LETTERATURA: PITTURA: I MAESTRI: Guido Cavani e Gino Covili, un mirabile incontro. Il saggio in anteprima di Giorgio Bárberi Squarotti25 Febbraio 2009 Ci sono libri e libri. Quello che ho ricevuto in omaggio da Giorgio Bárberi Squarotti, il noto italianista (Guido Cavani: “Zebio Còtal”, Covilarte, 2008), è di quelli che esaltano l’arte e scuotono ragione e sentimento. Sui siti sotto linkati troverete riprodotti molti lavori di Gino Covili:  Qui, invece, qualche ulteriore nota su Guido Cavani: (bdm) ________________________ Giorgio Bárberi Squarotti Ciò che immediatamente colpisce alla lettura del romanzo di Cavani, Zebio Còtal, è la contrapposizione profonda fra la vicenda, aspra, dolorosa, drammatica, violenta, con protagonista il contadino cupo, rissoso, amaro, chiuso, rancoroso, incapace di affetti, e l’insi Âstente lirismo delle descrizioni dei paesaggi collinari e di pianura emiliani, e soprattutto del mutare avventu Âroso e sempre esemplare di albe, tramonti, meriggi, notti, con l’accompagnamento dei venti, dei soli, delle lune, dei geli, delle arsure, che accompagnano le vicende del protagonista e della sua famiglia. Tanto duri, fino alla crudeltà e all’esasperazione dei compor Âtamenti e delle situazioni, sono gli episodi narrati, quanto più armoniose e raffinate sono le descrizioni per una continuità attentissima di sguardo come subli-mato e celeste degli aspetti della natura e dei tempi. C’è il senso dell’alternativa radicale fra i personaggi e il creato in sé, al di là e oltre (direi quasi altrove) di quanto fanno gli uomini e quali sono nella loro limita Âtezza, sordità , malignità , disperazione. Il campo di Zebio Còtal […] era un lembo tondeggiante di terre Âno incastrato fra i calanchi, che scendeva fino al fiume; così ripido che non si poteva ararlo coi buoi, ma bisognava dissodarlo a colpi di zappa. La terra era poca e le piogge ne portavano sempre via, nono Âstante che il contadino dalla parte della brughiera avesse sbarrato il margine con un muro a secco di sassi. Le rocce in molti punti affiora Âvano come le ossa sotto la pelle dei vecchi. Zebio lo seminava per tre quarti a grano e l’altro quarto lo coltivava a patate. Il grano ci veni Âva su a stento, disuguale; la pioggia lo spiantava, il vento lo piegava e lo torceva in tutti i sensi, il sole lo strinava, senza lasciarlo maturare. (p. 15)  È l’eccesso ben rilevato ed esasperato della condi Âzione peggiore che ci possa essere di un campo: è come una punizione preventiva che misteriosamente Zebio abbia avuto nel momento stesso della nascita e dell’essere contadino, ma nella situazione peggiore, là dove più maligna e ostile è la natura. È come se Zebio fosse stato mandato lì, con quel campo miserevole e nemico, perché Dio potesse vedere come se la cavi, in tanta difficoltà e disperazione. Il campo sassoso, ingrato, dove il seme del grano non può allignare se non a stento, senza dare quasi nessun frutto in cambio di tanta fatica. Il grano seminato sembra offrire, nel momento della maturazione, come una parodia di frutto e di soddisfazione per la fatica. La natura si è fatta matrigna nel modo estremo proprio sul piccolo campo di Zebio. Anche le patate allignavano alla meglio. Quella terraccia rossa, che quando pioveva diventava fango attaccaticcio e che quando si seccava diventava cemento, non permetteva alla pianta di radicare prima e di crescere poi. (p. 15)  Per coltivare il campo e salvarlo dalle frane, c’è un muro, ma anch’esso è precario: “Zebio, e sua moglie Placida, stavano ricostruendo un tratto di muro crolla Âto per cedimento”. Non c’è difesa che tenga contro l’ostilità radicale della natura in quel piccolo campo: non c’è nessuna pietra d’angolo come difesa di fronte a piogge, venti, soli feroci (ed è un’altra citazione evangelica). Sembra concretarsi in quel campo tutta la malignità della natura caduta. Da questo punto inizia Âle di descrizione e vicenda nasce fondamentalmente tutta la storia di Zebio e della sua famiglia. L’ultima descrizione del campo di Zebio corona mirabilmente l’assoluta negatività della condizione umana del con Âtadino, della moglie e dei figli: Il campo aveva un solo albero in cresta dove il terreno era più arido; un vecchio faggio contorto e rosicchiato dal vento, con tre rami Cavani rende sempre più esemplare la descrizione del campo di Zebio: sì la Bibbia (i Vangeli), ma anche il piccolo campo di Dio di Caldwell, la fonte che si sta disseccando come similitudine, che rimanda a quella dannunziana de La fiaccola sotto il moggio, perché uguale sarà il destino della famiglia di Zebio a quella dei Sangro; l’albero è come quello della croce a cui sono appesi i crocefissi; le foglie misere e scarsissime, come ulteriore simbolo della corsa verso la morte di Zebio e della famiglia (l’albero della famiglia Còtal che si sta disseccando); il vento della morte “rosicchia” l’albero della vita. Dalla contrada sbucò un vecchio minacciando col bastone alzato i ragazzi. È un personaggio allegorico: è il preannuncio e la rivelazione della sorte di Zebio alla fine del suo viag Âgio per le pianure, le colline, le montagne, alla ricerca di un significato profondo della vita, dopo che ormai ha perduto ogni riferimento e ogni certezza (la fami Âglia, la casa, la terra); e quando avviene l’incontro fra Zebio e Zuello, e i due non si riconoscono o, meglio, sospettano (sanno) di essere uno di fronte all’altro, nel momento supremo e decisivo della pietà o del definitivo abbandono e ripudio, ma entrambi dopo si allon Âtanano per le loro strade opposte, il giovane ad accom Âpagnare il suo gregge, libero e inesorabile, l’altro verso l’inverno e la scomparsa sotto la neve. Quando fu davanti alla porta dell’oratorio, lasciò cadere il sacco ai suoi piedi, si fece il segno della croce tre volte e tre volte s’inchinò, poi si sedette sul gradino della soglia, vicino a Zuello. La vicenda di Zebio e della sua famiglia viene a essere preparata dall’arrivo del vecchio davanti a Zuello: propone la circolarità come struttura e anda Âmento, almeno come inquadramento fondamentale fra inizio e fine, entrambi di rilevata allegoricità . La comparsa di Zuello di fronte al padre è preannunciata dall’apparizione del vecchio nel paese dove il ragazzo è andato a prendere il sacco di zolfo, ma senza l’allu Âsione infernale che accompagna la punizione dei parenti per aver speso cento lire per mangiare e la suc Âcessiva rivolta contro il padre che lo maledice; e a que Âsto punto fa pensare al Padre divino, quello spietato delle maledizioni e delle condanne dell’Antico Testamento. Il vecchio si fa tre segni di croce e tre volte si inchina davanti alla canonica e all’oratorio della chiesa, come fa Zebio, quando arriva in Garfagnana sull’alpe, davanti alla “millenaria chiesa dove si con Âservano i corpi di San Pellegrino e di San Bianco, pro Âtettori dell’alta Garfagnana” (e i due nomi sono quelli dei due figli, l’uno scomparso, l’altro morto). Racconta