LETTERATURA: Scrittori Lucchesi: Remo Teglia: “Mala Castra”
8 Luglio 2009
di Bartolomeo Di Monaco
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Altopascio, in provincia di Lucca, dove Remo Teglia nacque nel 1913, è un borgo illustre non solo per la storia locale (vi si combatté nel 1325 la battaglia di Altopascio tra l’esercito lucchese, che ne uscì vincitore, guidato dal celebre condottiero Castruccio Castracani, e l’esercito fiorentino) ma anche perché, posta sulla strada dei pellegrini che fin da Canterbury si recavano in Terrasanta, fu sede di un ospedale che ebbe fama per tutto il medioevo, retto dall’Ordine dei Cavalieri del Tau, la cui insegna la si può ancora oggi osservare sulla base dell’antico campanile del paese, in cima al quale è pure visibile “la smarrita”, la campana che, coi suoi rintocchi, chiamava a sé i pellegrini.
Remo Teglia, che esercitò con amore e dedizione la sua professione di medico, è senza alcun dubbio uno scrittore dimenticato. Si fa fatica a rintracciare qualche scritto su di lui. Eppure ne parlarono, lodandolo, critici importanti, come Franco Antonicelli, Lorenzo Gigli, Pietro Bianchi, Giuliano Gramigna, Paolo Milano.
“Mala Castra” fu il suo romanzo di esordio, uscito nel 1965, frutto della sua esperienza diretta della guerra. Va ricordato che il viareggino Mario Tobino aveva pubblicato nel 1952 “Il deserto della Libia” e nel 1962 “Il clandestino” che senza dubbio hanno influito su di lui più de “Il passo dei longobardi” del lucchese Arrigo Benedetti, che è dell’anno prima, il 1964; e de “Il mondo è una prigione”, che è del 1949, dell’altro lucchese Guglielmo Petroni. Ambientato nei Balcani, narra le gesta di un battaglione italiano alle prese con la guerriglia macedone nel 1943. Con “mala castra” era appellato quel luogo sin dal tempo dei romani che, due secoli avanti Cristo, avevano avuto, anch’essi, a che fare con la guerriglia. Questo ricordo suggestiona soprattutto il dottore del battaglione che dice al capitano: “Saranno passati di qui, come noi adesso: fanti leggeri e fanteria pesante, i muli, le armi e le vettovaglie […] Siamo o no i legionari di Roma? E anche noi abbiamo i nostri mala castra.”
Nel primo scontro coi partigiani macedoni, i soldati italiani hanno il loro primo contatto con la morte. Cadono in un tranello e il loro sottotenente Brondi muore. Lo trasportano in barella al battaglione e lungo la strada il soldato Triglia, detto Faina, e l’altro soldato, Gumina, che sta battendo col fucile e coi piedi il bosco coperto di cespugli e pruni, hanno già nel sangue il veleno che la guerra inietta negli uomini. La morte ha il volto della sorpresa e dell’incredulità, mai accettata, odiata e maledetta, improvvisa, vigliacca, traditrice. Il Gumina comincia a bestemmiare. Il Faina, che sorregge la barella dove è deposto il corpo del tenente “Sentì che sveniva, ebbe voglia di vomitare. Lasciò andare la barella, le gambe gli vacillavano, i tendini dei polsi gli sembrò che si spezzassero. Rimase fermo e pallido, e tutti si fermarono.” La guerra può distruggere perfino i legami di un’amicizia che si è formata e consolidata nella sofferenza e nel dolore.
Narratore di fatti, dalla scrittura asciutta, qua e là con i segni della sua toscanità (“Ha consumata la scatoletta e zirla succhiando tra i denti i frustoli della carne.”), Teglia lascia che siano i fatti a parlare e a mostrare ciò che avviene nella mente degli uomini. Allorché ci si incontra con l’irreversibile morte, si vorrebbe poter tornare indietro, ma non ci è concesso. Dice il maggiore, che ancora non sa della morte del suo tenente, ma è come se la percepisse: “Che cosa me ne fregava, che ce li ho mandati a fare?” Quando il capitano rientra con la sua barella di morte, sa solo strillargli: “Tu comandavi la pattuglia e tu sei il responsabile di quello che è successo: sei un inetto e un chiacchierone!” Il capitano “Saltò indietro e strinse il moschetto: – Sacr…, disse. Stava per diventare matto.” Ecco, dunque, gli sconvolgimenti che i fatti recano nei sentimenti degli uomini, e se la morte è mistero, ombra e perfino follia, essa reclama sempre il rispetto e l’attenzione che le si deve. Innalza colui che ne viene avvolto, prima di scomparire e scomporsi in cenere, nella luce e nel calore di un fuoco di conoscenza e di meraviglia e, così come accade all’incendiarsi di uno zolfanello, dona a quel corpo avviluppato e incamminato verso il nulla una improvvisa magia di attrazione, la quale imprime a quel nulla che l’attende, in quell’attimo di fuoco, la consistenza e l’ardore di un’intera vita.
