LETTERATURA: PITTURA: I MAESTRI: Matisse26 Ottobre 2014 di Dino Buzzati Parigi, maggio Dalla mostra celebrativa d Henri Matisse allestita al Grand Palais per il centena rio della nascita (31 dicembre 1869), mostra che durerà fino a settembre, si esce ammirati, non commossi, né portati a pensieri alti e profondi.
LA MOSTRA – 249 opere â— tra cui 28 sculture â— rac contano ampiamente, e con molti esempi insigni, il cam mino dell’artista che fino a ventun anni non si era mai in teressato di pittura e chissà se avrebbe mai preso in mano un pennello se un’appendicite non lo avesse tenuto a letto lun ghi mesi e sua mamma, per distrarlo, non gli avesse regalato una scatola di colori. Si va dalla natura morta del 1892, ancora del tutto acca demica, alle prime vampate di colore della fine secolo, al la Donna col cappello del 1905, considerata l’atto di na scita del fauvismo, e poi via via gli ateliers, l’oriente, i pe sci rossi, i ritratti, le Parigi, i nudi, fino alle ultime gran di decorazioni murali fatte di carte dipinte e ritagliate, fre sche e liete come certi cieli invernali con le nuvolette ap pollaiate qua e là. Le opere vengono da ogni parte del mondo; una dozzina, tra le più importanti, dal museo dell’Ermitage dove andò a finire la famosa collezione del com merciante moscovita Sergio Stchoukine, lungimirante rac coglitore di pitture francesi (possedeva 37 Matisse, 50 Pi casso, 16 Derain, 14 Gauguin, 6 Renoir e 8 Cézanne). Si co mincia al secondo piano e via via si scende al pianterreno dove trionfano le due versio ni della fin troppo celebre Danza (metri 2,60 per 3,90) e, in mezzo, La musica, pres sappoco delle stesse dimen sioni. Sciagurata è però la sede dell’esposizione, coi soffitti a traliccio metallico da cui ir raggiano i riverberi dei tubi al neon, adatti tutt’al più a una rassegna di elettrodome stici; e con quell’orrido pa vimento nerastro costellato di borchie metalliche che fan no da gibigianna. Nelle prime sale poi i quadri sono ecces sivamente addossati gli uni agli altri e, misteriosamente, non disposti in ordine crono logico, per cui si mescolano opere di prima e dopo la ri velazione fauve. Cosicché il pubblico non capisce più niente. Il superaffollamento è stato deplorato da molti nel l’album posto all’uscita. E una visitatrice francese ha scritto: «Amavo Matisse quan do sono entrata. Adesso l’amo molto meno ».
LUI E PICASSO – Il nome di Matisse (1869-1954) viene comunemente messo accanto a quello di Picasso: i due pro tagonisti dell’arte moderna. Chi è il più grande? Direi che Picasso, clamoroso, ever sivo, sbalorditivo, ha una do se maggiore di genio. Forse Matisse appare però storica mente più importante perché la maggiore parte della pittu ra degli ultimi cinquant’anni, compreso l’astrattismo, viene fuori da lui. Dio solo sa quan ti imitatori, o comunque figli, nipoti, pronipoti, ha avuto Pi casso. Di Matisse invece è di scendente, non questo o quel lo, ma addirittura la stessa arte moderna, dai personaggi di primo piano al sottobo sco della pittura domenicale. L’uno e l’altro si stimavano a vicenda. « Matisse ha il so le nel ventre » diceva Picas so. Ma influssi reciproci non sono facilmente avvertibili, tranne che per il breve pe riodo (1916-1917) quando Matisse, che allora frequen tava Juan Gris, si accostò al cubismo.
L’INNOVAZIONE – In che cosa Matisse, numero uno dei fauves, è stato pioniere? L’ha spiegato lui stesso: « Ci so no due modi di descrivere un albero; con il disegno imita tivo quale si impara nelle scuole europee; o con il suo sentimento che la sua presen za e la sua contemplazione ci suggeriscono, come avviene negli orientali ». Invece di raffigurare la realtà esterna, come si era fatto fino allora, compreso l’impressionismo, l’artista vi partecipa, vi si identifica, con una assimila zione totale. Dopodiché espri me sulla tela quello che c’è dentro di lui. Un passo avanti: il senti mento che la realtà suscita nell’artista viene restituito quasi esclusivamente col co lore. « Io sento attraverso il colore, dunque la mia tela sa rà sempre organizzata per mezzo del colore ». Dal 1900 al 1904 si assiste al passag gio dai « valori » ai colori; e per « valori » si intendono gli strumenti tradizionali co me il modellato, le sfumatu re, il chiaroscuro, le mezze tinte, la prospettiva, i quali passano in secondo piano o sono del tutto trascurati. Ancora: la geometria. « Dall’uso del filo a piombo ho tratto un beneficio costante. La verticale è nel mio spiri to. E’ la verticale che mi aiu ta a precisare la direzione del le linee e nei miei schizzi io non segno una curva, per esempio quella di un ramo nel paesaggio, senza avere co scienza del suo rapporto con la verticale ». Diceva anche: « I quattro lati sono tra gli elementi più importanti di un quadro ». Ma non si tratta della geo metria dei cubisti. Come scri ve Pierre Schneider, commis sario della mostra e autore della bellissima introduzione al catalogo, in Matisse la geometria non è il fine ma soltanto un mezzo per espri mere i sentimenti. Si arriva così a una dichiarazione illu minante: « L’espressione, per me, non consiste nella passio ne che si rivela su di un vol to o si rivela in un movimen to violento. L’espressione sta tutta nella disposizione del mio quadro: il posto che occupano i corpi, i vuoti che li circondano, le proporzioni, tutto questo ha la sua parte. La composizione è l’arte di sistemare in modo decorativo i diversi elementi di cui il pit tore dispone per esprimere i suoi sentimenti ».
