LETTERATURA: Reinhold LENZ (1751-1792)11 Ottobre 2009 di Nino Campagna [Nino Campagna, presidente dell’Acit di Pescia (Associazione Culturale Italo-Tedesca) (acitpescia@alice.it), che conosco da vari anni, è un infaticabile messaggero della cultura, in particolare di quella tedesca, di cui si può dire sappia tutto. Affascinato da quella letteratura va in giro a parlarne davanti a studenti e professori, incantando tutti con il suo eloquio da oratore tanto preparato quanto appassionato. Non si finirebbe mai di ascoltarlo. Della cultura tedesca conosce non solo la letteratura, ma la musica e in modo tutto speciale – al contrario di quanto accade in Italia – la fiaba, che nella Germania gode di grande considerazione, quasi a livello di vero e proprio culto. Per la sua attività ultra quarantennale è stato insignito della croce al merito culturale concessagli dal Presidente della Repubblica Federale di Germania Horst Köhler. Essendo la sua opera protesa alla diffusione della cultura tedesca, la rivista è lieta della sua collaborazione, che ci farà conoscere molti aspetti interessanti di quella Nazione, e per questo lo ringrazia.] Reinhold LENZ (1751-1792), poeta infelice rivisitato da un altro poeta, Georg Büchner, cui l’infelicità era familiare LENZ  Il caso di questo poeta infelice, la cui storia ha assunto valore emblematico per i  poeti aderenti allo “Sturm und Drangâ€, movimento letterario da cui sarebbe nato il “Romanticismo†tedesco, era oggetto di accese discussioni e di spasmodico interesse, soprattutto perché il fatto di essere amico di Goethe gli garantiva una certa visibilità anche al di fuori del cosiddetto mondo strettamente letterario. Lo stesso Goethe nell’opera autobiografica “Poesia e verità †ci fornisce un’immagine accattivante di questo suo giovane collega: “…L’ho conosciuto verso la fine del mio soggiorno a Strasburgo. Ci vedevamo di rado; il suo giro di amici non era quello mio, ma  cercavamo tuttavia la possibilità di incontrarci e ci intrattenevamo volentieri, dato che eravamo coetanei e avevamo idee simili. Piccolo, ma di figura gradevole, una testolina graziosissima… occhi azzurri, capelli biondi, in breve una persona come quei giovani del nord,  di tanto in tanto da me incontrati; una andatura dolce e al contempo cauta, un linguaggio gradevole anche se non scorrevole… È  noto   quell’autotormento che, anche se inspiegabile, era allora di moda ed inquietava  proprio gli spiriti migliori…â€. Büchner rimane affascinato dalla figura di questo poeta, con cui condivideva lo sviscerato amore per Shakespeare e alla cui opera teatrale, “Die Soldatenâ€, si ispirerà nel concepimento del suo “Woyzeckâ€. Proprio queste due opere di due giovani drammaturghi, sconosciuti o quasi al grande pubblico, lasceranno un segno nella letteratura tedesca e un secolo dopo sarà Brecht a ratificarne la fama, attribuendo loro l’indubbio merito di aver “inventato†il teatro realistico. Büchner, come soleva fare quando doveva dare inizio ad un lavoro, si era procurato tutto il materiale allora reperibile su Lenz e aveva trovato proprio nei momenti più bui che avevano attraversato l’animo di quel disperato giovane poeta spunti a lui non estranei. L’intenzione di scrivere qualcosa su questa anima in pena l’aveva anticipata anche a Gutzkow nella lettera del 12 maggio 1835 e, oltre a  ricevere – come era prevedibile – un confortante incoraggiamento, aveva anche ottenuto la promessa formale di trovare un editore. Di Lenz sarà lo stesso Gutkow a riparlarne il 23 luglio dello stesso anno, quando, dovendosi alleggerire la coscienza per le mutilazioni ed i rifacimenti che aveva “dovuto†apportare al Danton, si impegna di reperire per questo nuovo lavoro di Büchner un