Cavani: “Zebio si inginocchiò davanti al portale, baciò la terra, si fece il segno della croce, poi, congiunte le mani, si mise a pregare e a ricordare”. Come il vecchio, anche Zebio “si sedette al riparo del vento sul gradino del portale e si lasciò vincere dal torpore della stan Âchezza”. Vengono l’uno e l’altro, uguali, da lontano, da infinitamente lontano. L’apparizione del vecchio di Zuello è il preannuncio dell’altro, tragico incontro, quello fra il padre macerato e disperato e il giovane che fa il pastore. Il modo di mangiare del vecchio rimanda al pezzo di pane che Zebio riesce a ricevere per misericordia; e i gesti e le parole del vecchio sono analoghi a quelli di Zebio durante il suo viaggio nella ricerca del significato della propria esistenza. Non sanno più, né l’uno né l’altro, dove vanno, se non verso la morte; e si chiedono ancora nel modo più con Âfuso il senso del tanto vagare. Zuello “continuò a guardarlo [il vecchio] fissamente”, così come il ragaz Âzo fisserà il padre, riconoscendolo e ripudiandolo per sempre.  Il vecchio tirò fuori dal sacco un pezzo di pane e cominciò a masticarlo. Sotto la pelle tesa, incartapecorita, la mandibola si muo Âveva disordinatamente. Mangiava e parlava accompagnando con gesti vaghi delle braccia parole incomprensibili. Nelle pause scuo Âteva la testa con tristezza profonda e i suoi occhi avevano strani bagliori. (p. 5)  È una visione, un segno, una lezione amaramente tragica: così è la fine della vita e di ogni azione, e il viaggio di conoscenza non porta ad altro che a gesti vaghi e a parole incomprensibili, nel perdurare, nel Âl’estrema vecchiaia, di quella violenza che la condizio Âne umana comporta, in chi tanto ha faticato e sofferto e subito il male degli uomini. Zuello a poco a poco si addormenta. È il sonno del sogno del vecchio che pre Âannuncia la conclusione della vicenda del padre, di sé, della sua famiglia; e non per nulla, quando il ragazzo si sveglia, il vecchio è scomparso: Zuello cominciò a sbadigliare. Le ombre del bosco s’allungava Âno sul selciato; con le ombre s’allungò egli pure nella pace del sonno. Dormì a lungo, profondamente. Quando si svegliò, il vecchio non c’era più. (p. 5)  Anche questo non è che allegoria: il sonno profon Âdo è l’allegoria della trasformazione della sorte di Zuello (non senza, forse, qualche allusione al sogno nel sonno della tradizione classica e dantesca). Il vec Âchio non c’è più quando Zuello si risveglia, mutato, perché sarà , dopo, in grado di decidere la ribellione contro lo zio e la famiglia che ne hanno fatto uno schiavo e contro il padre, che lo maledice. Sia pure oscuramente, il ragazzo ha capito quale dovrà essere la sua scelta, il suo destino, e dove andrà a finire il padre, ugualmente in viaggio come il vecchio che arri Âva da tanto lontano, senza trovare né quiete né sapien Âza del vivere. Si ricordi ancora il fatto che il vecchio è scalzo, e tale diventa Zebio quando per il tanto cam Âminare le sue scarpe si sono del tutto consumate: Zebio si guardò i piedi: le scarpe rosicchiate, le calze strappate, lasciavano uscire come da una bocca le dita. (p. 178)  Quando Zebio giunge alla chiesa che conserva i corpi dei santi da cui ha dato il nome ai due figli minori, ha appena attraversato l’estrema ribellione contro gli uomini che ha incontrato in “un gruppetto di case addossato in quel punto alla montagna”, e lì è entrato nell’osteria. È trattato male, nessuno si cura di lui, nell’osteria la padrona non vorrebbe dargli nulla da bere e da mangiare, anche se Zebio dimostra di avere denaro per pagare, e alla fine è fatto oggetto di grida, risate, beffe dal gruppo di ragazzi che si sono riuniti a guardarlo, e lo stesso fanno le donne, anch’es Âse venute fuori a vederlo con astio e malignità . I ragaz Âzi incominciano a girargli intorno cantando, per irri Âsione. Nel suo viaggio Zebio ha incontrato e ancora incontrerà persone pietose: una vedova che gli dà le scarpe e le calze del marito morto, l’elemosina dei pel Âlegrini nell’alta Garfagnana, il cantoniere che lo ospita per una notte di gelo. Ma soprattutto ritrova nel viag Âgio la stessa malignità che ha sperimentato nel suo paese e che lo ha ossessionato fino a spingerlo ad andarsene, a viaggiare e a sperimentare la varietà , se è possibile, della condizione umana: Zebio per un poco li guardò sorpreso: quella ridda gli dava le vertigini, quelle voci acute lo stordivano; riuscì a capire però come la cattiveria umana, che non ha limiti, assuma, specialmente nelle donne e nei ragazzi, forme crudeli. (p. 182) Zebio è vittima e causa al tempo stesso del male del mondo. E una vittima nel momento in cui le donne e i ragazzi lo sbeffeggiano, ma è anche partecipe della violenza che pure ha perpetrato, soprattutto nei con Âfronti della famiglia: la moglie, Zuello, Glizia, Bianco, questo l’innocente e il puro, l’unico senza colpa, e tanto debole e fragile da non essere in grado di evita Âre le botte del padre, fino ad acuire la sua condizione di destinato alla morte: Ad un tratto fu preso da un’ira sorda che lo fece vibrare e gli arroventò il sangue. Si tolse da tracolla l’ombrello ed afferratolo a due mani per la punta cominciò a rotearlo in cerchio con violenza. La ragazzaglia si disperse sulla strada vociando: le donne spaventate entrarono nell’osteria chiudendo la porta. Il male del mondo è anche delle donne e dei ragaz Âzi, che, anzi, Zebio verifica essere più maligni e cattivi, in quanto meno ipocriti e più aperti, sfrontati, spietati. La reazione di Zebio è il rendere dente per dente, minacciandoli con l’ombrello come un’arma: ma il contadino è consapevole che la minaccia è del tutto vana, tanto è vero che, non appena ha rimesso a posto l’ombrello, i ragazzi gli tirano addosso sassi e ciuffi d’erba (non diversamente da quanto fanno i ragazzac Âci milanesi, quando il governatore di Milano se ne va, per punizione del non essere riuscito a conquistare Casale, a quanto racconta Manzoni; ma l’episodio è grottesco e parodico nei Promessi Sposi, mentre è dolo Âroso e drammatico nel romanzo di Cavani). Zebio si volse senza traballare, massiccio sui piedi come su di un piedistallo, e gridò: – Sono i ragazzi che uccidono i vecchi; questa è la vostra legge. I vostri figli sono serpi, e maledetti siano fino alla terza generazione: sono i poveri che uccidono i poveri, e maledette siano le vostre case. (p. 183) Zebio si trasforma nel profeta biblico, non traballa più, come prima, quando era semiubriaco, e nello sca Âtenare sui ragazzi e sull’intero paese la maledizione si sente come sul piedistallo che lo consacra, appunto, profeta; e la maledizione ha la forma rituale (“male Âdetti … fino alla terza generazione”). Ci sono in più quella consapevolezza e quella lucidità che trasfigura il contadino di fronte alle esperienze del mondo, quando riflette sulla condizione dell’uomo e della sto Âria (il personaggio è analogo, allora, ai profeti contadi Âni di D’Annunzio: