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LETTERATURA: STORIA: Prigionieri della “Buffalo”

3 Novembre 2012

di Mario Camaiani

Ottobre 1944: le truppe brasiliane, dopo avere occupato in lucchesia tutto il territorio barghigiano e, di là dal Serchio raggiunto Gallicano, stanno consolidando le loro posizioni, ingaggiando duelli di artiglieria e scontri di pattuglie con le forze italo-tedesche attestate sulla linea gotica. Anche Fornaci di Barga è bersagliata dalle cannonate che spesso provocano la morte anche dei civili. Io ed i miei genitori, insieme ad altre due famiglie di nostri concittadini livornesi, da Fornaci ove risiedevamo ci eravamo trasferiti, in coabitazione, nella casa di Olinto Batastini, a Filecchio, posta in cima ad una collina vicino al ponte della Loppora. Passa circa un mese, quand’ecco che ai primi di novembre la divisione “Buffalo”, composta da truppe di colore, della quinta armata statunitense, dà il cambio alle truppe brasiliane. Noi conducevamo una vitaccia, sempre in pericolo ed inoltre con scarsità di cibo: si era in zona di operazioni e perciò anche le botteghe di alimentari non si potevano rifornire neppure dei generi razionati. Fortuna che nel luogo abbondavano le castagne e ci si nutriva quasi esclusivamente della farina da esse ricavata. Lo stabilimento metallurgico SMI, a Fornaci, ovviamente chiuso al lavoro, era però presidiato con un minimo di personale, fra cui mio padre che era il responsabile di tutti i magazzini. Talvolta i militari abbisognavano di qualche materiale che si trovava nello stabilimento e babbo redigeva il documento del materiale prelevato e poi lo consegnava ad un apposito ufficio del comando degli alleati, per il dovuto rimborso. Ebbene, spesso all’atto di questi incontri di lavoro, babbo tornava a casa con vari generi alimentari: pane, cibi in scatole, che aveva ricevuto da quei soldati; ed allora per noi, in casa, era festa grossa: finalmente si mangiava qualcosa di buono, e a sufficienza! Dall’altura di detta casa si dominava buona parte della valle e tutto l’abitato di Fornaci: un bellissimo panorama. Da questa posizione un mattino Viviano ed io, muniti di un binocolo, osservavamo lo svolgersi di un bombardamento aereo sulle linee italo-tedesche su Molazzana e zone limitrofe: si notavano bene le bombe che venivano sganciate ed i conseguenti scoppi di queste a terra che provocavano vampate di fuoco con nugoli di fumo nerastro carichi di terra e detriti. La cosa andava avanti da un certo tempo, quand’ecco che all’improvviso alle nostre spalle udimmo una voce violenta, non in italiano: voltandoci di scatto ci trovammo davanti a sei militari americani negri, con le armi imbracciate contro di noi! Istintivamente alzammo le braccia, venimmo perquisiti, ci presero il binocolo ed un po’ rudemente ci costrinsero a camminare con loro fino alla strada comunale di Filecchio, dove si trovavano un gippone ed una jeep, con altri militari della “Buffalo”. Ci caricarono sul gippone e quando stavamo per partire ecco che giunse una ragazza che abitava lì vicino, a cui subito le gridai: “Elvira, ci hanno presi…avverti i nostri a casa!”. Al che la ragazza, dopo averci rivolto una sguardo di assenso, se ne andò via. I soldati ci portarono a Fornaci di Barga nella villa del dottor Buoni dove erano acquartierati, ed un sergente che parlava italiano ci interrogò chiedendoci le generalità, il domicilio e perché stavamo osservando la zona di operazioni. Noi gli demmo le nostre spiegazioni, le nostre ragioni. Nel frattempo Elvira aveva avvertito i nostri cari dell’arresto che avevamo subìto; e quando mio padre ne venne a conoscenza corse da quei militari con i quali aveva rapporti di lavoro e questi allora lo consigliarono di far intervenire i carabinieri, come organismo legale, giuridicamente valido. Babbo allora si recò alla stazione dei carabinieri di Fornaci e si rivolse al brigadiere, che ben conosceva, spiegandogli il fatto. Il brigadiere prese a cuore la cosa, si dette da fare e trovò dove ci avevano reclusi; parlò con un ufficiale del comando e seppe che l’indomani ci avrebbero trasferiti a Viareggio per essere giudicati da un tribunale militare, con l’accusa di sospetto spionaggio