Solo ora il maggiore vuole sapere di quella vita, infatti, che si è consumata e non è più. La morte, nel momento che ci afferra con la sua tenaglia, dunque, non sacrifica ma rivela ed esalta la vita.
Che altro di meglio c’è per la morte di una guerra? L’uomo ve la incontra sempre, ne apprende la lezione, riesce a guardarla negli occhi e si trasforma, suggendo dagli altri le forze che lo accompagneranno per tutta la vita, anche dai morti (“gli vide gli occhi aperti che non erano più i suoi.”). Nei capitoli dedicati all’imboscata, magistralmente scritti, il VI e il VII in particolare, è questo che s’impara. I fatti, quando sembra che non abbiano sangue nelle vene, e tutti si somiglino, si rivelano diversi l’uno dall’altro, come sono diversi gli uomini. Il cappellano che osserva i soldati uscire dal treno alla disperata caccia dei cecchini, che sparano da un’altura e li hanno intrappolati, nel benedirli, loro lontani, ne ha già compreso ed assorbito l’anima: “sollevò la mano a benedirli. La mano si trattenne, prima sul Padre e poi sul Figliolo, più svelta sullo Spirito Santo, perché intanto tutti eran saltati via, di là dalle rotaie e dal terrapieno, e correvano. E il cappellano li vedeva: alzava un po’ la testa, sollevandosi sul busto, appoggiato al gomito.” Dirà Francisco, uno dei soldati: “Questo è il giorno del giudizio”. Chi non è più tanto giovane, o chi ami il cinema, ricorderà il film di Allan Dwan: “Sands of Iwo Jima” (in italiano mi pare fosse: “Iwo Jima deserto di fuoco“), del 1949, in cui il grande John Wayne interpreta la parte del sergente John M. Stryker a capo di un manipolo di soldati che devono a costo della loro vita smantellare una postazione giapponese situata su di un’altura. La descrizione minuziosa di Teglia, con il suo sergente che guida i soldati alla conquista della collina, lo riporta alla mente e vi si trovano infatti molte analogie legate alla crudeltà della guerra. Pensate che perfino il cappellano don Egidio, quando sente detonare le bombe che il sergente ha lanciato sul nemico, esclama: “Bravi!” e nel contempo si rende conto, allorché ha per le mani un moribondo da assistere, che la guerra è solo un teatro di morte: “Dove lo porto, – pensò, – se dappertutto si muore?” Non v’è dubbio che nel romanzo di Teglia si muove lugubre, terribile e incontrastata, vincitrice, la morte. Allorché il sergente e i suoi due soldati superstiti, Francisco e Nardone, conquistata la cima, sono accovacciati tra i massi, al riparo dai colpi di fucile che provengono da un’altura di fronte, sono consapevoli che la morte è in agguato e si deve stare all’erta. Il nemico non è visto come persona, dunque, ma è il braccio, il vessillo, l’annunciatore della morte. È per non farsi sorprendere da lei che la notte stanno in guardia, a turno, di sentinella: “Chi si fida di due soldati che sono di sentinella? Ma se ne va della pelle, le sentinelle stanno all’erta. Uno passa all’altro la voce: se chiavaccia l’otturatore, vi rinchiude la sua paura, e bisogna stare attenti, c’è da beccarsi una pallottola.”