nel teatro La figlia di Iorio, La fiacco Âla sotto il moggio, nella narrativa il Trionfo della Morte, e più ancora, prima, L’innocente, nell’episodio contadino di derivazione tolstoiana). Anche la similitudine delle serpi per indicare i ragazzi che uccidono i vecchi è biblica, ma in più c’è la considerazione morale e socia Âle: “sono i poveri che uccidono i poveri”, cioè il male più disperato e spietato è quello di chi, povero, perse Âguita chi è altrettanto povero, anzi è più miserabile ancora. La risposta della dorma più giovane rileva l’impostazione biblica del comportamento e della maledizione di Zebio:  – Non fate il profeta – gridò la più giovane delle donne, ma si coprì subito il capo col fazzoletto. È come se, non diversamente dai ragazzi di Eliseo, quelli che perseguirono Zebio fossero stati puniti annientati e cancellati. La maledizione profetica fa paura alle donne: sentono che è seria e tremenda. Zebio la conclude sempre secondo la formula biblica: “Zebio tese i pugni. – Non resti di queste case, – gridò – pietra su pietra. In quel momento anche il sole si oscurò”. Il viaggio era stato faticoso; avevano fatto la strada a piedi, vivendo di carità , dormendo nelle stalle e nei fienili. Ricordava con precisione l’arrivo al santuario in una giornata di vento, col borgo stranamente illuminato da un passaggio di nuvole bianche. Anche sua madre si era inginocchiata sulla nuda terra e l’aveva baciata ripe Âtute volte piangendo e sollevando di tanto in tanto le povere braccia senza più forza verso il cielo. (pp. 184-185)  È l’immagine della “madre dolorosa”, che guarda al cielo, ma piange e non parla. Ora tocca a Zebio com Âpiere gli stessi atti della madre. La rappresentazione è netta, essenziale. Zebio è salito fin lassù, alla ricerca di comprensione e di riscatto dalla sua parte di male, che ha compiuto nel suo mondo, fino anche alla male Âdizione rivolta ai ragazzi e alle donne e a tutto il paese che ha attraversato, beffeggiandolo e schiacciandolo. Ma non c’è consolazione nella memoria di Zebio, nel ritornare al santuario: eppure i nomi dei due santi i cui corpi sono lì conservati sono quelli stessi dei due figli, uno perdutosi nel male, l’altro morto bambino dopo tanto dolore e tanta inettitudine a vivere. I due santi onorati e venerati non sono serviti a preservare i figli dal male fisico e morale. L’aspirazione di Zebio, allo Âra, è soltanto quella della morte. Il viaggio l’ha condot Âto fino alla fede e alla preghiera, ma non è un confor Âto e neppure la speranza della morte in pace con gli uomini e con il suo passato: Ma il passato non era che cenere, ed egli, dopo tanti anni, ritor Ânava ormai vecchio e forse per l’ultima volta a prosternarsi e a chie Âdere la pace; quella dei suoi poveri morti, quella che soltanto la morte può dare. Si sentiva indegno di venerare le sante reliquie; il suo passato turbolento lo aveva davanti agli occhi come se fosse dipinto sui muri, ma sentiva anche di meritare pietà , perché la colpa di quanto era avvenuto non era soltanto sua, perché stava già scon Âtando duramente la sua parte di male. (p. 185)  Il viaggio di Zebio vuole essere un’espiazione, ma egli non si è ancora umiliato, non ha accettato la sua parte di male fino in fondo. La salita al santuario si con Âclude nel fallimento: se tutto il passato non è che cene Âre (e l’espressione forse deleddiana appartiene al livel Âlo più alto della scrittura di Cavani), egli non può trova Âre la pace del cuore nella quiete custodita dai santi, sulla montagna. È un altro emblema significativo, e la madre che alza le braccia al cielo ne è correlativo esemplare. Di tanto in tanto, in quella specie di lucido vuoto, vedeva spec Âchiata la sua faccia irriconoscibile: una faccia di profeta dagli occhi diabolici. (p. 186)  Zebio vede se stesso come è, per l’assoluta verità dello specchio dei cristalli della chiesa. Non c’è, allora, per lui nessuna possibilità di pace, alla conclusione dell’espiazione. I santi che guardano al cielo non vedono il contadino che essi riconoscono quale davve Âro è sempre stato ed è in quel momento, nel punto che dovrebbe essere decisivo e sacrale del suo viaggio dopo che ha deciso di rinunciare alla casa, alla terra (e queste erano le uniche cose che davvero possedeva nella precarietà perduta del mondo), alla famiglia, alla memoria stessa del passato, ai suoi morti, la cui fine è pur stata legata con la sua violenza, con i suoi disordi Âni di ubriacone e di inetto a farsi strada nella vita, nel suo paese, fra la gente che lo respinge o lo scaccia o lo perseguita. Il viaggio deve continuare: dopo, il com Âportamento di Zebio diventa alternamente parodico e pietoso, e la pace dell’anima, infatti, si trasforma in un torpore amaro (e si ricordi il sonno profondo di Zuello all’inizio del romanzo, e il vecchio che è apparso davanti al ragazzo). Il torpore è la lezione dell’impos Âsibilità di compassione e di pietà , che Zebio pensa di meritare. Ma in quel torpore egli ha come un sogno di morte: l’abisso della condanna eterna, nella stanchez Âza enorme da cui si sente preso: L’avvilimento lo prese; si sedette al riparo del vento sul gradino del portale e si lasciò vincere dal torpore della stanchezza. Gli sem Âbrava a tratti di sprofondare in un abisso; ma, riaprendo gli occhi, incontrava subito il sole abbagliante e s’accorgeva che le cose erano ferme al loro posto, immutate e immutabili. (p. 186) L’emozione, la ricerca del vero della vita e di sé, l’espiazione urtano contro l’oggettività delle cose, che non gli dicono nulla. – C’è mio padre – continuò Glizia tremando. – Non sarà mica il diavolo tuo padre! – esclamò la padrona. – Credevo fosse capitata una disgrazia. Glizia ha pietà per il padre, arrivato dalla neve e dal gelo, ma non vuole vederlo; e, del resto, Zebio è ormai al di là della vita e della famiglia dissolta, e anche al di là del tempo e delle stagioni e delle intem Âperie. Zebio non parla quasi con la padrona dell’oste Âria, ma, da solo, mentre si scuote la neve di dosso e mentre mangia, si esprime per sentenze assolute: La neve gli si scioglieva sui panni formando tanti rivoletti e ben presto bagnò il pavimento intorno alla sedia. – Fossi tutto di neve e mi potessi sciogliere, – brontolò Zebio – invece la neve se ne va ed io resto. (p. 197)  È l’aspirazione all’annullamento di sé, ma anche il bisogno di rimanere e andare oltre, nel viaggio di espiazione e di conoscenza. La neve, il gelo, la solitu Âdine, la fatica, la vecchiaia sono la sua sorte, ma anche la sua scelta. La tragicità del discorso si acuisce ulteriormente, quando Zebio risponde a una domanda generica e insignificante della padrona:  – Dove siete diretto? – chiese tanto per attaccare discorso. – Un povero non sa mai dove va, – rispose Zebio, – cammina, ecco tutto. (p. 198)  Ritornando a Glizia, la padrona corregge un poco la sentenza di Zebio, in realtà rendendola più netta, più grandiosa ed esemplare: Gli ha