a favore del nemico. Ma il bravo brigadiere tanto perorò la nostra causa di estraneità al motivo dell’accusa, che infine l’ufficiale lo rassicurò: “Va bene – gli disse – li giudicheremo al nostro comando”. Frattanto Viviano ed io, ovviamente non al corrente dell’evolversi della situazione, trascorremmo la giornata imprigionati in una stanza, sorvegliati a vista, rammaricandoci di non esserci accorti dell’arrivo dei soldati che venivano a prenderci, che pur erano transitati nella strada sottostante; ma tant’è che eravamo troppo assorti ad osservare la scena del bombardamento aereo! Ai pasti ci dettero dei cibi in scatolette e pane bianco e pernottammo per terra, con delle coperte che servivano anche come materassini: si dormì sul duro, insomma. La mattina seguente i nostri carcerieri ci accompagnarono al piano di sopra dove in un apposito locale fummo ricevuti, uno alla volta, da un ufficiale bianco, di grado elevato (aveva tre stellette sulle mostrine): forse era lo stesso con il quale aveva conferito il brigadiere dei carabinieri. Il primo ad essere interrogato fui io e l’ufficiale mi chiese dettagliatamente nome, residenza, età, dati dei familiari: evidentemente per controllare se tutto corrispondeva a ciò che avevamo deposto al sergente il giorno prima. Naturalmente gli risposi in modo giusto, cioè gli dissi la verità; ed egli allora, dopo una certa pausa, mi si avvicinò e, guardandomi negli occhi, mi chiese a bruciapelo: “Sei fascista?”. “No!” – gli risposi prontamente – , al che il graduato fece cenno al piantone che mi accompagnò fuori dalla stanza, facendoci subito entrare Viviano. Dopo pochi minuti Viviano uscì e con lui pure l’ufficiale che ad ambedue ci disse severamente: “Vi rimetto in libertà, ma state attenti a non commettere altre imprudenze!”

Noi due commentammo l’interrogatorio, uguale per entrambi, consci che se avessimo detto al nostro inquisitore di essere fascisti, quasi certamente egli non ci avrebbe concesso la libertà. Poi uscimmo dalla villa carichi di scatolette di alimenti, cioccolate ed un pane intero, che i soldati ci dettero e, giunti a casa, facemmo festa con i nostri cari…Già: ed il binocolo? Non ce lo resero; e noi, ovviamente, non lo richiedemmo! Intanto ci si avvicinava alla brutta stagione e le operazioni militari in Italia, su tutto il fronte della linea gotica, ristagnavano: con preoccupazione ci rendevamo conto che probabilmente l’avanzata degli alleati sarebbe ripresa alla primavera prossima. Fra un cannoneggiamento e l’altro, tra un alternarsi di notizie riguardanti la contingente situazione bellica, soprattutto in chiave locale, la gente trovava anche tempo per condurre una vita il più normale possibile. Un giorno mi trovavo con mio padre in un caffè di Fornaci, assai affollato, quando intorno ad un tavolo si sviluppò una conversazione-discussione fra una anziana maestra del luogo e due giovani cugini, che si sapeva essere partigiani. Allora molti si avvicinarono, ed io pure, per ascoltare le ragioni dei dialoganti. La maestra stava parlando: “…La storia c’insegna che gli eroi per gli uni sono banditi per gli altri, e viceversa; ed anche oggi questa valutazione si conferma: i partigiani vengono definiti ribelli, banditi, dai fascisti repubblicani e dai tedeschi; mentre i partigiani, da chi li approva, vengono denominati patrioti. Che dire? – proseguì l’anziana signora, mentre gli astanti ascoltavano con attenzione – Secondo me il termine ‘partigiani’ è il più pertinente, perché essi combattono per una data parte”. Uno dei cugini intervenne: “Ma sarà pure che una delle parti, in verità, rappresenti la giusta causa!”. “No – riprese la maestra -, nessuna singola persona, o consesso di persone, può avocare a sé il diritto di definirsi giusta, perché il bene ed il male sono sempre presenti in ogni organismo umano, di singole unità o di interi popoli; ma i giudizi storici vengono fatti quasi sempre dai vincitori o comunque da chi in un dato momento si trova in vantaggio sugli avversari, avendo dalla sua l’opinione pubblica”. – Qui la maestra tacque e poi riprese – “Ma al di là del ‘gioco delle parti’, in questo caso mortale, c’è un’altra strada, equa, giusta, che è l’indefettibile dottrina del cristianesimo. E la verità esiste, ed è personificata in Gesù: credere ciò è normale per ogni cristiano; ma c’è un fatto strano che può far riflettere anche i non credenti. Si tratta di questo: nel Vangelo di Giovanni, cap. 18,38, si legge che Pilato chiese a Gesù: ‘Che cos’è la verità?’, frase che tradotta in latino suona così: ‘quid est veritas?’; ebbene, anagrammando questa frase si ha la risposta: ‘est vir qui adest’, cioè: ‘è l’uomo che ti sta di fronte!””