LA GRANDE PORTA – Non sono state così realizzate le premesse per l’arte astrat ta? Colore, sentimento, geo metria, senso decorativo. Il resto non conta. Personalmen te, lui, Matisse, non si è mai gettato nel pericoloso mare verso il quale aveva tracciato la strada. Egli ha sempre sen tito il bisogno di restare anco rato alla realtà visibile, o per lo meno di usarla come tram polino. Un certo processo ana litico gli è necessario. « Quan do la sintesi è immediata, rie sce schematica, senza densità, e l’espressione, impoverita, dà luogo a un segno di significa to effimero, momentaneo ». Ma gli altri, alla vista del suo esempio, non hanno fatto grande sforzo per rompere gli ultimi indugi. Facile è stato abolire il soggetto riconosci bile, i contorni, l’immagine, tutto è stato lasciato ai colori e ai ritmi geometrici. In apparenza assai meno ri voluzionario, Matisse ha così portato alla tradizione un col po ben più demolitore di quanto abbia fatto Picasso, perché di più vaste conseguen ze. Una grave responsabilità, in un certo senso. Ma ogni re criminazione sarebbe ridicola. Le cose erano ormai fatalmen te incamminate verso quello sbocco. E se non ci fosse sta to Henri Matisse, qualcun al tro, senza alcun dubbio, avreb be provveduto ad accendere la miccia.
ARTE UTILE – Rivoluzio nario, Matisse lo è stato an che nel proclamare che l’arte non deve essere fine a se stessa ma riuscire utile: arte stru mentalizzata al fine di procu rare benessere. « Quella che io sogno è un’arte di equili brio, di purezza, di tranquil lità, senza temi inquietanti o preoccupanti, arte che sia, per i lavoratori del cervello, per gli uomini d’affari così come per gli artisti delle lettere, un sedativo, un calmante cerebra le, qualcosa di analogo a una bella poltrona che ci ristori dalle fatiche fisiche ». Oppure: « Io devo dedicare la vita alla cosa essenziale per la quale sono nato e che può dare un po’ di felicità alla grande famiglia, alla più grande fa miglia spirituale ». Schneider ricorda come più di una vol ta Matisse sia andato ad appendere un suo quadro nella camera di un amico malato, per affrettarne la guarigione. E a proposito della Danza scriveva: « Devo decorare una casa di tre piani. Immagino il visitatore che entra e si tro va dinanzi la scala. Per sali re dovrà fare un certo sfor zo, ha bisogno di essere rin vigorito. Ecco perché il primo pannello rappresenterà una danza sul culmine di una col lina… ». Sante parole. Le quali di mostrano sì un fortissimo or goglio d’artista, ma testimo niano anche una esemplare umiltà, simile a quella dei maestri antichi i quali non si presumevano investiti da Dio per la redenzione dell’umani tà o per la rivoluzione del co smo â— come tanti artisti di oggi â— ma speravano soltan to di dare un po’ di gioia al prossimo.
SENZA MISTERO – La meraviglia, che è una delle molle dell’emozione estetica, non si può produrre nel visi tatore, a tal punto Matisse è entrato nei nostri occhi e nel nostro cervello, tanto egli rie cheggia dovunque intorno a noi, nelle altrui pitture, nelle decorazioni, nei disegni di stof fe, nei disegni di mode, nelle scenografie, nella pubblicità, nelle cravatte, nei soprammo bili di ogni genere. Tuttavia incontrare certi fenomeni in carne ed ossa procura sempre una considerevole emozione. E’ luogo comune che Ma tisse sia il pittore della gioia di vivere: della luce mediter ranea, del lusso, del benesse re, delle odalische (non car nali però, non peccaminose, bensì trasformate in fantasti ci sorbetti), delle donne-fiore (nonne, secondo Gualtieri di San Lazzaro, delle attuali hip pies), dei colori lancinanti e raffinati; di un mondo agiato e sereno. « Ho avuto anch’io, come tutti quanti, la mia parte di preoccupazioni, di difficoltà, di disgrazie e di dolori. Per ché la mia opera non vi fa mai allusione? Perché i guai ho sempre preferito tenerme li per me solo, e offrire al prossimo soltanto la bellezza dell’universo e la mia gioia di dipingere ». Così infatti è accaduto. I suoi paesaggi, le sue case, le sue creature, ninfe, o modelle, o amiche, o languide sultanesse, sono per noi un festo so mattino di maggio. Ed è un dono meraviglioso. Ma, co me del resto egli stesso vole va, non si avverte mai il sen so del crepuscolo e dell’autun no, il ricordo delle inquietu dini, delle angosce, della mor te, non esiste il mistero. Ed alla fine questa esclusione si fa sentire come un limite. Ho sempre pensato che avesse ra gione Dostoievski: « Non c’è genio se non nel dolore ». Eppure esiste una sua fo tografia degli ultimi tempi, la barbetta bianca accuratissima, le guance lisce brunite dal so le, seduto e stanco, al sole del la primavera, della sua postre ma primavera ricca e felice, in mezzo al verde e ai fiori del suo giardino ricco e feli ce, in testa un bizzarro cap pello di paglia, sulle spalle un chiaro plaid di cashemir, e per un momento si era tol to gli occhiali scuri, teneva soltanto quelli bianchi da pre sbite e guardando l’obiettivo del fotografo in certo modo appena appena sorrideva, ma non era precisamente un sorri so, era piuttosto un’interroga zione, un dubbio, una cosa improvvisa e inusitata, un’om bra, l’affiorare di una profon da antica paura (che egli for se era riuscito a nascondere per tutta la vita?). Letto 1790 volte. Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||