editore migliore di quanto non lo fosse stato Sauerländer, il vero responsabile di quella troppo pesante azione di censura preventiva sul primo dramma di Büchner. Sul tema ritorna  ancora il 28 settembre, quando, nel rispondere all’inatteso rifiuto di Büchner alla sua proposta di collaborazione alla Deutsche Revue, lo “implora†quasi di mandargli quello che aveva, facendo preciso riferimento ai “Ricordi di Lenzâ€. A ottobre il progetto è pronto e Büchner lo partecipa con una punta di legittimo orgoglio ai genitori : “…Mi sono procurato una sacco di notizie interessanti su un amico di Goethe, un poeta infelice di nome Lenz, che ha avuto modo di intrattenersi in questi luoghi assieme a Goethe ed è diventato mezzo pazzo. Penso di scrivere un saggio e di farlo pubblicare nella Deutsche Revue…  Ancora un po’ di tempo dedicato allo studio da completare e poi la strada è spianata. C’è qui gente che mi pronostica un futuro luminoso. Non ho nulla in contrarioâ€. Il 6 febbraio 1936 è ancora Gutzkow a tornare sull’argomento. Egli, facendo riferimento ad una voce ormai di dominio pubblico secondo la quale uno dei motivi del “turbamento†di Lenz era da attribuire proprio al netto rifiuto con cui Friederike Brion, una delle prime fiamme del giovane Goethe, aveva spento sul nascere un suo timido approccio sentimentale, gli fornisce uno spunto meritevole di approfondimento: “…Volentieri apprendo le Sue attuali occupazioni. Una volta aveva in mente di scrivere una novella su Lenz. Non mi aveva  scritto che Lenz si era assunto il compito di rappresentare  il ruolo di Goethe con Frederike; il modo con cui ha cercato di proteggere una fanciulla amata, affidatagli in commssione, si presta benissimo a diventare materia per un romanzoâ€.   La novella, originariamente ideata per la Deutsche Revue, subisce un brutto colpo dal divieto con cui le autorità del tempo avevano bloccato l’uscita della rivista, prima che la stessa potesse nascere (dicembre 1835). Büchner a quel punto, duramente impegnato a mettere a punto la tesi di laurea, è quasi costretto a metterla da parte. Subito dopo, ossessionato com’era dalla scrittura, inizia un altro dramma (Woyzeck) e conta di tornare su Lenz, non appena si sarà chiarito il problema dell’editore. Il lavoro rimarrà così senza l’ultima limatura per l’improvvisa quanto prematura scomparsa dell’autore e costituirà , così come Woyzeck, un’altra opera incompiuta di Büchner. Alla base di questo schizzo tragico c’è la vera storia di un giovane talento, uno studente di teologia perseguitato per anni da spettri, che, oltre a fornigli il materiale per le sue opere, si sono via via impadroniti della sua anima. Preda di un continuo alternarsi di momenti di lucidità e attimi di buio totale, al quale gli  “studiosi†del comportamento, non avendo a portata di mano definizioni più idonee, davano il nome di pazzia, comincia così il calvario umano e professionale di un infelice che ha avuto  la sorte di attraversare anni di particolare fermento della letteratura tedesca. Nonostante l’affettuosa disponibilità di tanti amici, soprattutto di alcuni di quei pastori protestanti impregnati di “pietismo†che  hanno caratterizzato un’intera epoca della spiritualità tedesca, Lenz finisce col dibattersi nella morsa impietosa di una progressiva depressione, da cui non riuscirà ad uscire. Büchner nel ripercorrere a suo modo il calvario di questa anima, che per certi versi “sentiva†affine alla sua, riesce a fissarne alcune stazioni. Della figura storica di Lenz si sa che era nato nei pressi di Riga nel 1751, quindi era di soli due anni più giovane di Goethe, dal cui fascino e autorità morale, oltre a rimanere affascinato, rimarrà per certi versi vittima. Con il grande vate