. La maestra, cattolica osservante, aveva spostato l’argomento della conversazione su di un tema religioso; ma subito l’altro cugino lo riportò sul tema iniziale: “I patrioti, organizzati nelle formazioni della ‘resistenza’, coadiuvando gli alleati, combattono contro l’invasore tedesco ed i loro leccapiedi fascisti per liberare il nostro Paese dall’oppressione della dittatura, per instaurare un regime di libertà, di democrazia, di libero consenso popolare!…Che risponde a questo, signora maestra?”. “Umberto, non essere impertinente – disse al giovane la proprietaria del bar -, e sii rispettoso con la signora”. Al che il ragazzo rispose umilmente: “Non intendevo offendere nessuno, in specie la signora maestra che mi ha insegnato a leggere, a scrivere ed a apprendere tutta la cultura che si può ottenere dalla scuola elementare; ma solo affermare ciò in cui credo”. “Va bene – riprese l’anziana signora – la mia risposta però, caro Umberto, non può essere di semplicistica retorica come lo è stata la tua domanda; bensì deve essere analitica, ponderata. Ecco – ed i presenti si fecero più attenti -, ci sono molti organismi pubblici, sociali, nei quali la loro struttura, la loro direzione non è regolamentata da libere elezioni fatte dalla totalità dei componenti, cioè non si può dire che siano democratici; ma nemmeno si può dire che siano dittatoriali, e questo pure avviene nelle nazioni democratiche…Nella scuola, ad esempio, i docenti non vengono designati dalla base, ma dai vertici; nell’esercito, la gerarchia viene eletta dall’alto e non dal basso; nella chiesa, i sacerdoti, i vescovi, non vengono eletti dai fedeli, ma dalla gerarchia superiore…e così nel mondo del lavoro, del commercio e via di seguito, e tutto funziona benissimo. Ed allora? Allora – proseguì la signora – una sana democrazia serve moltissimo per eleggere, a libera volontà di popolo, gli amministratori, i politici, i governanti, sia a livello nazionale, sia a quello locale, nelle singole città e province…Però occorre che la libertà di uno non limiti la libertà di un altro, ed a questo proposito ricordo una frase di un filosofo di cui mi sfugge il nome: ‘gli uomini si sono fatti schiavi delle proprie regole per essere uomini liberi!’. Occorre che le candidature alle cariche siano imparziali; che chi governa e chi amministra operi, in coscienza, per il bene comune e non per il proprio o per quello della sua ideologia… Basta – concluse – avete capito come la penso: la democrazia è meglio del totalitarismo; tuttavia deve essere formata da cittadini il più possibile onesti, giusti, leali, socialmente maturi e rispettosi anche di chi la pensa diversamente. Quando finirà la guerra, se perseguiremo questi concetti, costruiremo veramente una nuova Italia.” La maestra aveva parlato con il cuore in mano, come si suol dire, e molti dei presenti l’approvavano con gesti di consenso, ma altri no, scuotendo il capo a mo’ di dissenso. Da diverso tempo bombardieri quadrimotori americani attraversavano il nostro cielo da nord verso sud e viceversa, ad alta quota, in massicce formazioni comprendenti centinaia di velivoli che, si seppe, facevano la spola tra L’Inghilterra ed il Nord Africa, colpendo le nostre città del centro-nord d’Italia, controllate dalle forze dell’Asse. Una volta due di queste formazioni si incrociarono sopra di noi, a Fornaci: una a quota altissima e l’altra ad una quota assai inferiore. Talvolta gli aerei emettevano gas di scarico ed allora si formavano su nel cielo grosse e lunghe strisce di fumo che condensandosi davano origine ad una coltre scura per cui, se il tempo era bello, diventava come nuvoloso. Ma i bombardamenti sulla Germania erano enormemente più pesanti di quelli effettuati sull’Italia e le città