Le lusinghe dei nemici che li hanno nel frattempo accerchiati e li invitano, nascosti nell’ombra, alla resa assumono per il sergente e i due soldati superstiti il significato di una conversazione non tanto con altri uomini bensì con la morte in agguato. Teglia ha trasfigurato il suo racconto di guerra in una partita a scacchi con la morte. Si attende l’evento misterioso che si sa incombente (“Delle figure si affacciavano sulle alte creste e sparivano. Gli occhi inquieti dei soldati correvano da una cresta all’altra.”), che è un po’ l’atmosfera che si respira ne “Il deserto dei Tartari” di Dino Buzzati, del 1940. Anche quando infuria la battaglia, l’improvviso sbucare dal nulla dei partigiani macedoni accentua in realtà il senso dell’attesa e avvolge gli uomini nel terrificante ma fascinoso mistero del proprio destino, come accade al partigiano che è quasi riuscito a percorrere il campo scoperto e sta per gettarsi oltre una palizzata, che lo avrebbe salvato, ma “il caporale, a denti stretti, gli sparò freddamente, con metodo: gli dette un attimo di respiro, mirò la palizzata e ve lo colse mentre saltava. Tutti aspettavano che sparisse, ma invece rimase a mezzo nel salto, piegato sullo steccato, forse un recinto per le capre.” Ogni personaggio più o meno anonimo del romanzo fa continuamente la sua mossa nella partita a scacchi con la morte, qualche volta con successo e qualche volta inesorabilmente vinto. Si dirà che in tutte le storie di guerra è presente questo motivo. Non così come in Teglia, a mio avviso, in cui le azioni hanno in sé una specie di pausa infinitesimale, la quale altro non significa se non quell’attimo in cui si decide di muovere la propria pedina e si determina il proprio destino.
Teglia si muove sul teatro di guerra spostando il suo punto di osservazione in capo prima ad uno poi ad un altro dei suoi personaggi, e talune azioni che abbiamo seguito in una descrizione diretta, tornano percepite in lontananza da un altro personaggio. Un tale modo di sezionare gli episodi di una stessa battaglia stende sulla storia una trama di unità e di simbiosi assai più compatta che se si fosse scelta la descrizione di un’azione unica e complessiva. Ciò che li cementa tra loro, infatti, e li trasforma in uno stesso segmento dell’esistenza è proprio quella sensazione di precarietà e imperscrutabilità che accompagna sempre il passo silenzioso della morte: “Le pallottole sfioravano la polvere, una strisciata rapidissima si tirava dietro gli occhi e la mente.”
Quella fila di muli carichi di feriti, che trascinano barelle sotto gli occhi malinconici dei sopravvissuti sono l’immagine più sconvolgente di una vita che non è riuscita a maturare e a compiersi per il cinico gioco del destino, che ha voluto beffardamente avvicinare gli uomini alla morte e rabbrividirli in quel suo gelido e fulminante respiro: “Altri feriti, lievi, camminavano tra muli e barelle, qualcuno col braccio al collo, altri con la testa fasciata. E altri stavano sui muli, che non potevano camminare”. Pieratti, Bassi, Mangioni, Capasso, il dottore, il sergente, il maggiore, Della Farnesina, i partigiani fucilati, passano sotto i nostri occhi come simboli di una guerra che non è soltanto esteriore, fatta di bombe, di mitragliatrici, di pallottole, bensì espressione la più marcata ed evidente dell’eterna lotta tra la vita e la morte, di come non sia facile vivere e nemmeno morire.
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Commento by Carlo Capone — 8 Luglio 2009 @ 20:34
“…e se la morte è mistero, ombra e perfino follia, essa reclama sempre il rispetto e l’attenzione che le si deve. Innalza colui che ne viene avvolto, prima di scomparire e scomporsi in cenere, nella luce e nel calore di un fuoco di conoscenza e di meraviglia e, così come accade all’incendiarsi di uno zolfanello, dona a quel corpo avviluppato e incamminato verso il nulla una improvvisa magia di attrazione, la quale imprime a quel nulla che l’attende, in quell’attimo di fuoco, la consistenza e l’ardore di un’intera vita.”
Bellissimo questo tratteggio, Bart. Chapeau!
Carlo
Commento by Bartolomeo Di Monaco — 8 Luglio 2009 @ 21:01
Troppo buono, Carlo.
Mi aspetto una mattina di aprire la rivista e di trovarci qualcosa di tuo.
Commento by Gian Gabriele Benedetti — 9 Luglio 2009 @ 19:20
È veramente colpevole la dimenticanza di autori come Remo Teglia. Ed è, dunque, altamente meritoria la tua opera, Bartolomeo, tesa a riportare alla luce e al di sopra di una certa deplorevole noncuranza questi personaggi di valore, che tu, nel tuo libro, dall’importanza indiscussa, hai giustamente ricordato e ben recensito, riproponendoli nel loro essenziale valore letterario ed umano.
Nella presente recensione, come sempre dettagliata, ampia, lucida, intelligente, di grande respiro, vi sono brani di tua inventiva, che rappresentano vibrazioni e toni altissimi di grande sostanza e di autentica poesia. Uno di questi è stato messo in risalto dall’attenta e profonda sensibilità di Carlo
Gian Gabriele
Commento by Bartolomeo Di Monaco — 9 Luglio 2009 @ 21:03
Grazie anche a te, Gian Gabriele.