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LETTERATURA: PITTURA: I MAESTRI: Matisse

26 Ottobre 2014

di Dino Buzzati
[dal “Corriere della Sera”, giovedì 7 maggio 1970]

Parigi, maggio

Dalla mostra celebrativa d Henri Matisse allestita al Grand Palais per il centena ­rio della nascita (31 dicembre 1869), mostra che durerà fino a settembre, si esce ammirati, non commossi, né portati a pensieri alti e profondi.

 

LA MOSTRA – 249 opere â— tra cui 28 sculture â— rac ­contano ampiamente, e con molti esempi insigni, il cam ­mino dell’artista che fino a ventun anni non si era mai in ­teressato di pittura e chissà se avrebbe mai preso in mano un pennello se un’appendicite non lo avesse tenuto a letto lun ­ghi mesi e sua mamma, per distrarlo, non gli avesse regalato una scatola di colori. Si va dalla natura morta del 1892, ancora del tutto acca ­demica, alle prime vampate di colore della fine secolo, al ­la Donna col cappello del 1905, considerata l’atto di na ­scita del fauvismo, e poi via via gli ateliers, l’oriente, i pe ­sci rossi, i ritratti, le Parigi, i nudi, fino alle ultime gran ­di decorazioni murali fatte di carte dipinte e ritagliate, fre ­sche e liete come certi cieli invernali con le nuvolette ap ­pollaiate qua e là. Le opere vengono da ogni parte del mondo; una dozzina, tra le più importanti, dal museo dell’Ermitage dove andò a finire la famosa collezione del com ­merciante moscovita Sergio Stchoukine, lungimirante rac ­coglitore di pitture francesi (possedeva 37 Matisse, 50 Pi ­casso, 16 Derain, 14 Gauguin, 6 Renoir e 8 Cézanne). Si co ­mincia al secondo piano e via via si scende al pianterreno dove trionfano le due versio ­ni della fin troppo celebre Danza (metri 2,60 per 3,90) e, in mezzo, La musica, pres ­sappoco delle stesse dimen ­sioni.

Sciagurata è però la sede dell’esposizione, coi soffitti a traliccio metallico da cui ir ­raggiano i riverberi dei tubi al neon, adatti tutt’al più a una rassegna di elettrodome ­stici; e con quell’orrido pa ­vimento nerastro costellato di borchie metalliche che fan ­no da gibigianna. Nelle prime sale poi i quadri sono ecces ­sivamente addossati gli uni agli altri e, misteriosamente, non disposti in ordine crono ­logico, per cui si mescolano opere di prima e dopo la ri ­velazione fauve. Cosicché il pubblico non capisce più niente. Il superaffollamento è stato deplorato da molti nel ­l’album posto all’uscita. E una visitatrice francese ha scritto: «Amavo Matisse quan ­do sono entrata. Adesso l’amo molto meno ».

 

LUI E PICASSO – Il nome di Matisse (1869-1954) viene comunemente messo accanto a quello di Picasso: i due pro ­tagonisti dell’arte moderna. Chi è il più grande? Direi che Picasso, clamoroso, ever ­sivo, sbalorditivo, ha una do ­se maggiore di genio. Forse Matisse appare però storica ­mente più importante perché la maggiore parte della pittu ­ra degli ultimi cinquant’anni, compreso l’astrattismo, viene fuori da lui. Dio solo sa quan ­ti imitatori, o comunque figli, nipoti, pronipoti, ha avuto Pi ­casso. Di Matisse invece è di ­scendente, non questo o quel ­lo, ma addirittura la stessa arte moderna, dai personaggi di primo piano al sottobo ­sco della pittura domenicale. L’uno e l’altro si stimavano a vicenda. « Matisse ha il so ­le nel ventre » diceva Picas ­so. Ma influssi reciproci non sono facilmente avvertibili, tranne che per il breve pe ­riodo (1916-1917) quando Matisse, che allora frequen ­tava Juan Gris, si accostò al cubismo.