della letteratura tedesca avrà un rapporto molto stretto, avendo i due giovani poeti condiviso il periodo della cosi detta “scapigliatura stürmeriana†di Strasburgo (1770-1771) e di Francoforte. Dopo la partenza di Goethe alla volta di Weimar, personalmente chiamato dal duca Karl August che lo volle suo precettore (1775), Lenz lo va a trovare l’anno dopo nella speranza di poter in qualche modo “usufruire†della sua già consolidata posizione a Corte. Goethe ha subito la netta sensazione che lo stato psichico di Lenz comnciava a vacillare e, pur non abbandonandolo mai completamente, cerca di trovare nella sfera di amici e conoscenti gente che potesse dargli una mano. Dopo un continuo girovagare, con puntate anche in Svizzera, ospite di Lavater, Lenz all’inizio del 1778  si trova a Waldersbach, residenza del parroco e filantropo Oberlin. Questa generosa anima pia, oltre ad ospitare Lenz, trovandogli un letto in una casa vicina alla sua, si mette a disposizione di quel giovane sbandato, cercando di costituire un preciso punto di riferimento. Sulla sua esperienza accanto a Lenz, psichicamente labile e sempre al limite del crollo, scrisse addirittura un rapporto dettagliato, attentamente letto e studiato da Büchner, come sempre molto scrupoloso nel documentarsi. Infatti è proprio il periodo dal 20 gennaio all’8 febbraio, in tutto quindi 20 giorni cui si riferisce il rapporto di Oberlin, quello che sarà messo a fuoco dalla fantasia di Büchner. Nella sua novella, che è dedicata al ricordo di Lenz, viene esaltata la figura preromantica di “genio e sregolatezzaâ€, la cui fine – venne trovato morto in una strada di Mosca nel giugno del 1792  –  era in perfetta sintonia con il personaggio.  La novella con il titolo “Lenz. Una reliquia di Georg Büchner†venne pubblicata postuma a cura di Gutzkow nel “Telegraph für Deutschland†di gennaio 1839. Essa comincia proprio con un riferimento temporale preciso: “Il 20 (gennaio) Lenz attraversò la montagnaâ€. Si trattava di una delle montagne dei Vosgi, territorio ben conosciuto dallo stesso Büchner che l’aveva più volte visitato durante il suo soggiorno strasburghese e puntualmente descritto nella lettera indirizzata alla famiglia dell’8 luglio 1833: “…ora per le valli, ora su cime abbiamo attraversato quel dolce paesaggio… All’improvviso la tempesta spinse le nubi  sulla superficie del Reno, alla nostra sinistra brillavano i lampi e sotto le nubi spaccate in cima allo scuro Jara risplendevano al tramonto i ghiacciai alpini â€. In questo ambiente, che può  diventare incantevole se si è in tanti a condividerne le bellezze e a scambiarsi emozioni, si aggirava solo e desolato il povero Lenz, come uno spettro assolutamente incapace di lasciarsi influenzare dall’ambiente in cui era immerso “…procedeva indifferente, non gli importava nulla del cammino, ora su, ora giù. Stanchezza non ne avvertiva, solo gli rincresceva talvolta di non poter camminare sulla propria testaâ€. Si comincia a delineare in tutta la sua drammaticità lo stacco tra il personaggio e l’ambiente in cui si è immerso e si muove; da automa in un mondo che non lo riguarda viene assalito dai pensieri più strani, ed il voler camminare sulla propria testa ne costituisce la prova più lampante. La descrizione a questo punto diventa incalzante, sembra rispondere al ritmo travolgente degli elementi che si scatenano in occasione di una tempesta. Il Lenz  indifferente dell’inizio viene travolto dagli eventi e, non potendo star loro dietro, finisce col darsi a reazioni spontanee che tradiscono il suo turbamento: “…allora qualcosa gli lancinava dentro, e lui rimaneva là , ansante, il corpo piegato in avanti, occhi e bocca spalancati… Si stendeva e giaceva sopra la terra, si sprofondava nel tutto, ed era un godimento che gli faceva maleâ€.  