tedesche venivano colpite in continuazione. Considerando quanta forza militare scaturisse dalla totale supremazia aerea che disponevano gli alleati, soprattutto degli aerei americani che erano in numero preponderante, era opinione comune che grazie a questa importantissima superiorità la guerra poteva terminare abbastanza presto, con la sconfitta della Germania, cosa questa che tutti noi ci auguravamo. Durante un pomeriggio piovoso mi recai alla ‘bottega’ di Filecchio, che fungeva anche da bar (o da ‘caffè’, come più facilmente si diceva a quei tempi): il locale era molto affollato e tra gli avventori si sviluppavano varie conversazioni, quasi tutte riguardanti il nostro contingente stato di guerra. Attorniato da un crocchio di persone un signore stava parlando: “…Purtroppo anche il duomo di Barga, da pochi anni completamente restaurato e rimesso a nuovo, sta subendo vari danni a causa dei continui bombardamenti…”. Mi rivolsi ad un tale che mi era accanto: “Chi è quello che parla? ”. “E’ un ingegnere, si chiama Tommaso, si occupa di lavori pubblici nel nostro comune, abita in una villa fuori Barga”, mi rispose. Con un certo imbarazzo, durante una pausa, presi la parola, rivolgendomi a detto Tommaso: “Sono sfollato da Livorno, ed è dallo scorso marzo che abito in questo comune e, a proposito del duomo in questione, debbo dire che, quando con i miei di famiglia lo abbiamo visto, sapendo che la sua costruzione ha un’origine millenaria, ci siamo meravigliati che fosse in così buonissimo stato…come nuovo! – Al che l’ingegnere fece per rispondermi, ma io lo prevenni e aggiunsi: – Ah, un’altra cosa ci sorprese: il fatto che Barga abbia il titolo di città, certamente meritato, ma che nessun altro centro, sia della Valle del Serchio che della Garfagnana può vantare di avere.”. Il signor Tommaso mi guardò con benevolenza e: “Bravo ragazzo – fece -, sei un intelligente osservatore e le domande che hai posto, così interessanti, meritano una risposta esauriente. – Quasi tutti gli astanti gli si avvicinarono per meglio ascoltarlo, mentre egli riprendeva – Dunque, brevemente, l’artefice della realizzazione di detti grandi eventi è stato Morando Stefani: questo personaggio (nato nel 1874), dopo avere ottenuto con lode la licenza del liceo classico, fu consigliere comunale nei primi anni del ‘900’, quindi emigrò negli Stati Uniti, ove fece fortuna; militò nell’esercito americano durante la prima guerra mondiale, terminata la quale ritornò in Patria, a Barga, dove svolse attività politica e giornalistica e dirigendo il giornale locale ‘La Corsonna’. Fu segretario politico del P. N. F. e, nel 1923, fu eletto sindaco di Barga; quindi nel 1927 fu nominato podestà di Barga, carica che ricoprì per oltre dieci anni. Per un lungo periodo, come primo cittadino, amministrò la sua terra con ampiezza e modernità di vedute portando il nostro comune su posizioni di avanguardia. Durante la di lui amministrazione, Barga ebbe la visita ufficiale di alte personalità del tempo e, nel 1930, quella del capo del governo, Benito Mussolini, che, accompagnato dal nostro Morando, visitò lo stabilimento della ‘metallurgica’ e il suo dopolavoro, a Fornaci; la casa del poeta Giovanni Pascoli; tutto il bellissimo borgo di Barga, fino alla sua sommità, dove sorge il duomo. Qui il Duce ammirò il meraviglioso panorama che di lì si gode, mentre il podestà gliene illustrava i dettagli; poi, subito dopo, nella visita al monumentale edificio, spiegò al suo illustre interlocutore come, nel terribile terremoto che colpì la Garfagnana nel 1920, questa sacra costruzione fosse rimasta assai lesionata dalle scosse telluriche, per cui necessitava un grande lavoro riparatore, onde evitare una lenta, ma sicura decadenza. Ma il denaro per questi lavori Barga non li disponeva; cosicché il nostro podestà chiese a Mussolini un aiuto finanziario da parte del suo governo, per detto scopo. Il Duce un po’ ci pensò e poi, incredibilmente, con quel modo schietto di fare che aveva, disse a Morando che Barga meritava il titolo di città e che, con ‘Motu Proprio’, glielo conferiva. Detta onorificenza fu in seguito confermata con decreto reale; ed anche giunse il finanziamento per la restaurazione del duomo.

