LETTERATURA: Piero Tarticchio: “Sono scesi i lupi dai monti”
25 Febbraio 2022
di Bartolomeo Di Monaco
Ho stima e simpatia per questo anziano autore, di cui mi sono già occupato per precedenti pubblicazioni, che ha dedicato la sua vita a ricordare e testimoniare una delle stragi più terribili della storia del secolo scorso: la tragedia delle foibe, ad opera dei comunisti di Tito, i quali gettavano vivi dentro queste voragini rocciose e profonde gli istriani e i dalmati per il solo fatto di essere italiani. L’Italia ha nel 2004 istituito il Giorno del ricordo che si celebra ogni anno il 10 febbraio. Ma ancora molti contrastano la ricorrenza, se non addirittura la dileggiano, negando perfino le foibe, come è successo per i lager nazisti.
Tarticchio ha vissuto direttamente questa esperienza che coinvolse il padre e altri suoi parenti, crudelmente infoibati.
Non può dimenticare. E nello stesso tempo non può lasciare che la memoria delle vittime di questa feroce tragedia sia obliata.
Le forze negatrici trovano in lui un testimone ostinato e fecondo.
Veniamo all’ultimo suo romanzo, da poco uscito, che ha un titolo assai suggestivo: “Sono scesi i lupi dai monti”.
Chi sono questi lupi? Sono la inciviltà e la barbarie, l’assenza del cuore e dei sentimenti, l’alienazione totale della mente.
Il libro, immaginato come un’intervista, si caratterizza per una serie di agili quadri impregnati del ricordo.
Il dramma istriano tanto delle foibe che dell’esodo viene a ricomporsi in unità attraverso i disseminati e allineati segmenti della memoria.
L’infanzia dell’autore è la prima ricostruzione che incontriamo. Gallesano, a nord di Pola (che in greco antico significa, guardacaso, ‘città degli esuli’), è il paese natale, e gli abitanti ai primi del secolo scorso vivevano di agricoltura: “Le risorse vitali del paese ruotavano intorno a quattro punti cardine: la mietitura, la vendemmia, la raccolta delle olive e l’uccisione del maiale. E questo avveniva mediante una sequenza di riti e di tradizioni essenziali per la sopravvivenza della popolazione contadina del secolo scorso.”.
Per chi ha la mia età (80 anni) e quella dell’autore (85) si tratta di ripercorrere, come se fosse il presente, un modo di vivere che l’attuale civiltà tecnologica ha fatto scomparire del tutto.
Bastano solo il ricordo e poche parole ben scritte da Tarticchio con elegante semplicità a restituirci il passato ricco di vita e di sentimenti.
Non solo, dunque, si rianimano i volti dei suoi cari, in specie il padre, il nonno Piero e la nonna Maria, ma riacquistano vigore usanze e tradizioni, sia civili che religiose, che i giovani di oggi ignorano e che furono il nutrimento morale e intellettuale di quella generazione. Usanze e tradizioni che non furono dissimili in nulla da quelle dell’Italia contadina.
Le rievocazioni dell’infanzia dell’autore sono intrise di partecipazione. Ne emerge un’età pregnantemente formativa.
Poi arriva la guerra e il ragazzo ascolta la radio e i racconti del padre Lodovico. Si avvertono i segni del cambiamento che una guerra reca sempre con sé, trasformando gli uomini in lupi.
Già si disegnano i prodromi del dramma istriano-dalmata: “Nell’aprile del 1941 l’Italia dell’Asse, insieme alla Germania di Hitler, invase il regno di Jugoslavia. La guerra nei Balcani portò orrore e atrocità e a farne le spese fu la popolazione civile slava. Questo contribuì ad alimentare l’odio e propositi di vendetta nei confronti degli italiani. Come vedremo in seguito, a pagare il conto di tanta follia, a guerra finita, saranno gli istriani, i fiumani e i dalmati.”.