chiesto dove va? – domandò Glizia scuotendosi dal suo torpore. – Sì, – rispose la padrona – mi ha detto che un povero non sa mai dove va a finire. (p. 198)  Anche in altri paesi la condizione di Zebio in viag Âgio rimanda alla considerazione che Gesù fa su di sé, quando dice che gli animali trovano, per la notte, il rifugio, ma il Figlio dell’Uomo non ha neppure una pietra per riposare. Zebio è ormai al di là della realtà , della vita com’è, delle altre persone, della memoria stessa della famiglia perduta. È il “povero”, assoluto ed esemplare, tanto è vero che vaga per le colline, i paesi, le montagne, e non ha più una meta precisa, perché non ha nessuna possibilità di trovare pace. È anche al di là degli stenti, della fatica nel camminare, della morte. Riflette Zebio: A me va bene questo tempo, […] sì, a me va bene e a dispetto di tutti. Nevichi per tutta l’eternità ; la neve coprirà le montagne, coprirà le case, coprirà gli alberi, ma non riuscirà a coprirmi: il fred Âdo che ha ucciso le erbe, gli uccelli, non riuscirà ad uccidermi. Sono duro di scorza; per me morire è difficile come vivere. (p. 198)  È uno dei punti più alti dei tanti monologhi e dei tanti discorsi di Zebio, pronunciato da solo, nella soli Âtudine della sua esperienza, sia nel suo paese, sia nei paesi vicini, sia soprattutto dopo la partenza dalla sua casa e dalla sua terra e dopo che ha incominciato a viaggiare per il mondo. Il monologo è epico, grandio Âso, anche per la straordinaria enfasi della contrapposi Âzione fra sé e la stagione della neve e della cancellazio Âne della vita. È una sfida e, al tempo stesso, è un’esal Âtazione di sé, contro la Natura e contro Dio stesso. Il mondo degli uomini e della Natura può essere definitivamente sepolto sotto la neve, che è l’allegoria della fine dell’universo umano (le case) e degli alberi, degli uccelli, delle montagne, di tutto ciò che è stato creato da Dio; ma Zebio è immortale, è uscito da tutto il crea Âto, e la sua eccezionalità è al di là del morire come è al di là del vivere, prima sulla sua terra e fra la gente invida e maligna che lo perseguita, dopo quando inve Âce affronta la potenza della morte che si è concentrata nell’infinita nevicata da cui è uscito per entrare nel Âl’osteria dov’è Glizia, per poi rituffarsi solo, sicuro, determinato. Fanno la carità non a me, ma ai miei cenci, … non sono io come uomo che parlo al loro cuore, sono questi stracci che porto in giro: ma qui non sono abbastanza povero per mettermi in ginocchio; qui vivo Âno i miei nemici e qui pago. (p. 199)  C’è, nell’episodio, la dimostrazione in forma narra Âtiva della descrizione di Zebio che si specchia sui vetri delle teche dove sono conservati i corpi di san Pellegrino e di san Bianco, quando appare come un profeta diabolico. C’è un orgoglio luciferino nel momento supremo della vicenda di Zebio: egli non vuole compassione, vuole essere assolutamente libero da ogni impegno e da ogni dovere o riconoscenza, e capace, di conseguenza, di uscire dall’osteria e ritorna Âre in mezzo alla neve, sicuro di vincere il gelo e la morte. L’ulteriore dialogo con la padrona chiarisce la scelta di Zebio, in quel punto decisivo del viaggio non verso la morte, ma contro la morte: Avete mangiato? – chiese. – Quello che ho ordinato sì, – rispo Âse Zebio, – il resto non me lo fa ingoiare neanche domeneddio. Quan Âto vi devo? – Tutto pagato – disse la padrona. – Pagato! Perché? Da chi? – gridò Zebio. – Dite a quella persona che non mi presto a nes Âsun gioco, neppure a quello di suffragare i suoi morti; i quali morti, siano essi in purgatorio o all’inferno, ci stiano pure che a me non importa niente. Si precisa ulteriormente la scelta di Zebio solo con Âtro il mondo intero, si tratti delle persone che pure provano per lui qualche compassione, o di altri del tutto indifferenti alla sua vecchiaia, alla sua miseria, al suo viaggio verso quel misterioso “altrove” divino o demoniaco, dove ritrovare un significato dell’esisten Âza, ma soprattutto con cui affrontarsi a faccia a faccia, nella sfida suprema, per vincere la malignità del mondo e la morte. – Mi sembra di aver fatto un brutto sogno, – disse togliendosi dalla finestra – ma spero che Dio l’aiuterà , ne abbiamo bisogno tutti e due. – Tu ne hai merito, – rispose la padrona – lui non so. – Lui ne ha più bisogno di me – l’interruppe Glizia ed uscì a capo chino dalla cucina per riprendere il suo lavoro. (p. 202)  Dopo, la vicenda di Zebio si accelera nell’estrema sfida contro il gelo, la neve e la morte. La neve si pre Âsenta come sempre più minacciosa, crudele lezione della risposta della morte alla sfida del vecchio: Appena in contrada, Zebio si trovò confuso: il turbinio dei fiocchi era così fitto da togliere ogni visuale. Voltò a destra seguendo le orme dei passanti: il nevischio gli frustava la faccia, gli entrava negli occhi accecandolo; il vento era gelido: ad un dato punto vide nel turbinio una massa nera. Si avvicinò, era un camion carico di legna. (p. 202)  La descrizione della nevicata è ripetuta, anche con gli stessi termini, che ritorneranno dopo ancora, quando Zebio sarà salito sulla catasta di legna e il camion si metterà in moto. Cavani vuole rilevare sem Âpre di più l’ultima battaglia e la sconfitta mortale di Zebio, che, sotto la neve, non vede più nulla, e segue allora le orme d’altri che lì sono passati; ed ecco allo Âra la prima dimostrazione della disfatta del contadi Âno, che si è dichiarato capace di vincere l’inverno e il gelo e il male del mondo e la Natura ostile. I passi sono ingannevoli, non solo quelli che indicano la sua vera strada. Sono quelli degli uomini maligni, di quelli che fingono pietà , di quelli che, pur essendo dello stesso sangue, sono stati incapaci di amarlo dav Âvero, come anch’egli, del resto, è stato incapace d’amore. La “massa nera”, come dopo Zebio ricono Âscerà (ma è troppo tardi), si concreta, sì, in un camion, ma appare prima come la figura della morte. Zebio crede che sia il camion che, sotto tanta neve e vento, possa trasportarlo sulla sua strada, fino a Serra, dove vuole andare perché questo è il suo destino; invece lo condurrà alla morte, e la sfida è tragicamente e disperatamente perduta. Non arriverà mai alla sua strada. La morte vince. I due camionisti dicono poche parole in risposta alla domanda se passano per Serra: gli offrono di salire sulla catasta di legna, all’aperto, per Âché non c’è posto nella cabina, ma fanno osservare al vecchio con indifferenza che è l’unica cosa che gli possono offrire per il viaggio. Zebio accetta ma subito comprende che non ci sarà più scampo per lui: La legna era coperta di neve; egli si sedette con le spalle voltate al motore: non aveva nessun riparo intorno e solo tenendosi stretto alle corde poteva evitare di cadere. Si pentì subito di essere salito, ma ormai il camion si era avviato scivolando lentamente fra le case; per un vicolo raggiunse la strada principale, poi accelerò la