Da allora Barga, città, si fregia orgogliosamente di questo prestigioso titolo onorifico; mentre il suo duomo, dopo anni di proficuo lavoro, tornò a rinascere, a risplendere di nuova vita! E tutto ciò per merito del grande barghigiano Morando Stefani, a cui i suoi concittadini, da allora in poi, gli saranno sempre riconoscenti.” Con questo finale enfatico il signor Tommaso terminò la sua esposizione, ottenendo anche qualche applauso; ma pochi, per la verità. Subito dopo prese la parola uno dei presenti: “Lei, Tommaso, ha parlato bene e ciò che ha detto umanamente e storicamente corrisponde al vero; ma alla riparazione del duomo fa seguito il nuovo danneggiamento dello stesso a causa della sciagurata guerra che il regime fascista ha voluto e che nonostante sia persa continua a voler proseguire, rovinando tutta la Nazione!” E al dire di questo nuovo intervenuto ci furono nuovi applausi, ed in modo maggiore della precedente volta. (Completo le notizie riguardanti Morando Stefani: durante il tempo di guerra fu nominato Ispettore Generale dell’Opera Nazionale Dopolavoro, ed in tale veste visitò le truppe combattenti in Africa Settentrionale. Poi, nel 1952 fu nominato, dalla sovrintendenza di Pisa, Ispettore Onorario ai Monumenti e Gallerie e fino alla sua morte, avvenuta nel 1962, fu attivo presidente dell’Opera del Duomo, definito, per antonomasia, “l’Operaio del Duomo”. E la Chiesa non lo ha dimenticato: infatti, su una parete, a sinistra entrando, nel duomo di Barga, è posta una lapide di marmo, con su inciso un’epigrafe per imperitura riconoscenza e gratitudine sia al suddetto ex Podestà, sia all’allora Proposto di Barga, Monsignor Lino Lombardi, per l’opera da loro svolta in relazione alla rinascita del sacro edificio). Tornando alla narrazione, verso la fine di novembre ’44, un certo Mansueto, di Filecchio, ci informò che nel paese di San Romano c’era abbondanza di patate, per cui si potevano acquistare. Allora, data la grave penuria di generi alimentari cui eravamo sottoposti, Viviano ed io decidemmo di andarci; ma sua madre ed i miei genitori si opponevano, temendo che ci capitasse qualcosa di male; ma, data la nostra insistenza, infine pur a malincuore ci dettero il permesso. Considerando il percorso da compiere, si calcolò che dall’alba al tramonto era possibile tentare la cosa, e così prestissimo, di buon mattino, alle ore sei e trenta, partimmo per l’avventurosa camminata. Come calzature avevamo degli zoccoloni di legno rivestiti a mo’ di scarponi, costruiti da un ciabattino del luogo; come abbigliamento indossavamo dei pantaloni da lavoro, di fustagno, mentre due vecchie giacche, abbottonate fin al collo, coprivano camicie e maglie, e due berrettacci come copricapo: il tutto vecchio e malmesso, come in fondo era normale per chiunque a quel tempo. E gli zaini, che avrebbero dovuto contenere le patate, furono approntati da noi, usando borse, cinture, lacci e quant’altro occorse, con l’aiuto dei nostri cari, della signorina Rosina e di sua madre, signora Maria, che coabitavano con noi. In breve tempo con passo veloce si scese a Fornaci e s’imboccò il ponte sul Serchio, che pur sinistrato era l’unico ancora in piedi, per transitare da Bolognana; ma ecco che cominciò un cannoneggiamento proprio su questo paese, come spesso accadeva, ed allora per non rischiare decidemmo di attraversare il fiume