Immediatamente dopo la firma dell’armistizio dell’8 settembre 1943, “priva di governo e di direttive politiche, la Venezia Giulia andò alla deriva come un vascello senza timoniere in balia della tempesta. I partigiani di Tito scesero dai monti assetati di sangue, in meno di dieci giorni occuparono buona parte del territorio e diedero inizio alle vendette più atroci contro gli italiani accusati di aver istituito le leggi razziali, mosso guerra alla Jugoslavia e perpetrato crimini contro le popolazioni slave.”; “I prigionieri, nella maggior parte dei casi, prima di essere gettati nelle foibe furono barbaramente torturati e alcuni anche mutilati. (…) Gli infoibamenti avvennero in due ondate, la prima nel settembre del 1943, immediatamente dopo l’armistizio, e la seconda nel maggio/giugno del 1945 a guerra ormai finita, e proseguirono fino al 1954.”.
Tarticchio ha 7 anni quando, nell’ottobre 1943, assiste al funerale di don Angelo Tarticchio, parente di suo padre, ucciso dai titini: “Ricordo mio padre che mi stringeva la mano e non poteva immaginare che venti mesi dopo avrebbe fatto la stessa fine.”; “Dopo una notte da incubo passata in un cascinale di Gallignana, insieme ad altri 43 suoi parrocchiani, don Angelo venne condotto presso la cava di bauxite di Villa Borsotti a Lindaro e gettato ancora vivo nel baratro.”.
La salma verrà recuperata dai pompieri di Pola: “Al momento del ritrovamento don Angelo era nudo, il corpo martoriato, i genitali tagliati e conficcati in gola. Sulla testa portava ancora una corona di filo di ferro spinato, in spregio alla sua funzione di ministro della fede.”.
L’autore ricorda che anche la giovane di 23 anni Norma Cossetto, figlia del podestà di Visinada, dopo essere stata torturata e stuprata, sarà gettata viva nella foiba vicina a Villa Surani.
Tarticchio non è la prima volta che ricorda il martirio della giovane nelle sue opere (si veda “Maria Peschle e il suo giardino di vetro”, del 2019), a dimostrazione dell’orribilità della tragedia e della ferocia disumana dei carnefici.
Ci accorgiamo presto che il desiderio dell’autore di raccontarci, come in una autobiografia, paragrafi della sua vita, non nasconde altro che il suo proposito di innalzare un inno alla sua terra martoriata, darle un alone di immortalità, come se quel tratto di secolo non potesse mai essere cancellato e la sua terra si trasfigurasse, riemergendo dal tempo dell’oggi, per ricordare ai suoi figli sparsi nel mondo quale essa fu, nonostante quegli anni tristi.
Finita la guerra Tito si presenta a riscuotere il conto: “Fino dal suo arrivo Tito nazionalizzò tutti i beni immobili, sia pubblici sia privati. Chiuse le scuole italiane di ogni ordine e grado e proibì a chiunque di parlare il nostro idioma. Instaurò un regime di polizia nel quale tutti potevano essere incolpati, arrestati e condannati con l’accusa di essere italiani e di conseguenza fascisti.”.
Preciserà l’autore che quella di Tito fu una guerra di conquista territoriale e non, come l’aveva camuffata, una guerra contro il fascismo: “Le sparizioni di persone innocenti gettate nelle foibe segnarono l’inizio dell’agonia del popolo istriano. La stragrande maggioranza degli italiani abbandonò ogni avere e intraprese un esodo di proporzioni bibliche.”.
Nella notte tra il 4 e il 5 maggio 1945 bussarono alla sua porta. Erano i titini che venivano ad arrestare il padre, Lodovico. Non dettero spiegazioni. Lo costrinsero a vestirsi e a seguirlo. Qui merita riportare ciò che il ragazzo Piero ricorda di quella notte, in cui fu l’ultima volta che vide il padre: “Gli legarono i polsi con il filo di ferro stretto con le pinze. A quel punto, ricordo che papà mi guardò e i suoi occhi si fusero coi miei. Che cosa volesse dirmi in quei brevi istanti non lo saprò mai, tuttavia l’espressione di quello sguardo mi penetrò nell’anima e, vivessi mille anni, non lo scorderò mai. Era come se mi dicesse: ‘Io sarò sempre con te. Nell’aria, ovunque. Se vorrai parlarmi, chiudi gli occhi e cercami. Ma non nel linguaggio delle parole ma nel silenzio.”.
