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La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

Michael Jackson

7 Luglio 2009

Mentre scrivo si stanno celebrando a Los Angeles i funerali della star del pop Michael Jackson alla presenza di più di un milione di persone. Si può dire, poiché la cerimonia è trasmessa in mondovisione, che qualche centinaio di milioni di spettatori assistano all’evento.
Non sono un affidabile intenditore di musica, né di quella classica né di quella leggera, e Michael Jackson – di cui ha sapientemente scritto in occasione della sua improvvisa morte, avvenuta all’età di 51 anni, il nostro collaboratore cletus qui – ha attirato la mia attenzione soprattutto per le sue vicende private più che per le sue canzoni.
Sono allergico alle canzoni accompagnate da musiche forti e da troppa frenesia. A me piacciono le canzoni quiete, con una melodia che vada dritta alle corde del cuore. Modugno, Peppino di Capri, Mia Martini, Joan Baez, Bob Dylan, possono dare un esempio di ciò che nella musica leggera fa al caso mio.
Mi rendo conto, però, che Michael Jackson debba essere stato un grande se oggi lo piangono milioni di persone.
Ciò che di lui, tuttavia, mi ha sempre contrariato, e ancora non riesco a darmene una ragione, è stata quella sua folle mania di diventare un bianco, di liberarsi della sua pelle nera. Perché? Si dice che il suo sbiancamento dipendesse da una malattia, la vitiligine. Ne dubito. Ricordo le cronache del tempo che raccontavano di questa sua mania.
Provava forse la stessa vergogna di una delle protagoniste de “Lo specchio della vita”, il film di Douglas Sirk del 1959, quella Sarah Jane che, non troppo scura di carnagione, era felice di passare per bianca e si vergognava di avere una madre nera?
Mi dispiacerebbe fosse stata per Michael Jackson la stessa vergogna di Sarah Jane nei confronti della sua razza.
Voglio piuttosto credere che le sue molte operazioni chirurgiche sulla pelle fossero tese a dimostrare che anche un nero può essere un bianco: che non c’è tra le razze alcuna differenza. Dunque: un sogno, una meta, un messaggio.


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4 Comments

  1. Commento by Daniela Toschi — 8 Luglio 2009 @ 02:15

    Ti ricordi della differenza tra “motho” e “legkoa”, di cui mi sembra di averti già parlato? Tra i Bastwana la parola “motho” significa “persona, essere umano”. Quando arrivarono i bianchi, però, essi vennero chiamati “legkoa” (da “zecca”, ovvero coloro che parassitano, che sfruttano, che non rispettano le regole della convivenza umana). Quindi la parola “motho” passò a designare le persone di pelle nera, mentre i bianchi venivano chiamati “lekgoa”. Ora che in Botswana convivono armoniosamente bianchi e neri (il presidente attuale è mulatto) la parola “motho” indica le persone, sia bianche che nere, che meritano e danno rispetto, mentre “lekgoa” indica quanti, a prescindenre dal colore della pelle, non si comportano secondo le regole della convivenza e dell’educazione. Insomma, bianchi o neri non importa, ciò che conta è essere “motho”.

  2. Commento by Bartolomeo Di Monaco — 8 Luglio 2009 @ 08:52

    Il Botswana, Daniela, dà una bella lezione alla nostra cosiddetta civiltà occidentale. Grazie di questa notizia preziosa.

  3. Commento by cletus — 21 Luglio 2009 @ 21:27

    Corro consapevolmente il rischio di fare psicologia da mercato. Per capire buona parte delle stranezze di Michael Jackson, bisogna indagare il suo rapporto col padre.

    Definito dai più un burbero esigente che lo scudisciava se non eseguiva bene un pezzo (quando cantava ancora con i suoi fratelli), deve averlo cosi ben pressato che il poveretto, pur di tentare di liberarsi da quest’ingombrante imprimatur (è in ballo una roba che si chiama accettazione) deve essersi sottoposto ad ogni genere di auto-tortura, finanche quella estrema, di cambiare il colore alla propria pelle, proprio a sancire un distacco da tanto padre ingombrante et barbaro.

  4. Commento by Bartolomeo Di Monaco — 21 Luglio 2009 @ 23:40

    penso, cletus, che le tue supposizioni si possano condividere agevolmente.

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