da un ponte militare a Ghivizzano, costruito dai genieri alleati; e fortuna che della sua esistenza ne eravamo venuti a conoscenza poco tempo prima! Cosicché tornammo indietro e via, verso Ponte all’Ania, poi a Piano di Coreglia, sempre oltrepassando i torrenti scendendo al livello delle acque per mezzo di apposite strade militari, con robuste passerelle sopra i corsi d’acqua. Appena superata Piano di Coreglia, cominciò un cannoneggiamento verso le posizioni italo-tedesche, proveniente dal fondo del dirizzone stradale, mentre i proiettili sibilavano per aria. Poco dopo giungemmo presso le postazioni di dette artiglierie, situate nei campi fra il camposanto e la strada, fino alla curva del Rio Secco. Si trattava di grossi obici e gli artiglieri erano tutti negri, della “Buffalo”. Notammo che un militare era occupato con una ricetrasmittente e, guardando su nel cielo verso la Garfagnana, si vide una “cicogna”, piccolo apparecchio monomotore, che sorvolava le posizioni nemiche: evidentemente questo aereo trasmetteva le coordinate degli obiettivi da colpire agli artiglieri. Da un certo tempo infatti vedevamo spesso svolazzare su nel cielo della linea del fronte questi piccoli e lenti aerei. Ed ecco che si giunse a Ghivizzano, oltrepassato il quale, sulla sinistra, si vide il campo di aviazione di dette “cicogne”, che occupava spazio fin presso il cimitero di Calavorno. Non c’era tempo da perdere, che pur non avendo l’orologio si capiva che eravamo in ritardo; trovammo facilmente il ponte, grandissimo: una enorme gabbia di intelaiatura di ferro, pavimentato con robusti tavoloni: ci transitammo e di là ci trovammo nel piano di Gioviano. Si era oltre il bivio per San Romano, la nostra meta, quindi si dovette tornare indietro di un paio di chilometri e camminando più velocemente possibile lo raggiungemmo, un po’ stanchi. Mangiammo qualcosa del poco che si era portato, poi un contadino ci consigliò di prendere un sentiero per scorciare il percorso e così rifocillati si riprese il cammino, che era molto duro, in salita, su un sentiero sassoso e disagevole. Finalmente entrammo nel paese e ci demmo subito da fare per trovare da comprare le patate, ma i vari abitanti a cui le chiedevamo ci rispondevano che a loro ne erano rimaste poche e servivano ad essi; ma infine una contadina ce ne offrì una decina di chili, aggiungendo: “Ragazzi, mi spiace non poter darvene altre; però se proseguite per il paese di Motrone, sopra il nostro – e ce lo indicò – lì le troverete, rivolgetevi ad una certa tale, mia cugina, che ne ha ancora parecchie, dicendole che vi ho mandati io”. “ Sì, ma quanto tempo occorre per arrivare a Motrone?” le chiedemmo. “Un tre quarti di ora, prendendo lo scorcione”. Ci si consultò: che fare? Ma tanto comunque si sarebbe ritornati a casa a buio ed allora via di nuovo, per un sentiero peggiore del primo, con maggiore pendenza. A Motrone faceva freddo, il paese era leggermente innevato; trovammo la cugina della prima contadina, che fu gentilissima con noi; ci procurò 25 kg di patate, ad un prezzo buono, si informò da dove venivamo, chi si era, ci dette merenda e della frutta per mangiare qualcosa durante il viaggio di ritorno. Anche i suoi due figli, un ragazzo ed una ragazza, non furono da meno, ci procurarono due bastoni per agevolarci il cammino e perfino ci accompagnarono per un tratto di percorso.