corsa. (p. 203)  Zebio ha chiesto, per una volta dopo tanto viaggiare, un aiuto; ma è quello che lo accompagnerà e lo porterà alla morte, cioè alla sconfitta mortale. La neve, il vento, il camion sono tutti strumenti che collaborano alla disfatta di Zebio, che ha preteso di essere più forte dell’inverno e della morte: e sono obiettivamente ecce Âzionali, eppure tanto è necessario per domare alla fine il vecchio contadino dalla casa miserabile e dal campobrullo e ingrato. Il vento tagliava la faccia; le case e la gente fuggivano ai lati, fra il turbinio sempre più fitto dei fiocchi. Zebio provò l’impressione di esser nudo e sentì alle mani afferrate alle corde un dolore acuto. (p. 203) Ecco: Zebio non ha più difesa nel momento più difficile e ostile della sua esistenza, nella violenza più crudele della Natura che si accanisce su di lui: dopo che ha accettato di salire sul camion, ha ceduto alla sua libertà e alla sua forza. E solo e indifeso ormai: la vita, gli abitanti, le case fuggono via, nella sproposita Âta velocità del camion. Non c’è che la morte con tutto il suo potere che si accanisce nel ribelle che pretende di essere il più forte, a malgrado di tutte le violenze degli uomini e della Natura. Il mattino cresceva lentamente sulle colline dorate; le nuvole, da nere erano diventate bluastre; il vento andava perdendo forza; una fredda luce d’acquario si diffuse alterando i colori, deformando le cose, dando al paesaggio un senso di irrealtà […] raggiunse lentamen Âte il cielo libero ed inondò il paesaggio della sua luce d’argento. (p. 62)  La metamorfosi del mattino dalle nuvole ancora buie con la fredda luce spietata, di morte, all’apparire trionfale del sole è assolutamente allegorica, e rimanda alla raffigurazione della morte del santo, che sale verso il cielo, e il sole è la figura di Dio che lo accoglie e glori Âfica. Tale appare Bianco: il santo bambino. Ma calcolata-mente lento è il trascorrere del tempo nel maturare degli effetti di luce e di nuvole, ed è necessario, prima della glorificazione di Bianco, che Pellegrino abbandoni il fra Âtello, e questi allora possa rivolgersi libero e solo a Dio: La costa finiva in una cappella di tufo dedicata alla Vergine. Vi giunsero mentre il sole sforacchiava le nubi sprazzando i monti più alti e solitari. Il vento era caduto sulla pianura violacea; sul loro capo si dilatavano lembi di turchino purissimo promettendo il buon tempo; dietro i monti di Serra brillava un sereno freddo. Bianco non accompagna il fratello, e le urla delle gazze sono emblematiche di fronte al silenzio di Bianco, che non piange, non chiede aiuto, ma soltanto ansa penosamente. La preghiera di Bianco è pronun Âciata davanti a una cappella misera, con un “piccolo altare nudo, scrostato, sparso di fiori vizzi”, e lì “si alzava una statua di terra cotta della Madonna, sverni Âciata dalle intemperie”. La cappella dove Bianco prega rileva esemplarmente la concezione del sacro che Cavani ha: l’altare nudo, i fiori vizzi, la statua della Madonna sverniciata dalle intemperie. È la più povera figura possibile della religione cristiana, quella davve Âro adeguata per l’antifrasi del Cristo, perché è il bam Âbino fragile, malato, che il padre pochi giorni prima ha picchiato crudelmente, essendo l’unico che, nella fami Âglia, non può difendersi né vuole fuggire, come Pellegrino, e che prega nella mattina ambigua fra nuvole e vento e speranza di sole, lui solo nel mondo spietato e insensato, ed è quindi degno di ascendere al cielo, a cui aspira: Il ragazzo si ricordò di non avere detto le orazioni del mattino, allora giunse le mani e si mise a pregare. Le parole appena accenna Âte dalle labbra erano interrotte di tanto in tanto dall’ansito crescente, mentre gli occhi guardavano in alto, cercando la strada lungo la quale stava per incamminarsi […] Bianco pregò a lungo; disse tutto quello che sapeva, poi continuò a dire quello che sentiva, e quando non gli vennero più parole alle labbra, rimase in estasi, con gli occhi rivolti lassù, verso cose che egli solo vedeva e capiva. Forse, nel segreto della sua anima, chiedeva che il viaggio che stava per intra Âprendere non fosse lungo, chiedeva di giungere presto nel paese azzurro dove i bimbi poveri vengono spogliati dei loro cenci e vesti Âti con abiti d’oro dagli angeli. (pp. 62-63)  Cavani usa il termine “estasi” e si affida, narrativa Âmente, alle raffigurazioni degli affreschi o delle statue con il santo che prega rivolto al cielo tutto affiso a Dio. Il viaggio che sta per compiere Bianco, allora, è il pre Âannuncio di quello che compirà il padre: sarà breve e trionfale quello del bambino, sarà senza luce e senza sapienza quello di Zebio, e la morte, nella notte di bufera di vento e neve, sarà misteriosa, disperata, insensata. Bianco rimasto solo si guardò intorno smarrito. È il contrasto troppo radicale fra l’estasi di Bianco che prega e Bianco in agonia, con i sussulti e le ango Âsce della morte che viene. Il viaggio di pace a cui aspi Âra Bianco nella sua preghiera incomincia, invece, nel Âl’esasperazione fisica della sofferenza crudele del Âl’agonia. Il patetico si trasforma nella descrizione scientifica della morte di un bambino malato, povero, vestito di cenci, picchiato dal padre, incapace di vive Âre. È il doppio punto di vista narrativo e morale di Cavani: il sacro e il naturalismo scientifico, quello ancora ottocentesco; ma in modo davvero straordinario, alla fine dell’episodio, Cavani giunge a esprimere la sua concezione tragica della vita e del mondo, cari Âca di emblemi e di commiserazione, di pateticità e di leopardiana indifferenza della Natura, delle azioni degli uomini, delle forme del tempo, dei suoni, della durata del giorno e della stagione. Ora, anch’egli era una cosa ferma, come tutte le cose che aveva intorno; una cosa che aveva vissuto e sofferto in silenzio, già lontana, come avvolta nella leggenda. Nessuno si era accorto di quella picco Âla tragedia. Le montagne indifferenti godevano il sole; il fogliame delle macchie mosso dall’aria fresca e leggiera, luccicava; il torrente scrosciava tranquillo e invisibile; il ronzio degli insetti empiva l’aria di sottili vibrazioni; gli uccelli cantavano; le voci degli uomini giun Âgevano fioche e calme dai campi; la pianura si era illimpidita. La riflessione sulla vita e sulla Natura indifferente della morte, si tratti di un bambino o di un uccello (e Cavani dà molto rilievo al rapporto, che è pascoliano: il bambino è come un uccello, fragile e puro), è mesco Âlata di pateticità e di sentenziosità (fondamentalmente biblica). Di colpo, il discorso passa dal livello lirico a quello altissimo della riflessione sul significato del vivere e del morire di fronte al trascorrere del tempo e all’assoluta disattenzione delle forme e degli esseri mobili e mutevoli nel mondo di fronte allo scandalo dell’immobilità della morte. Anche per questo Zebio, nell’estremo scorcio del suo viaggio, dichiara