Godimento e sofferenza diventavano per lui le facce della stessa medaglia; attimi in cui perdeva la sua dimensione d’essere umano. Questo vagabondare per monti e per valli viene mirabilmente descritto da Büchner con una prosa mozzafiato e con periodi lunghissimi che mettono a dura prova occhi e intelletto, inusuali per la stessa lingua tedesca sempre tesa a ridare l’essenziale servendosi di espressioni brevi e concise. L’autore con questa sua voluta forma espressiva sembra  quasi  voler mettere in difficoltà lo stesso lettore, che, confrontato con un ritmo di lettura convulso, finisce col condividere, anche leggendo, lo stesso smarrimento di cui è vittima Lenz. In questo paesaggio variegato, contrassegnato da cime da cui si dipartivano ampie vallate, Lenz, oltre ad essere un estraneo, non riuscendo a godere di quegli spazi infiniti, viene  assalito da una strana sensazione: “…era solo, terribilmente solo, avrebbe voluto parlare con se stesso, ma non ci riusciva, osava appena respirare, il flettersi del piede risonava come un tuono sotto di lui, si era dovuto mettere a sedere; in questo nulla lo assalì  una paura anonima, si trovava nel vuoto, balzò in piedi e volò giù lungo il pendioâ€.  Da questa esperienza vissuta come un brutto incubo Lenz si sveglia solo quando, arrivato a Waldbach, viene amorevolmente accolto dal parroco di quella piccola località , il pastore Oberlin. Il nome con cui si presenta, Lenz, non è sconosciuto a quel prete colto, che amava tenersi aggiornato sulle pubblicazioni del momento. Egli, credendo di fargli cosa gradita,  fa cenno ad alcuni suoi drammi da lui recentemente letti, ma viene subito zittito dallo stesso Lenz, che quasi  schermendosi aggiunge: “…Sì, ma la prego di non giudicarmi da essiâ€. L’ambiente, modesto ma irradiato dalla tenera luce di una giovane madre – “simile ad angelo†– e dal viso di un dolce bambino, hanno su di lui un effetto balsamico. Ma l’incanto, come tutti gli incanti, sarà di breve durata. Costretto ad essere alloggiato in un altro ambiente, dato che la casa del parroco era troppo piccola per ospitarlo, ripiomba all’improvviso in quella insopportabile solitudine che lo aveva angustiato su per le montagne. Chiuso in una stanzetta non riesce a sottrarsi al supplizio della sua insopportabile solitudine e scappa di corsa; incosciamente si precipita in direzione di quella casa, dal cui calore umano era stato affascinato. Ma tutt’intorno era buio pesto, e anche la casa dove erano state spente le candele, sembrava impietosamente inghiottita da quella paurosa oscurità . Lenz continua a correre, fugge, fugge soprattutto da se stesso e subisce le conseguenze di questa corsa al buio e all’impazzata: “…urtava contro le pietre, si lacerava con le unghie, il dolore cominciava a ridargli coscienza, si getta nella vasca della fontanaâ€.  L’epilogo della prima giornata a Waldbach è rappresentato quindi da  un insolito tuffo in una vasca per nulla profonda, che non poteva avere altro effetto che il rumore di un tuono in quella tranquilla serata del borgo già addormentato. La gente si sveglia, accorre, lo stesso Oberlin è tra i primi ad arrivare e Lenz, tornato in sé era letteralmente mortificato: “…adesso si vergognava ed era turbato per aver fatto paura a quella brava gente, disse loro ch’era abituato a far bagni freddi e ritornò su; la spossatezza lo fece dormireâ€. Dopo questo imprevisto incidente notturno Lenz sembra essersi calmato e, a partire dal giorno seguente, accompagna volentieri Oberlin nei  suoi quotidiani viaggi intrapresi per visitare i fedeli della sua estesa parrocchia nella speranza di non far mancare loro una parola di