A San Romano prendemmo le patate che lì si erano lasciate e giù, per il sentiero scosceso, fino al fondo valle: in questo percorso ci furono molto utili i bastoni avuti. Ma il peso delle patate aumentava la fatica, mentre i piedi erano sempre più doloranti a causa della durezza degli zoccoloni mentre le cinghie posticce degli zaini improvvisati ci “segavano” le spalle. Con tenacia e determinazione però “tenevamo duro”, come si suol dire, ed anche scherzavamo sulla situazione: “Va a finire che dopo tanto faticare ci arrestano, come l’altra volta, e ci prendono le patate!” “No, no, questa volta faranno prima: ci spareranno addirittura addosso!”. E giù, risate! Giungemmo allo stradone principale quando stava calando la sera e, al ponte militare di Ghivizzano, incontrammo alcune pattuglie di soldati che però non si curarono di noi. Ormai era buio ed essendo in zona di operazioni non c’era il coprifuoco ufficiale; ma era come ci fosse perché le pattuglie potevano colpire all’istante chi poteva essere nemico. Quindi noi percorremmo una strada secondaria parallela alla principale, per non transitare nei paraggi dell’aeroporto delle “cicogne”e delle postazioni degli obici. Guardinghi, procedendo un po’ chinati, si raggiunse Piano di Coreglia; poi, lontano dal ponte, dove c’erano le sentinelle, si passò a guado il torrente Ania, saltando da un sasso all’altro, mentre vedevamo i soldati di guardia, che fortunatamente non ci notarono. L’ultimo tratto: salimmo a Pedona; poi ancora poche decine di metri, ed eccoci all’ultima salitella per giungere alla nostra casa! La porta era accostata, entrammo di corsa, i nostri cari erano tutti alzati in spasmodica apprensione per il nostro ritardo: erano le ore dieci e mezzo di sera ed ormai erano convinti che ci fosse accaduto qualcosa di brutto. Baci, abbracci…ed io mi svenni, stremato dalla fatica: mi portarono a letto di peso e mi svegliai il mattino seguente! Le patate erano esattamente trentasei chili e, sempre in questo mattino, la signora Maria iniziò ad adoperarle, cucinando in abbondanza gli gnocchi (che a Livorno vengono chiamati “topini”) : tutti e sette a mangiarli, ma pur con scarso e poco condimento e senza formaggio ci sembrò di consumare un pranzo pasquale! Poi si parlò a fondo della camminata del giorno prima; Viviano ed io ne narrammo tutti i particolari e gli altri ci esternarono tutta la loro preoccupazione, anzi quasi disperazione, di quando ormai pensavano che non si ritornasse a casa. “Ma – disse la signora Maria – abbiamo pregato tanto ed io in particolare mi sono rivolta alla Madonna ché facesse la grazia del vostro ritorno, sani e salvi.”. “E siamo stati esauditi”, aggiunse la signorina Rosina, sua figlia, mentre tutti noi fummo pervasi da un sentimento di pace. Nel pomeriggio noi ragazzi ci recammo alla bottega-bar, a Filecchio: lì c’era Mansueto che ci chiese se avevamo trovato le patate, noi gli spiegammo tutto ed egli calcolò che avevamo percorso non meno di trenta chilometri e ci disse che eravamo stati bravissimi, ma soprattutto concluse: “Però certamente il Cielo vi ha aiutato!”. In detta bottega c’era sempre molta gente, giovane e anziana, e tutti si cercava di trascorrere il tempo più serenamente possibile, scherzando, giocando a carte, a dama alla morra ed io feci amicizia con Fiorino, un giovane che, come me, sapeva suonare il mandolino: insieme eseguivamo delle canzoni popolari e molti, al suono della nostra musica, si mettevano a cantare e si era tutti felici, contentandoci di queste semplici cose. Ma la realtà contingente non era così rosea: mancava nelle abitazioni l’energia elettrica e molte, come la nostra sul colle, erano prive anche dell’acqua potabile, quindi bisognava andare a prenderla alla fontana pubblica distante un bel tratto di strada dalla casa. La sera la cucina veniva illuminata da un lume a carburo, assai malandato, per cui, quando babbo lo accendeva, gridava “attenzione…giù!” e tutti noi ci chinavamo sotto il piano del tavolo mentre per un attimo si sviluppava una fiammata, per poi proseguire a fiamma normale. Quando ad una certa ora ci ritiravamo nelle rispettive camere, il pericoloso lume a carburo veniva spento e si utilizzavano delle candele, anzi