di voler sfidare la morte, dopo aver chiarito che i morti non significano più nulla, e sono, appunto, cose, come già è detto nell’episodio di Bianco e della gazza uccisa da Pellegrino con una sassata. La liricità di Cavani, a que Âsto punto, tenta il collegamento fra l’elencazione delle forme della natura e delle azioni umane e la tragicità della morte. Cavani parla di “quella piccola tragedia”, ma è, in realtà , enorme come ogni morte violenta e innaturale. C’è, infatti, un di più di angoscia per il dover rilevare la contraddizione fra la morte e la normalità della vita e delle vicende del tempo. Conclusivamente Cavani espone appieno l’enorme scandalo della “piccola tragedia”: l’orrore dell’altra vita che si serve proprio dei cadaveri per continuare a nutrirsi e andare avanti: “Da tutti i punti dell’orizzonte cominciarono a piovere mosche nere e lucide e ben presto i due corpi ne furono avvolti come da una nube” (p. 73, ed. 1958). Il dio infernale è, biblicamente, il signore delle mosche, cioè delle messaggiere della morte. Non c’è nulla di realistico nel modo con cui Cavani evoca l’arrivo delle mosche: da tutti i punti dell’orizzonte, cioè da tutti i confini della terra, come l’altro potere del mondo, quello della distruzione e della putrefazione, all’opposto del messaggio divino che si estende dovunque. Infine c’è l’allegoria del colombo candido che si ferma sul cielo, per un momento, a guardare i due cadaveri vicini, e, ripren Âdendo il volo, diventa l’immagine dell’anima pura di Bianco che sale al cielo (come nelle rappresentazioni pittoriche, ma anche con le ulteriori implicazioni letterarie della narrazione biblica, più specificamente evangelica, ma anche letterariamente, della Vita nova e del Paradiso danteschi):  Un colombo sbandato, di penna bianca, giunse a grande altezza sulla costa, portato dal vento. Per un momento ondeggiò sulle ali ferme come per guardare; poi sfrecciò via, perdendosi nel turchino. Come le mosche arrivano da tutto l’orizzonte ad avvolgere i due cadaveri “come da una nube” (di orro Âre, di dissacrazione, di putrefazione), così il colombo divino giunge portato dal vento altissimo a prendersi l’anima di Bianco per portarla in cielo e liberarla dalle mosche della morte, alle quali rimane soltanto la carne. Zebio tentennò un poco il capo in atto di sfida: – In questo male Âdetto paese – disse – sono più quelli che mi vogliono male che quel Âli che mi vogliono bene, ma vincerò lo stesso. […] – Sì, quando torne Ârete a casa, ditelo a tutti, ditelo dove nessuno mi conosce, ditelo a vostra moglie e ai vostri figli: Zebio vincerà lo stesso. […] Aspettò di oltrepassare la chiesa del Pradone, alta sul poggio sassoso, e tutta illuminata dalla luna, poi cominciò a cantare disperatamente destan Âdo echi lontani e accompagnando il suo canto con gesti violenti delle braccia come se volesse farlo salire fino a Dio. (pp. 79-80)  Prima, c’è qualche variazione ancora nella conse Âguenza dell’episodio di Bianco e della gazza. Tocca a Pellegrino dare alla madre la notizia della morte di Bianco, e il ragazzo non riesce neppure a parlare, nel Âl’eccesso della disperazione (ed è l’unica volta in cui egli avverte la tragicità della scomparsa del fratello, prima di uscire definitivamente dalla comunità degli uomini per vivere la sua esistenza di ribelle assoluto): “Pellegrino era arrivato a casa urlando e avviticchian Âdosi alle sue sottane, l’aveva trascinata, senza riuscire a dire una parola, verso la tragica costa”. Anche qui si può cogliere la contraddittorietà della narrazione di (Cavani: di fronte alla morte il narratore esalta la scrit Âtura fino a rilevare l’altra faccia del mondo rispetto a quello “reale”, verosimile, legato al canone della rap Âpresentazione dell’ambiente contadino, nella provin Âcia emiliana fra pianura, colline, fiumi, montagne; ed è il modo scelto da Cavani per offrire la verità , che è la violenza immotivata, l’esaltazione, la ribellione, soprattutto lo scandalo delle morti di fronte all’altro scandalo della Natura indifferente nella mutevolezza delle giornate, delle stagioni, di nuvole e sole, di vento e quiete. Il riconoscimento e il trasporto a casa del cadavere di Bianco a opera di Placida escono subito fuori della verosimiglianza per arrivare invece al sublime tragico; il fatto è che Cavani accetta le norme veristiche per poi uscirne fuori nell’esemplarità e nell’allegoria: “La sua creatura era distesa sui sassi, con le manine rattrappite, il volto cereo, gli occhi sbarrati”. È l’obiettività della raffigurazione della morte del bambino di contadini, ma subito dopo il discorso si trasfor Âma radicalmente nell’allegoria perfin troppo pedago Âgica (penso all’insistenza sulla gazza uccisa): La gazza non c’era più; un contadino con un calcio l’aveva fatta rotolare giù per la china, come se essa, che era stata per qualche ora compagna di morte del bimbo, fosse diventata una cosa immonda. (p. 70)  Dopo la morte di Bianco, Cavani aveva commentato che era diventato, come la gazza, una “cosa”. Adesso il contadino ha separato le due “cose” morte, la gazza dal bambino. Per qualche ora i due cadaveri erano stati insieme, sui sassi davanti alla cappella della Madonna: è la più essenziale e drammatica raffigurazione della morte, ed entrambi i cadaveri sono gli emblemi più dolorosi e aspri dello scandalo che è la morte. La povera donna non aveva avuto la forza d’urlare; se fosse stata capace, le sue urla avrebbero destato tutti gli echi della montagna, sarebbero giunte fino ai casolari più lontani. (p. 70)  Lo scandalo della morte innocente è concretata per più alto effetto nell’urlo silenzioso di Placida: ma in quel modo pure giunge fino alle montagne (la Natura indifferente) e fino ai più lontani luoghi abitati dagli uomini. Coerentemente, più oltre, la morte di Placida, della madre dolorosa, è descritta come una glorifica Âzione, a cui partecipano il prete, la gente che sempre più si affolla nella casa e nell’aia della donna, e tanti altri ancora arrivano, e tutte le campane suonano e infine il sole apre le nuvole e aureola la morta: Don Alcide recitò le preghiere dei defunti assieme a Nunzia, poi benedisse la salma. Il viso di Placida non era più piegato verso l’uscio in attesa della figlia, era rivolto in alto. (p. 163)  Di nuovo Cavani ripropone nella raffigurazione del transito della Vergine il canone della pittura religiosa. Placida è rivolta al cielo, non nella posizione estatica di Bianco, ma in quella di fede e di quiete della Madonna nel punto della fine. Anche l’arrivo delle donne è al di là della verosimiglianza, e ha un tono epico: Ora, dalle case di S. Rocco, le donne col capo ravvolto nel fazzo Âletto nero e la corona del rosario fra le dita scendevano lentamente in fila verso la casa di Placida: ben presto ne fu piena la stanza, la scala, la cucina, il cortile. Pregavano tutte sommessamente col capo chino sulle mani giunte; qualcuna piangeva. È l’affollarsi