conforto. Nella figura di questo instancabile pastore così intriso di carità cristiana sembra aleggiare lo stesso amore nutrito da un povero frate che tanto aveva impressionato Heine durante il suo soggiorno a Bagni di Lucca: “ …Non so se il monaco nel quale mi imbattei non lontano da Lucca sia un uomo pio; ma so che il suo corpo antico, povero e nudo, è avvolto in una rozza tonaca, sempre quella: che i sandali laceri non proteggono i suoi piedi scalzi, mentre si arrampica fra spine  e cespugli per recar conforto agli ammalati o insegnare le orazioni ai bambini nei villaggi collinari; e che in cambio si accontenta di ricevere un tozzo di pane per sfamarsi e un po’ di fieno su cui buttarsi a dormire†.  Lenz viene letteralmente affascinato dalla facilità con cui Oberlin riusciva a parlare alla sua gente, dalla familiarità con cui trattava le persone, dalla pazienza con cui ascoltava i loro problemi, dalla fiducia che sembrava iniettare loro con risposte semplici e affettuose. Di giorno sembrava integrarsi perfettamente con quell’ambiente maestoso e solenne; “il suo viso infantile†mostrava una confortante partecipazione e procurava gioia allo stesso Oberlin. I problemi cominciavano al tramonto – “…verso sera l’assaliva una strana paura, avrebbe voluto ricorrere il sole†– e allora finiva con l’essere vittima delle sue paure  – “…l’incubo della follia si acquattava ai suoi piedi†–  e finiva regolarmente per buttarsi nella solita fontana, con la speranza di spegnere lì dentro tutte le sue ansie e i suoi timori. In un mattino innevato, con l’intera valle immersa nel candore della neve fresca, gli sembra di rivivere l’atmosfera natalizia e di sentire la voce accattivante della madre. Una inattesa allegria si fa strada nel suo animo, il suo volto si illumina e spinge Oberlin, che sapeva di trovarsi di fronte uno studente di teologia, a proporgli di tenere la predica domenicale. L’attesa di questo evento lo fa sprofondare nella meditazione e all’improvviso le sue notti divennero tranquille. Durante la funzione religiosa, affrontata con un certo timore, la sua comprensibile emozione viene sciolta dal canto dei fedeli; la musica aveva fatto il miracolo: “…fra le note s’era quietata la tensione che l’aveva irrigidito, ora tutto il suo dolore si era  risvegliato e  depositato sul suo cuore. Un dolce sentimento di bene infinito lo invase a poco a pocoâ€. Ma si sarebbe trattato solo di una parentesi, finita la messa e tornato nella sua camera solitaria doveva ancora una volta osservare di essere solo, tremendamente solo! Cominciano a farsi strada nel suo intimo “strane†voci; era come se la natura volesse parlargli, comunicargli il suo afflato misterioso. La visita di un vecchio amico, Kaufmann, un filantropo seguace di Lavater, da Lenz conosciuto e frequentato durante il suo soggiorno a Strasburgo, riapre vecchie ferite. A tavola il discorso cade sulla letteratura e Büchner mette volentieri in bocca a Lenz quelle che erano le sue idee sull’estetica, già anticipate nella “Morte di Danton†e nella lettera alla famiglia dl 28 luglio 1835: “… il buon Dio ha fatto il mondo come deve essere e noi non possiamo scarabocchiare qualcosa di meglioâ€. Non è il solo passo dove Lenz usa espressioni tipicamente büchneriane; ad imporsi sarà nello stesso scambio di vedute l’idea dell’amore del prossimo: “…Bisogna amare l’umanità per penetrare nell’essenza particolare di ognunoâ€. Ma a far esplodere Lenz sarà l’accenno di Kaufmann ad una lettera con cui il padre lo invitava a tornare in Russia. Il giovane, che non  non riusciva neppure ad immaginarsi una tale alternativa, diventa furioso: “…via? Via da qui ? Tornare a casa? E là diventare matto? … Lasciatemi in pace, adesso che comincia a venirmene un po’ di bene! … Ognuno ha bisogno di qualcosa; se può riposare, che potrebbe avere di più! Sempre salire, lottare e gettar via per l’eternità quello che offre l’attimo, e privarsi per sempre di qualcosa per godere poi chissà quando: soffrire la sete mentre sgorgano sul nostro cammino chiare sorgentiâ€.  