dei mozziconi di candele, perché ce ne erano rimaste ben poche e non se ne trovavano più da comperare. Frattanto sui campi di battaglia in Europa i tedeschi erano dappertutto in continua ritirata: sul fronte orientale da agosto a settembre ’44 i russi, già in Polonia, raggiungevano Varsavia e poi occupavano la Romania e la Bulgaria; mentre nell’ottobre i tedeschi abbandonavano la Grecia, l’Albania e la Jugoslavia meridionale; e, sul fronte occidentale, gli Alleati, quasi completata la liberazione della Francia, si avvicinavano al confine con la Germania. Ma in Italia, la linea gotica sembrava inamovibile: i giorni, le settimane, trascorrevano fra un cannoneggiamento e l’altro senza che il fronte si muovesse; si era in dicembre ’44 e ormai faceva freddo, ma la semplice ed operosa gente del luogo, permeata da una robusta fede, rassegnata a condurre una vita piena di disagi ed in continuo pericolo, resisteva: infatti ch’io sappia a quel tempo nessuno si tolse la vita o perse la ragione. Sembra quindi che in simili tremendi frangenti si sviluppi una capacità di resistenza e di attaccamento alla vita maggiori che non in tempi di benessere. E noi tutti abitanti del luogo ci attaccavamo alla fondata speranza che alla prossima primavera, meglio all’inizio, riprendesse l’avanzata degli Alleati, augurandoci l’un l’altro, come per un reciproco conforto, che ciò realmente avvenisse!


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1 commento

  1. Commento by Mario Camaiani — 4 Novembre 2012 @ 22:26

    Ho ricevuto dall’amico Gian Gabriele, questo bellissimo commento:

    “Pietre miliari su un percorso ampiamente articolato, dove la scrittura, densa e robusta, crea luoghi, fatti e personaggi vincolati al lento e duro scorrere di un tempo ancora intriso di drammaticità, pur nel cambio degli occupanti. Non solo: si apprezzano nel testo la forza e la grande capacità di affrontare momenti e situazioni di durissimo impatto, senza mai soccombere alla paura ed alla resa. L’ingegno e la voglia di vivere spingeva al superamento di qualsiasi gravosa e pericolosa circostanza. Questa nuova sezione, riproponendo slanci di fede, abbracci affettivi e spunti di sincera amicizia, ci mostra ancor più il fervere di concezioni e di visioni, che, pur da parti avverse, offrono opportunità di comprensione e di democratico confronto, non scadendo mai nel rissoso e nell’esasperazione. Così vengono valorizzati episodi, nei quali si esalta ciò che di buono, positivo ed importante, in un tal periodo, la maturazione umana, politica ed ideologica è riuscita a produrre. Quindi, civiltà, educazione e comprensione si fanno (e si dovrebbero fare) prospettive sane di una nuova realtà, tesa a superare l’orrore e la violenza della guerra. E qui, fortunatamente, si intravedono certi traguardi a portata di mano. La storia anche personale, riportata con eccellente meticolosità e con verità davvero encomiabile (ancora documento storico prezioso, privo di partigianerie capziose), acquisisce riflessi e prove che si aprono verso un itinerario finanche letterario, comprensivo di non indifferente umanità, di spiccata coscienza e di profondo pensiero. E racchiude, nella sua purezza, immagini e aspetti (pur a volte crudi) e sottende tutto il microcosmo vissuto (che si fa, poi, macrocosmo) nell’inestricabile trama degli eventi. A questo punto, intendo sottolineare l’importante riconoscimento attribuito a Barga, elevata al titolo di città, e l’attenzione al suo straordinario Duomo, allora danneggiato. E questo, per noi abitanti nel territorio, è e deve essere motivo di grande soddisfazione e di un certo orgoglio. Va altresì evidenziata l’opera concreta, decisiva e saggia del grande barghigiano Morando Stefani, che si meriterebbe, a mio modesto avviso, un giusto e ampio riconoscimento per il suo comportamento intelligente, integerrimo e teso al bene della sua città e dei suoi abitanti. Va dato merito al merito in qualunque parte politica, ideologica e religiosa si militi. Ciò sarebbe sempre auspicabile.
    Gian Gabriele Benedetti”.

       Ringrazio sentitamente l’amico Gian Gabriele per questo profondo e dotto scritto. Mario.  

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Bart