delle donne  e, dopo, degli uomini per il saluto e il reverente annuncio al mondo della morte di Placida, come se fosse una santa. La raffigurazione è pittorica proprio per la migliore celebrazione di quella perdita che è sacrale. Alle figure si uniscono le voci, ed è come se intorno alla morta un intero popolo si fosse riunito come il popolo dei pastori si era riunito per l’opposta nascita di Gesù intorno alla Vergine:  entrambi ideali, allegorici, non realistici. Si innalza ancora il discorso quando alle voci dei campi si aggiungono le campane, come se tutte le campane del mondo accogliessero la morte santa della donna, che ha tanto sofferto nel corpo e nell’anima e ha avuto come ultimo dolore la morte del bambino più dolce e fragile (come la Madonna): Le campane di Pazzano rintoccarono a morto, le campane di altre chiese sparse fra i monti si unirono ad esse accompagnando l’anima benedetta in cielo. (p. 164)  Cavani chiama “transito” la morte di Placida, ed è il termine tipico riferito alla scomparsa della Madonna. Le campane che suonano a morto sono quelle delle chiese fra i monti, cioè in alto, verso il cielo, e l’anima di Placida così può essere degnamente accompagnata fino al cielo. Un viandante dai capelli candidi, in viaggio lungo il sentiero, salì su di una piccola altura a prato, s’inginocchiò, baciò la terra poi levò le braccia in alto, rapito in Dio. Tutta la descrizione era intrisa di citazioni bibliche e dai leggendari dei santi. Il viandante è il santo che assiste alla morte di Placida e ne riconosce la santità , inginocchiandosi e rivolgendosi verso il cielo, come ringraziamento a Dio per la consacrazione della donna nella beatitudine celeste (tanto è vero che la luce del sole avvolge l’intera casa della morta, non sol Âtanto la salma). Per compiere tale atto il viandante sacro si alza su un’altura, là dove è un prato, e lì si inginocchia a baciare la terra: quella dove è vissuta Placida, ma trasfigurata allora dal campo avaro e miserabile su cui aveva faticato per tutta la sua esi Âstenza, in un’immagine dell’eden. Il disco del sole che diventa abbagliante lancia un raggio d’argento dall’al Âto fino al viandante e alla casa di Placida, ed è la cita Âzione della trasfigurazione di Gesù, riportata nell’am Âbito paesistico dove è vissuta la donna, ma anche que Âsto è mutato trionfalmente nella metamorfosi sacrale: montagne, colline, macchie, acque, prati, tutti a opera del transito della vittima dei tanti dolori e delle tante fatiche sono trasfigurati nello splendore della luce divina. Il raffinato e prezioso verbo “aureolò” consacra conclusivamente la figura e la vicenda di Placida; e il viandante divino si contrappone, allora, all’altro vian Âdante che vaga per i monti, le colline, le macchie, i fiumi, le pianure, ma senza pace, ribelle e violento, alla ricerca del senso della sua vita e di ogni altra vita. Ricordati, Zebio, che non hai più né terra, né casa, né moglie, né figli, e sei ora un viandante, solo un viandante; così come hai voluto, così come è avvenuto. (p. 190)  La scena avviene dentro la nebbia, il riconoscimen Âto è lungo, lento, allusivo: entrambi nell’incertezza delle figure capiscono di essersi incontrati, ma nessuno si rivela e dice le sue ragioni direttamente, a faccia a fac Âcia. Parlano come se fossero estranei, e quello che dico Âno è netto e aspro fino alla durezza radicale del cuore; ma il discorso è come se fosse rivolto ad altri, al padre come se fosse ancora nella sua casa e nella sua terra di contadino, a Zuello come se fosse sempre il ripudiato e il maledetto, e non il pastore libero della montagna da cui discende con il gregge perché sta arrivando l’inver Âno. Il dialogo è tramato di allusioni bibliche. E come se Zuello fosse il “figlio dell’uomo” che giudica e condan Âna il “padre” che lo ha maledetto, ma che soprattutto ha maltrattato la famiglia, come figura della condizione di tutti gli uomini sottoposti alla fatica, al dolore, al sacri Âficio, alla malattia, alla morte, e tutto senza senso, senza spiegazioni: Mio padre si chiama Zebio Còtal, – disse all’improvviso il gio Âvane – lo conoscete? […] – Lo conoscete allora? – chiese ritornandogli vicino e fissandolo con insistenza come per studiare l’effetto che quel nome poteva aver fatto nell’animo dello sconosciuto. Zebio se ne accorse.  Il padre appare ingiusto al figlio pastore di pecore: c’è l’eco del rapporto capovolto fra il Dio Padre e il Figlio del Padre che recitano Zuello e Zebio. Al padre il figlio rimprovera di aver fatto male il mondo: la famiglia umana è costretta a soffrire, e non può avere altro che sesso (figli), vino e miseria. Il padre non ha dato altro; e per questo Zuello dichiara di non voler più rivederlo e neppure esprimergli il suo saluto quando il viandante l’incontrasse: Se ritornate a S. Rocco […] ed incontrate mio padre, ditegli: ho visto tuo figlio, è un giovane ormai e fa il pastore. La strada fra il padre e il figlio si divarica radical Âmente, proprio nel punto dell’incontro e del dialogo, in mezzo alla nebbia, nell’incertezza fra riconoscimen Âto e infinta estraneità . Per la moglie […] ritrovava nel più profondo del cuore quello che non aveva mai sospettato di avere: l’affetto accumulato in lunghi anni di lotte e di sacrifici comuni; il ricordo della giovinezza serena. (p. 191)  Placida è stata l’unica gioia, la donna amata e par Âtecipe di affanni e nascite e lavoro almeno nella giovi Ânezza, cioè nell’origine del tempo. Tutto si è, dopo, perduto: il mondo si è degradato, quello umano del primo e unico conforto dell’amore giovanile. Il vian Âdante deve andare in giro per il mondo ostile e diffici Âle, solo, senza più neppure il conforto della memoria felice. Esemplarmente, dopo il momento decisivo del dialogo fra il padre e il figlio, la sigla conclusiva è data dalla descrizione allegorica del dissolversi della neb Âbia e del pieno e dolce rischiararsi del cielo: la nebbia si dissolveva; l’orizzonte s’allargava empiendosi di luce dorata. (p. 193)  Posso, a questo punto, ritornare alla fine tragica del viaggio di Zebio. La nevicata diventa una bufera: quella più violenta, esasperata, perfettamente adatta per la rappresentazione lucida e terribile della scom Âparsa di Zebio che ha sfidato la morte, il ribelle supre Âmo al destino di malignità , fatica, sesso, disperazione, dissoluzione della famiglia come di tutte le vite, umane e animali. La bufera che affronta Zebio, salito sul legname del camion, è quella diabolica, infernale, e sembra eterna, come se stesse cancellando il mondo intero dei vivi, uomini, case, alberi, acque, nella rive Âlazione della fine del tempo, che non esiste più coper Âto o oppresso dalla neve enorme, e il gelo è l’emblema non della purificazione, ma dell’assenza dei sensi, dei sentimenti, della ragione stessa (non per nulla monsieur Ouine dichiara per bocca di Bernanos che l’infer Âno è gelido, e del resto Dante colloca i traditori al fondo