Stranamente riecheggiano in queste concitate parole che Büchner mette in bocca a Lenz, sia alcune delle osservazioni fatte dallo stanco Danton, sia  considerazioni istintivamente “popolari†della bella Marion in merito alle occasioni che non vanno sprecate. A dare una fatale accelerazione alla malattia di Lenz concorre l’episodio della ragazza malata, adagiata su un lettino posto in una capanna che condivideva con una vecchia e un uomo spiritato. Lenz resta sconvolto da quella visione e ritornato a casa riscopre con raccapriccio che “…nella solitudine aveva paura anche di se stesso†e, proprio a causa dell’esperienza fatta la notte precedente, “…sentiva in sé un agitarsi, un premere verso un abisso a cui lo trascinava una forza irresistibileâ€.  Oberlin continua a stargli vicino, madame Oberlin si dimostra come sempre premurosa, ma quella casa non gli apparteneva e quindi non poteva rappresentare un punto d’arrivo. Egli poteva solo assistere a quella vita improntata alla massima semplicità e rischiarata dalla fede; dilaniato com’era da stati d’animo molto diversi, passava molto spesso da un’indistinta euforia ad una indicibile depressione. A scuoterlo da quello stato depressivo sarebbero bastati due versi, cantati dalla ragazza delle pulizie: “… A questo mondo non ho alcuna gioia,/ soltanto il mio amato, ed è lontanoâ€. Quelle parole della canzone lo turberanno al punto da rischiare uno svenimento. L’evocare un amore lontano gli provoca una struggente nostalgia. Indistintamente si trova alle prese con una marea di ricordi che vorrebbe rimuovere perché  intrisi di esperienze amare. Il suo pensiero va alla dolce, cara, piccola Friederike Brion, la figlia del parroco di Sessenheim, la fanciulla perdutamnete innamorata del giovane Goethe e da questi crudelmente abbandonata. Lenz chiede di lei a madame Oberlin, a cui era solito confidare le sue pene, nella vana speranza di trovare conforto. Ma a sconvorgelo definitivamente arriva la notizia della morte di una bambina in un paese vicino. Cosparso di cenere e avvolto in un sacco di juta corre  via alla ricerca della casa della bambina, che, guarda caso, si chiama Friederike, come la sua antica e inavvicinabile fiamma. Qui giunto si prostra sul cadavere e implora Dio di ridarle la vita. Fallito quel folle tentativo di far tornare in vita quella creatura ormai irrigidita,  cui aveva inutilmente ordinato “Sorgi e cammina!â€,  viene colto da un irrefrenabile furore contro quel Dio che non aveva esaudito le sue preghiere. Si ritrova quindi di nuovo a correre, a scappare da se stesso e, giunto in cima ad una  montagna, deve amaramente constatare che “… il cielo era uno stupido occhio azzurro e la luna ci stava dentro, quanto mai ridicola e scioccaâ€. Una delusione gigantesca non molto dissimile da quella provata dal bambino orfano e povero della favola raccontata dalla nonna nel Woyzeck. Sempre preda della malattia mentale che lo divora, cerca di assecondare i consigli di Oberlin e di affidare a Dio tutti i suoi tormenti. Ma è come se Dio si fosse dimenticato di lui e allo stesso pastore non può fare a meno di confidare: “… Già , se io avessi la fortuna che ha lei, di trovare un passatempo così piacevole, eh sì, allora si potrebbe occupare il proprio tempo. Tutto a causa dell’ozio. Infatti quasi tutti pregano per noia; altri si innamorano per noia, altri ancora sono virtuosi, altri ancora viziosi, e