 

L’INNOVAZIONE – In che cosa Matisse, numero uno dei fauves, è stato pioniere? L’ha spiegato lui stesso: « Ci so ­no due modi di descrivere un albero; con il disegno imita ­tivo quale si impara nelle scuole europee; o con il suo sentimento che la sua presen ­za e la sua contemplazione ci suggeriscono, come avviene negli orientali ». Invece di raffigurare la realtà esterna, come si era fatto fino allora, compreso l’impressionismo, l’artista vi partecipa, vi si identifica, con una assimila ­zione totale. Dopodiché espri ­me sulla tela quello che c’è dentro di lui.

Un passo avanti: il senti ­mento che la realtà suscita nell’artista viene restituito quasi esclusivamente col co ­lore. « Io sento attraverso il colore, dunque la mia tela sa ­rà sempre organizzata per mezzo del colore ». Dal 1900 al 1904 si assiste al passag ­gio dai « valori » ai colori; e per « valori » si intendono gli strumenti tradizionali co ­me il modellato, le sfumatu ­re, il chiaroscuro, le mezze tinte, la prospettiva, i quali passano in secondo piano o sono del tutto trascurati.

Ancora: la geometria. « Dall’uso del filo a piombo ho tratto un beneficio costante. La verticale è nel mio spiri ­to. E’ la verticale che mi aiu ­ta a precisare la direzione del ­le linee e nei miei schizzi io non segno una curva, per esempio quella di un ramo nel paesaggio, senza avere co ­scienza del suo rapporto con la verticale ». Diceva anche: « I quattro lati sono tra gli elementi più importanti di un quadro ».

Ma non si tratta della geo ­metria dei cubisti. Come scri ­ve Pierre Schneider, commis ­sario della mostra e autore della bellissima introduzione al catalogo, in Matisse la geometria non è il fine ma soltanto un mezzo per espri ­mere i sentimenti. Si arriva così a una dichiarazione illu ­minante: « L’espressione, per me, non consiste nella passio ­ne che si rivela su di un vol ­to o si rivela in un movimen ­to violento. L’espressione sta tutta nella disposizione del mio quadro: il posto che occupano i corpi, i vuoti che li circondano, le proporzioni, tutto questo ha la sua parte. La composizione è l’arte di sistemare in modo decorativo i diversi elementi di cui il pit ­tore dispone per esprimere i suoi sentimenti ».

 

LA GRANDE PORTA – Non sono state così realizzate le premesse per l’arte astrat ­ta? Colore, sentimento, geo ­metria, senso decorativo. Il resto non conta. Personalmen ­te, lui, Matisse, non si è mai gettato nel pericoloso mare verso il quale aveva tracciato la strada. Egli ha sempre sen ­tito il bisogno di restare anco ­rato alla realtà visibile, o per lo meno di usarla come tram ­polino. Un certo processo ana ­litico gli è necessario. « Quan ­do la sintesi è immediata, rie ­sce schematica, senza densità, e l’espressione, impoverita, dà luogo a un segno di significa ­to effimero, momentaneo ». Ma gli altri, alla vista del suo esempio, non hanno fatto grande sforzo per rompere gli ultimi indugi. Facile è stato abolire il soggetto riconosci ­bile, i contorni, l’immagine, tutto è stato lasciato ai colori e ai ritmi geometrici.

In apparenza assai meno ri ­voluzionario, Matisse ha così portato alla tradizione un col ­po ben più demolitore di quanto abbia fatto Picasso, perché di più vaste conseguen ­ze. Una grave responsabilità, in un certo senso. Ma ogni re ­criminazione sarebbe ridicola. Le cose erano ormai fatalmen ­te incamminate verso quello sbocco. E se non ci fosse sta ­to Henri Matisse, qualcun al ­tro, senza alcun dubbio, avreb ­be provveduto ad accendere la miccia.

