggio diverso, originale ed icastico. Un romanzo che con una certa cautela si potrebbe definire auto fiction: un universo, cioè, ondeggiante dai confini mobili e porosi, in cui l’autore non solo si spalma nei personaggi da lui creati, finendo col diventare spettatore ed attore, coll’essere cioè al tempo stesso dentro e fuori della vicenda, ma si muove anche in uno spa ­zio ibrido dove realtà e finzione si scontrano continuamente per prendere il sopravvento senza riuscirci.

 La vicenda ha inizio nel Febbraio del 1983, a Lincoln, una città della pampa argentina, da dove come ogni anno i chicos piola – i ragazzi all’occhio, perdigiorno e truffaldini, – con le loro camicie sgargianti e gli stivaletti di pelle lucida, partono e alla ricerca del sole, del divertimento, del denaro attraversano l’oceano per andare a lavorare nei locali notturni della Costa Brava, la mecca ricono ­sciuta della gioventù del nord Europa che cerca di dissolvere il buio che si porta dentro con le luci fantasmagoriche delle cittadine alla moda. Quell’anno decide di partire anche Almeja, che ha partecipato alla guerra delle Malvinas e aspira a fare il calciatore, essendo dotato di un certo talento pedatorio, come avrebbe detto Gianni Brera. La sua meta, quindi, almeno inizialmente è diversa; in compagnia della sua ragazza, la negra, (viene chiamata così non per essere scura di pelle ma per essere ordinaria nell’aspetto) si reca infatti in Liguria, terra d’origine del nonno, nella speranza di essere ingaggiato da una squadra di calcio regionale. La difficoltà, però, di ottenere il passaporto italiano, l’abbandono da parte della sua ragazza che gli preferisce un lontano parente più avanti negli anni ma dalla posizione economica decisamente più solida e il fascino che comunque esercita sempre Lloret de Mar lo inducono ad abbandonare la terra dei suoi avi, per molti versi deludente, e a seguire i suoi amici argentini. La cittadina della Costa Brava con le sue luci lo abbaglia e lo respinge nel contempo, perché Almeja non appartiene a quel mondo di sesso, droga e notti infinite e anche perché non riesce a dimenticare la sua ragazza. Una mattina vengono trovati sulla spiaggia i suoi indumenti e il portafogli con i documenti, ma di lui nessuna traccia. Non è l’unico mistero che si consuma sulla Costa Brava, perché in quell’estate vengono uccisi, senza apparente motivo, alcuni militari inglesi in vacanza. A que ­sto punto la storia s’interrompe e Marino con un salto temporale di quasi trent’anni, passando da una narrazione omodiegetica a una narrazione eterodiegetica, ci trasporta ai giorni nostri in Olanda, dove una giornalista cura e conduce una trasmissione popolare su alcune storie di amore del passato, e cerca di far incontrare negli studi televisivi dell’emittente per cui lavora i protagonisti di que ­ste storie. Parte, quindi, in compagnia di un cameraman, alla volta della Spagna prima e dell’Italia poi per parlare con i diretti interes ­sati e per convincerli a partecipare alla trasmissione.