Così continua: “Quella notte i partigiani slavi saccheggiarono tutto quanto trovarono, dall’armadio portarono via gli effetti personali di mio padre, i vestiti, i cappelli, le camicie, le cravatte, le scarpe e le calze, il corredo di nozze di mia madre, le lenzuola, le federe, il copriletto, le tovaglie. Trafugarono tutto il denaro contante, le polizze di assicurazione, i rogiti e altri documenti notarili, i gioielli di famiglia e alcune monete d’oro.”. Stessa sorte capitò al fratello e al cugino di Lodovico. Tutti, ben più di 800 prigionieri rinchiusi a Pisino, nella Rocca di Montecuccoli, furono infoibati: “Foibe, una parola che fa tremare le vene e i polsi. Sono voragini carsiche messaggere di morte, abissi di dolore senza fine, senza memoria e senza onore.”.
Si ricordi che questo libro è una inconfutabile e dolorosa testimonianza (troviamo anche, nella parte finale, un diario della zia Lidia). È una storia vera narrata da chi l’ha vissuta.
Le parole sono pietre.
Si legge: “Dicono che i primi anni dell’adolescenza sono i più belli e i più spensierati, Ma per me quando li ricordo sono sempre dolorosi.
Il dolore, a lungo taciuto, rimane dolore per sempre.”.
Si è cercato per anni di tenere nascosto il terribile dramma delle foibe; perfino un processo avviato nel 1996 fu oggetto di pressioni affinché niente emergesse e si concluse con un nulla di fatto nel 2004.
Servì tuttavia a sollecitare le forze politiche a istituire, con legge del 30 marzo 2004, n. 92, il Giorno del ricordo, che si celebra il 10 febbraio di ogni anno. La scelta del 10 febbraio è legata al giorno della firma dei trattati di pace di Parigi, che avvenne proprio il 10 febbraio 1947.
Si deve ripetere, tuttavia, che non mancano, ancora oggi, tentativi di sminuire questa ricorrenza.
Al riguardo, su tutto il libro aleggia un brivido di delusione.
Tarticchio è forse l’artista vivente che più di tutti si batte per la difesa di questo ricordo, impresso tragicamente nella sua anima. Contro l’immane silenzio, si leva forte ed ostinata la sua voce dolorosa e cristallina.
L’esodo fu altrettanto terribile. Racconta un libraio che sta smobilitando raccogliendo i suoi libri in casse di legno: “Hanno distribuito quattro miseri chiodi per ciascuna famiglia, e li hanno pure pesati. Ma non bastano nemmeno per imballare le nostre povere cose. Chi poteva prevedere che quei pezzetti di ferro sarebbero diventati tanto preziosi. Qualcuno li sta vendendo a borsa nera e magari in città qualcuno è disposto a pagarli a peso d’oro. Roba da matti. Ormai tutta Pola è in svendita: ciò che ieri valeva cento lire, oggi si compra con due soldi e viceversa.” Un quadro della situazione che si stava determinando a Pola, ce lo dà il diario, che abbiamo richiamato, della zia dell’autore, Lidia. Questo è un estratto che porta la data del 30 gennaio 1947: “Questa mattina Pola si è svegliata sotto il diluvio.
Il disagio per la gente che sta lasciando la città è diventato maggiore per il vento che soffia a raffiche. Bora scura è il termine con il quale i vecchi polesani definiscono questo tempo infame. Le strade sono deserte, perfino i carretti che portano al porto le povere masserizie degli esuli sono scomparsi. Una città in agonia si sta spegnendo fra l’indifferenza dell’Italia, che trent’anni fa l’aveva fortemente voluta e ora la sta abbandonando con il fastidio che si prova per un’amante scomoda. I polesani stanno lasciando le loro case con la stessa rassegnazione con la quale si vede morire un malato terminale.
Sembrano ritornati i tempi della peste, le porte e le finestre sono sprangate con tavole inchiodate agli infissi come croci di Sant’Andrea.
Un velo di tristezza cala dal cielo: una sottile malinconia, palpabile e opprimente, si espande ovunque, nelle strade vuote, nelle piazze, nei clivi, sulle rive, si avviluppa al mobilio e alle povere cose ammucchiate sulla via in attesa di essere caricate sulle navi.”.