 

ARTE UTILE – Rivoluzio ­nario, Matisse lo è stato an ­che nel proclamare che l’arte non deve essere fine a se stessa ma riuscire utile: arte stru ­mentalizzata al fine di procu ­rare benessere. « Quella che io sogno è un’arte di equili ­brio, di purezza, di tranquil ­lità, senza temi inquietanti o preoccupanti, arte che sia, per i lavoratori del cervello, per gli uomini d’affari così come per gli artisti delle lettere, un sedativo, un calmante cerebra ­le, qualcosa di analogo a una bella poltrona che ci ristori dalle fatiche fisiche ». Oppure: « Io devo dedicare la vita alla cosa essenziale per la quale sono nato e che può dare un po’ di felicità alla grande famiglia, alla più grande fa ­miglia spirituale ». Schneider ricorda come più di una vol ­ta Matisse sia andato ad appendere un suo quadro nella camera di un amico malato, per affrettarne la guarigione.

E a proposito della Danza scriveva: « Devo decorare una casa di tre piani. Immagino il visitatore che entra e si tro ­va dinanzi la scala. Per sali ­re dovrà fare un certo sfor ­zo, ha bisogno di essere rin ­vigorito. Ecco perché il primo pannello rappresenterà una danza sul culmine di una col ­lina… ».

Sante parole. Le quali di ­mostrano sì un fortissimo or ­goglio d’artista, ma testimo ­niano anche una esemplare umiltà, simile a quella dei maestri antichi i quali non si presumevano investiti da Dio per la redenzione dell’umani ­tà o per la rivoluzione del co ­smo â— come tanti artisti di oggi â— ma speravano soltan ­to di dare un po’ di gioia al prossimo.

 

SENZA MISTERO – La meraviglia, che è una delle molle dell’emozione estetica, non si può produrre nel visi ­tatore, a tal punto Matisse è entrato nei nostri occhi e nel nostro cervello, tanto egli rie ­cheggia dovunque intorno a noi, nelle altrui pitture, nelle decorazioni, nei disegni di stof ­fe, nei disegni di mode, nelle scenografie, nella pubblicità, nelle cravatte, nei soprammo ­bili di ogni genere. Tuttavia incontrare certi fenomeni in carne ed ossa procura sempre una considerevole emozione.

E’ luogo comune che Ma ­tisse sia il pittore della gioia di vivere: della luce mediter ­ranea, del lusso, del benesse ­re, delle odalische (non car ­nali però, non peccaminose, bensì trasformate in fantasti ­ci sorbetti), delle donne-fiore (nonne, secondo Gualtieri di San Lazzaro, delle attuali hip ­pies), dei colori lancinanti e raffinati; di un mondo agiato e sereno.

« Ho avuto anch’io, come tutti quanti, la mia parte di preoccupazioni, di difficoltà, di disgrazie e di dolori. Per ­ché la mia opera non vi fa mai allusione? Perché i guai ho sempre preferito tenerme ­li per me solo, e offrire al prossimo soltanto la bellezza dell’universo e la mia gioia di dipingere ».

Così infatti è accaduto. I suoi paesaggi, le sue case, le sue creature, ninfe, o modelle, o amiche, o languide sultanesse, sono per noi un festo ­so mattino di maggio. Ed è un dono meraviglioso. Ma, co ­me del resto egli stesso vole ­va, non si avverte mai il sen ­so del crepuscolo e dell’autun ­no, il ricordo delle inquietu ­dini, delle angosce, della mor ­te, non esiste il mistero. Ed alla fine questa esclusione si fa sentire come un limite. Ho sempre pensato che avesse ra ­gione Dostoievski: « Non c’è genio se non nel dolore ».

Eppure esiste una sua fo ­tografia degli ultimi tempi, la barbetta bianca accuratissima, le guance lisce brunite dal so ­le, seduto e stanco, al sole del ­la primavera, della sua postre ­ma primavera ricca e felice, in mezzo al verde e ai fiori del suo giardino ricco e feli ­ce, in testa un bizzarro cap ­pello di paglia, sulle spalle un chiaro plaid di cashemir, e per un momento si era tol ­to gli occhiali scuri, teneva soltanto quelli bianchi da pre ­sbite e guardando l’obiettivo del fotografo in certo modo appena appena sorrideva, ma non era precisamente un sorri ­so, era piuttosto un’interroga ­zione, un dubbio, una cosa improvvisa e inusitata, un’om ­bra, l’affiorare di una profon ­da antica paura (che egli for ­se era riuscito a nascondere per tutta la vita?).


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