Farei un torto ai lettori se continuassi a raccontare la trama per cui passo ad analizzare alcuni elementi del romanzo. Innanzitutto il titolo che ci richiama alla mente Los perros romanticos una rac ­colta di versi di Roberto Bolaňo, di cui Marino, pur senza no ­minarlo esplicitamente, traccia a pagina 173 uno splendido cameo, a testimonianza dell’influenza che ha avuto sulla composizione di questo libro; non è un caso che da lui sia stato tratto anche uno dei tre exerga che figurano all’inizio del romanzo (gli altri sono di Pietro Carlini e Sergej Dovlatov). Bolaňo, scrittore cileno in fuga dal regime di Pinochet, si era rifugiato in Spagna e più preci ­samente a Blanes, una delle località in cui si svolge la vicenda narrata da Marino e per tirare avanti (il successo come scrittore arriverà postumo, dopo la morte prematura avvenuta nel 2003), ha dovuto fare di tutto: dal vendemmiatore, al commesso, alla guar ­dia notturna, per sopravvivere, come dicevamo, e per continuare a coltivare il suo sogno, non diversamente da uno dei personaggi del libro, Almeja, che in Liguria accetta i lavori più duri e massacranti nell’attesa di quel passaporto che non arriverà mai e che avrebbe potuto aprirgli le porte di una società di calcio. Sono anni diffi ­cilissimi, quelli, per chi è nato in Sudamerica, anni di vaga ­bondaggio, di precariato esistenziale con davanti un futuro che i più sentivano lontanissimo se non postumo e alle spalle le im ­magini di dolore, di sofferenza e di asfissia di un regime dit ­tatoriale in cui «crescere sarebbe stato un crimine ». Non ci di ­mentichiamo che la vicenda inizia nel febbraio del 1983, all’in ­domani della guerra delle Malvinas, quando in Argentina c’era ancora la giunta militare, anche se era ormai agli sgoccioli, mentre nel mondo occidentale si andava affermando l’edonismo reaga ­niano, che pur essendo originariamente legato a una politica eco ­nomica di tipo neoliberista, era diventato ben presto un modello di vita complessivo e articolato in cui contava solo il verbo avere e veniva completamente dimenticato, se non addirittura seppellito il verbo essere. In un simile contesto fu fatto passare per legittimo tutto quello che portava all’arricchimento, lecito o illecito che fosse. Non destano meraviglia, quindi, l’uso e lo smercio della droga, il mercimonio dei corpi, le truffe o i piccoli furti, cui si lasciano andare i chicos piola sulle spiagge e nelle discoteche della Costa Brava. Marino descrive perfettamente queste atmo ­sfere e le località alla moda dell’edonismo più sfrenato. Accanto, però, a questo mondo rutilante di luci, di colori, di profumi e di rumori, c’è pur sempre la sua Liguria che lui descrive con occhio prevalentemente critico, come un panorama di rovine, disseminato ovunque di segni precisi di abbandono, di degrado, di disfacimen ­to e di morte. Si legga, a tal proposito, l’impatto di Almeja con la terra dei suoi avi:

  Una costruzione di multipiani, con un gran numero di terrazze a formare una vallata e a sua volta una riga di vallate che scendono in un mare. Che la Liguria fosse così complicata l’avevo capito dal nonno, ma così decrepita, con la spazzatura all’ingresso dei paesi, le terrazze crollate e gli ulivi in mezzo ai rovi, intonaci che scendono a pezzi, e ovunque incredibili tubi delle fogne, no, credetemi, è stata una brutta sorpresa.

Altre volte, invece, riaffiora prepotente in lui l’amore per la sua terra natia, gli occhi allora si velano di commozione, ma stra ­namente lo sguardo diventa più nitido e luminoso, nel cogliere figure, fatti e paesaggi che si accampano nella memoria o che emergono dalle nebbie del passato: penso a Francesco Biamonti, cui Marino aveva già reso omaggio nel romanzo Quattro giorni per non morire e a Paolo Veziano, amico comune, di cui ricorda l’olio pregiato, la caccia alle anguille e le partite di pallone ela ­stico.

La toponomastica alterna nomi di fantasia come Bastieto e Sorba, già utilizzati in Quella notte a Dolcedo, e nomi di località proprie della Riviera di Ponente come Isolabona e Bordighera che è al centro di una delle più belle descrizioni di tutto il libro: una vi ­sione magica dovuta non solo alla bellezza del paesaggio ma an ­che all’occhio che l’accarezza e la vagheggia con tanto amore e partecipazione:

    La notte sugli ulivi, azzurra anche senza la luna, ritagliava orli e costoni, declivi neri come in un tunnel fino a Bordighera che brillava, al fondo di tutto. Il giorno in Liguria era uno strato di veli che all’alba si stendevano lentamente. La notte era una sottrazione: la luna e le stelle e le montagne, gli orli dei boschi e i profili delle falesie toglievano i veli scoprendo le tenebre.