E poi per andare dove. In Italia? Non erano graditi e quando arrivarono furono emarginati e trattati come indesiderati. E pensare che tanto si sentivano legati all’Italia che un’eroina di Pola, Maria Pasquinelli, arrivò ad assassinare il 10 febbraio 1947 il generale inglese Robert de Winton, poiché in quello stesso giorno con i trattati di pace firmati a Parigi Pola veniva assegnata ai titini. “E l’Italia che ha fatto?”: “Ha lasciato che foibe ed esodo avvenissero nell’indifferenza della gente.”; “Un noto personaggio politico della Prima Repubblica si espresse così: ‘Ä– stato un bene che dopo la guerra non si sia parlato di esodo e di foibe perché, con una Italia da ricostruire, avevamo bisogno dell’aiuto di tutte le forze dell’arco costituzionale. Se avessimo parlato di foibe e di esodo, avremmo dovuto parlare anche dei crimini commessi dal comunismo. E questo, allora, non era politicamente corretto’.”.
Tito costrinse gli italiani (oltre trecentomila) all’esodo avvalendosi non solo di violente rappresaglie e soperchierie, ma organizzando attentati contro gli italiani, il più tragico dei quali fu a Vergarolla il 18 agosto 1946, che causò la morte di 110 persone, tra cui un amico che l’autore non dimenticherà mai, Michele: “Il mare era rosso di sangue e i gabbiani banchettavano con i resti dei corpi dilaniati dall’esplosione che galleggiavano sulle acque antistanti Vergarolla.”.
La motonave ‘Toscana’ fu la prima a trasportare gli esuli. Li sbarcò ad Ancona. Ancora una volta attingiamo al diario della zia Lidia, sotto la data del 16 febbraio 1947: “All’entrata del porto di Ancona una moltitudine di persone si sta accalcando sulle rive per raccogliere festosamente noi esuli.
Purtroppo il mio ottimismo si è tramutato in cocente delusione. In effetti la manifestazione di accoglienza è organizzata dal Partito Comunista Italiano. La folla ci sta investendo con una grandinata di insulti e maledizioni. È la sorpresa più sconvolgente che abbia mai provato nel vedere quel tripudio di bandiere rosse con la falce e il martello manifestare tutta la rabbia e l’ostilità di un’Italia che non riconosco. Non sono grida di benevola accoglienza quelle che sento, ma di offesa: ‘Sporchi fascisti non vi vogliamo, il vostro posto è nelle foibe, tornatevene a casa vostra.’”.
Addirittura è organizzato a Bologna uno sciopero contro gli esuli che sono fermi alla stazione. Ancora dal diario di zia Lidia alla data 17 febbraio 1947: “L’altoparlante della stazione sta diffondendo un annuncio: ‘Si avvertono le maestranze e i signori viaggiatori che il sindacato autonomo dei lavoratori delle Ferrovie dello Stato ha proclamato lo sciopero in segno di protesta contro il treno dei fascisti fermo sul terzo binario’.
I viveri a noi riservati vengono gettati nei cassoni delle immondizie e il latte destinato ai bambini versato sui binari sotto i nostri occhi increduli.”.
La terza parte del libro si intitola “Le mie scelte esistenziali”, e interessano per il modo in cui il fanciullo Piero Tarticchio ha cercato di reagire all’amarezza e alla delusione di un’Italia cinica e nemica.
Il lettore troverà, espresse con uno stile che continua ad essere levigato, limpido e piacevole (si legga il bel capitolo dal titolo proustiano “Alla ricerca del tempo perduto”), gli scontri e gli incontri attraverso i quali l’autore è riuscito ad affermarsi come uomo e come artista: “Non rimpiansi le occasioni mancate, né mi scoraggiarono i primi insuccessi. Non parlai mai con nessuno delle mie frustrazioni, né del vuoto che provavo per la fine efferata di mio padre. In psicoanalisi rimuovere i turbamenti significa guarire, ma io non volevo né guarire, né dimenticare. Solo ricordando potevo aggiungere nuovi stimoli per sviluppare la mia voglia di riscatto.”. E ancora: “Nulla è irrealizzabile quando a combattere prevale la volontà di riuscire e andare oltre i propri limiti.”.
Una storia che è anche una lezione di vita: “Non si muore né come individuo né come popolo, finché sarà possibile scrivere, su un foglio di carta o sullo schermo di un computer, le nostre memorie e le nostre speranze.”.
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