nell’inferno nella ghiaccia di Cocito): Il paese sparì nella bufera: il camion correva ora fra basse colline ammantate di neve e macchie nere di pini; di tanto in tanto qualche casa fuggiva ai lati frusciando; passarono su di ponte: un filo d’acqua giallastra correva nel torrente fra due sponde di neve. Tutto sembra Âva irreale nella molle scia della velocità e nei vortici di neve che la seguivano. (p. 203)  Non Zebio ha scelto il viaggio da compiere, ma è stato imprigionato e trascinato dal camion non più realistico pur nella sua verisimiglianza meccanica, ma come lo strumento della bufera che trascina verso la morte e il nulla il contadino che si è vantato di essere più forte delle intemperie, dell’inverno, della morte. Mentre egli è trascinato dalla bufera (infernale), sono salve e libere tutte le altre forme del mondo: le case, i pini, il torrente, il filo d’acqua che va altrove, aprendo Âsi il cammino fra le sponde di neve, le colline. – Ciascuno per la sua strada – riuscì a balbettare senza sapere perché, ma si accorse di essere caduto inavvedutamente in un tranel Âlo; sentì che la morte viaggiava con lui su quel carico di legna, su quel carico di legna, su quel camion che correva per una strada che non era la sua. (p. 203)  Finalmente Zebio capisce: è caduto nel tranello della morte vittoriosa, non c’è più scampo. La vicen Âda va avanti ora con una sapientissima lentezza, fra descrizioni e inquieta rivelazione dell’irrealtà dell’ultimo viaggio del contadino sulla strada non sua, ma della morte (e della perdizione). Provò a voltare il capo e a chiamare gli uomini che lo guidavano perché si fermassero e lo lasciassero scendere a terra, ma la sua voce era troppo fioca per superare tutto quel frastuono di ferraglia e tutto quell’urlio che lo avvolgeva. (p. 204)  La bufera di neve e vento è accompagnata dal fra Âgore della ferraglia del camion. L’epicità si fa sempre più tesa e tragica: ancora, a malgrado di tutto, Zebio resiste, perché intanto il tempo è diventato astratto, irriconoscibili i luoghi, anche se per tutta la vicenda del romanzo Serra è più volte citata e anche contemplata, ed è vicino alle colline, alla terra, al torrente, alla gente che lo odia e che egli odia. La sospensione del tempo rileva nel modo più esemplare il significato dell’ultimo viaggio di Zebio in compagnia della morte: Il freddo lo vinceva lentamente; si accorse che le mani rattrappi Âte non stringevano più le corde ed ebbe con terrore coscienza della fine. Da quanto tempo viaggiavano? a quale punto della strada erano giunti? (p. 204) Zebio ha già capito che la morte corre con lui sul camion allegorico, ma ancora intende battersi: è solo, ma superbamente deciso a non cedere ancora, anche se vento e neve sono diventati “pazzi”, fino al parossi Âsmo della violenza, perché tanto è necessario perché il contadino ubriacone, violento, disperato, il viaggiato Âre con la sua strada da percorrere per sperimentare tutte le forme della vita, possa essere, nella sua antifra Âstica grandiosità e onnipotenza, finalmente cancellato, anzi trasformato in un mucchio di cenci, non più un uomo: Provò a voltare la testa, ma non ci riuscì; il vento intorno a lui sembrava pazzo; la neve questa volta riusciva a coprirlo. Capì anche vagamente che l’unico modo per salvarsi era quello di stendersi in ischiena; provò a farlo, ma nello stesso momento il camion seguendo una curva voltò con violenza: Zebio si sentì portare via e precipitò come un sacco di cenci sulla strada. (p. 204)  Il camion della morte deve sterzare con violenza per scuoterne via Zebio, al di là di ogni realisticità ancora una volta. È l’estremo evento, anche questo grandiosamente epico. La tragedia di Zebio, assoluta Âmente esemplare, così si compie. È il trionfo della morte, ma Zebio ha pur combattuto la sua degna bat Âtaglia contro la realtà e la condizione del mondo, solo; e straordinariamente epici riescono coerentemente la bufera di neve enorme e di vento pazzo, il camion che corre a una velocità insensata nella strada innevata, il gelo terribile, i misteriosi camionisti che dicono a Zebio, se vuole andare a Serra, di salire sulla catasta di legna e di neve. Zebio è scomparso e anche questo evento appartiene al canone dell’epica e del tragico (e del sacro, come Elia sul carro di fuoco all’opposto del camion di neve di Zebio). Il camion giunto a Serra si fermò: l’uomo che aveva aiutato a salire Zebio smontò; la contrada era piena di vortici: lassù la neve era alta e il vento faceva paura; il paese era cancellato dal nevischio, qualche lume brillava qua e là nelle case invisibili. L’uomo si allonta Ânò di qualche passo dal camion per avvertire il viandante che erano giunti; vide che non c’era più, allora rientrò subito in cabina e sibilò nell’orecchio del compagno: – Fila, l’abbiamo perduto per la strada. (p. 204)  Zebio è davvero “perduto”, sepolto nella neve, mentre passano su di lui i vortici del vento “pazzo”. L’ultima pagina del romanzo rimanda, ma senza il commento conclusivo, perché non può certamente più pronunciarlo Zebio scomparso, alla conclusione de I Malavoglia, con ‘Ntoni che, nell’alba mentre se ne va per sempre dal suo paese e dalla casa non più sua per la sua colpa, osserva che il primo a cominciare la giornata è Rocco Spatu, l’ubriaco sempre all’osteria. Dice Cavani: Il camion partì fragorosamente verso la pianura: un ubriaco uscì in quel momento da un’osteria con la giacca su di una spalla e si mise a rincorrerlo; poi si fermò di colpo e, levando un braccio in alto, cominciò a cantare disperatamente in mezzo alla tempesta. (p. 204)  L’allegoricità della conclusione di Zebio Còtal si acui Âsce all’estremo nell’apparizione dell’ubriaco dall’oste Âria di Serra: è come la reincarnazione di Zebio, l’ubria Âco di tanti episodi della sua vicenda, anche nell’appari Âre con la giacca su una spalla, come se non fosse il paese, compresa l’osteria, sepolto dalla neve e i vortici del vento furioso non impedissero ogni movimento, e la giacca non dovesse essere portata via nella notte dalla bufera, ma soprattutto nel rincorrere il camion che è lo strumento del viaggio, e nel sollevare un braccio in alto come sfida, e cantare disperatamente come Zebio aveva fatto dopo essere anch’egli uscito dall’osteria dove aveva bevuto e parlato con i due soldati: “comin Âciò a cantare disperatamente”. Zebio non è, allora, per Âduto per sempre. Resuscita proprio dalla bufera che lo ha cancellato, ripete la sua storia. L’epicità conclusiva del romanzo è il segno eccezionale della scrittura nella reinvenzione, sullo scorcio degli anni Cinquanta, del genere narrativo, come alternativo, sia pure a tratti con Âtraddittorio, del canone realistico. Letto 6448 volte. | ![]() | ||||||||||
Pingback by Bartolomeo Di Monaco » LETTERATURA: PITTURA: Guido Cavani e Gino … — 25 Febbraio 2009 @ 13:53
[…] Il seguito di questo articolo: Bartolomeo Di Monaco » LETTERATURA: PITTURA: Guido Cavani e Gino … […]