Non c’è, come abbiamo anticipato, un vero protagonista e se è vero che Almeja sembra catturare qualche attenzione in più da parte dell’autore – anche perché fino alla sua scomparsa è lui l’io narrante – è altrettanto vero che egli, oltre ad essere una delle tante proiezioni dell’autore, è una figura speculare di Gregorio Sanderi, di cui riflette aspirazioni, ansie, e frustrazioni e al quale confida le proprie pene fino alla sua scomparsa. Non è un caso che Gregorio, qualche tempo dopo, decida di ritornare definitivamente in Liguria, a Bastieto, a raccogliere edera ornamentale e a covare i propri sensi di colpa, nella speranza di un’autoassoluzione che stenta ad arrivare. Nel romanzo prevale una indiscutibile e diffusa coralità; al centro della vicenda c’è appunto il gruppo dei chicos piola a cui si aggregano, sia pure per motivi differenti e in tempi diversi, prima Almeja e poi la giornalista olandese, che mette in moto con il suo programma televisivo una sorta di operazione nostalgia, oggi così diffusa anche nelle nostre emittenti radiofo ­niche e televisive come Vorrei tornare e I migliori anni; c’è infatti, ed è abbastanza evidente, un vago rimpianto del passato, degli anni della movida sulla Costa Brava o meglio ancora degli anni della giovinezza e dei sogni, leciti o meno, che quei giovani cani romantici, randagi e sbandati, coltivarono alla fine del regime dittatoriale. Bellissima, a tal proposito, la foto di copertina che raffigura la spiaggia di Lloret de mar al tramonto, con questi giovani cani romantici che si muovono, spettrali, sulla battigia ai confini tra il mare e la terra, in una zona d’incertezza e labilità, mentre il sole basso ne allunga le ombre e sopra, in cielo, gravano nubi dense e sempre più estese che confondono la vista e na ­scondono il futuro.

Il ritmo lento e pausato nella parte iniziale, conformemente alla stanchezza e all’indolenza con cui i chicos piola trascinano le loro giornate vuote alla fine dell’estate australe, si fa più vivace e mos ­so nella parte centrale quando la vicenda si sposta in Spagna, prima alle Canarie e poi in Costa Brava, per rallentare di nuovo nell’ultima parte allorché si sciolgono tutti i nodi affiorati durante la narrazione e la storia giunge a conclusione, segnando la fine non tanto di una o più vicende individuali ma di un periodo storico che riguarda tutti senza risparmiare nessuno, come risulta dal riferimento esplicito alla crisi finanziaria e in particolare al Co ­rallito, decreto con il quale in Argentina è stato imposto il blocco generalizzato dei conti correnti e dei risparmi.

Da sottolineare, infine, la qualità della scrittura di Marino che, ac ­cantonando incertezze e tentennamenti, è diventata sempre più asciutta, icastica ed essenziale, in una parola più sicura, capace di coniugare con straordinaria efficacia più registri linguistici da quello specificamente letterario, visibile soprattutto nelle descri ­zioni della sua Liguria a quello confidenziale e discorsivo dei giovani all’occhio allorché il lessico, per un’esigenza di prepo ­tente realismo, si fa crudo, aspro e si avvale di prestiti gergali, decisamente coloriti, soprattutto per quanto riguarda la sfera ses ­suale.

Per il passato Marino Magliani è stato più volte accostato a Fran ­cesco Biamonti e probabilmente non a torto dal momento che chi parla della Liguria di Ponente e del suo entroterra finisce neces ­sariamente col misurarsi con il grande scrittore di San Biagio della Cima; in questo libro, però, ho avuto l’impressione che si aggiri non tanto l’ombra di Francesco Biamonti quanto quella di Nico Orengo, nostro comune amico, mai rimpianto abbastanza, per l’abilità con cui Marino ha costruito un meccanismo narrativo perfettamente funzionale, per la commistione tra invenzione, cro ­naca e storia con la S maiuscola ed infine per aver mescolato personaggi partoriti dalla sua fantasia a persone realmente vissute o ancora in vita.


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