io non ho un bel niente, niente, non ho nemmeno voglia di ammazzarmi: troppo noiosoâ€. Anche in questo caso ricorrono espressioni care a Büchner e da lui regolarmente citate  in tutte le sue opere. La pazzia sta per esplodere e, nonostante l’affetto e la disponibilità di Oberlin,  Lenz  è ossessionato dai suoi spettri, dà in escandescenze, si autoaccusa di crimini infamanti e prega di essere legato; l’unico mezzo per resistere a struggenti quanto pericolose tentazioni. Nei rari momenti di lucidità non smette mai di esprimere la sua gratitudine per l’infinità carità cristiana, che il pastore protestante continuava a dimostrargli, ma altrettanto lucidamente deve confessare di non provare né odio, né amore, né speranza. Dentro di lui c’è un vuoto totale. Di tanto in tanto continua a vaneggiare e ad invocare la “Frauenzimmerâ€, quella signorina della cui presunta morte si autoaccusava.. Oberlin continuava a stargli vicino, a raccomandargli di cercare in Dio la fonte del suo conforto e di intrattenersi con lui nelle lunghissime notti insonni. “…Frattanto il suo stato era divenuto sempre più disperato… egli non aveva odio, non amore, non speranza, solo un vuoto spaventoso e insieme un’ansia torturante di colmarlo. Non aveva nulla!â€.  Stati d’animo ben noti allo stesso Büchner che nella lettera del 7 marzo 1834  aveva cercato di parteciparli alla fidanzata “… e adesso? e poi? Non avverto neppure il tormento del dolore e del desiderioâ€.  Lenz quindi, come il suo autore, si sentiva inghiottito in un vuoto spaventoso. Egli era arrivato al punto di non ripromettersi  neppure dalla morte una speranza di pace e forse per questo tutti i tentativi fatti per porre fine alla sua vita erano falliti. Era convinto di essere stato eternamente condannato ad una follia eterna. L’unica persona che lo faceva sentire vivo era Oberlin, ancora capace di calmarlo con affettuose parole e nelle cui braccia si gettava con completo abbandono: “…gli si aggrappava quasi volesse entrare in luiâ€. L’intera famiglia del pastore era direttamente coinvolta in questo dramma che stava letteralmente divorando una persona diventata ormai cara. Impossibilitati ad aiutarlo, pregavano per lui, che, quando ritornava calmo “…era come un bambino disperato: singhiozzava, provava una profonda, profonda compassione per se stessoâ€. Ormai aveva rinunciato anche al  tentativo di togliersi la vita, convinto com’era che per lui non ci sarebbe stata né pace né speranza neppure nella morte. Accomiatandosi per sempre dalla famiglia di Oberlin, si accovaccia, indifferente a tutto, sulla carrozza e si lascia portare a Strasburgo. Qui darà l’impressione di aver raggiunto una condizione di apparente normalità , ma era solo apparenza: “… c’era un vuoto orribile in lui, non sentiva più alcuna paura, alcun desiderio: la sua esistenza gli era un peso necessario. – Così continuò a vivereâ€. Letto 4331 volte. | ![]() | ||||||||||
Commento by Gian Gabriele Benedetti — 11 Ottobre 2009 @ 16:01
Ottimo saggio su un poeta e drammaturgo di non indifferente valore. I fatti storici e letterari, ben circostanziati e con acuminati riferimenti, ben si amalgamano con i risvolti di una vita non semplice, fortemente condizionata da una personalità sì notevole, ma anche fragile. C’è tanta verità ed umanità in questa pagina, così da farci apprezzare non solo la grandezza dell’autore dello scritto programmatico della drammaturgia (Sturm und Drang) e la sua validità poetica, ma anche e soprattutto la controversa, tutt’altro che felice esistenza, che ha accompagnato il personaggio. E ci vien fatto di amarlo ed apprezzarlo ancor di più. Grazie, dunque, all’autore di questa bella, ricca ed interessante pagina.
Gian Gabriele Benedetti