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LETTERATURA: Stati di commozione

12 Dicembre 2007

racconto di Lucetta Frisa

Gli ultimi libri di poesie pubblicati da Lucetta Frisa sono: “L’altra”, Manni, 2001 e “Se fossimo immortali”, Joker, 2006]

Le mostrano delle foto di Marte, scattate dalle sonde. Un canyon lungo quattrocento chilometri e in certi punti largo quattro. L’hanno chiamato Valle Marineris.

La sua profondità raggiunge l’Everest rovesciato. È stato plasmato dallo scorrere dell’acqua, anche se la sua formazione iniziale è legata allo sprofondamento del suolo in seguito allo scioglimento dei ghiacci sottostanti. Lungo il canyon, un gigantesco bacino che un tempo doveva essere un lago o un mare. Chissà quando, in termini di tempo terreno. In un’altra foto, l’erosione delle pareti è attribuita alla forza del vento. Sulla pianura che sovrasta il canyon, altissimi   tornadi di sabbia, frane di sabbia di decine di chilometri quadrati. E crateri formati da impatti di asteroidi.
    Lei sorride agli angoli della bocca, non con gli occhi che tiene socchiusi. Il sole non lo sopporta più, anche schermato dagli occhiali. Vuole restare lì, non tornare all’ombra, in casa, al riparo dagli spruzzi e da quel venticello insistente che non distingue se d’inizio primavera o fine estate. Perché lei non ricorda che stagione è. Un tempo, era maestra in sfumature, come un sommelier che sa dirci tutto del vino – gusto, retrogusto, corposità, aromi. Tutto di quei vitigni che stanno in un certo punto della collina e solo per pochi metri cambiano sapore e profumo.
    Vuole restare lì, come sempre, non perdere altro tempo: immobile, sulla sedia a rotelle, tutto il giorno davanti al mare.
    Aveva dipinto figure, volti, espressioni, anche solo una ruga. Anni d’intimità col volto umano. Le piacevano la psicologia, le emozioni scritte su un volto come nella nervatura di una foglia o sulle tavolette d’argilla. Per sondare la profondità e riportarla, visibile, in superficie. E, quando voleva saperne di più delle emozioni, studiava i comportamenti degli animali.
    Anni e anni dietro lo studio di volti che poi, di colpo, cancellava, insoddisfatta. Impulsivamente: come quando, delusa o stanca di una persona, di un’amicizia, di un amore o di altro ancora, troncava il rapporto.   Foglio strappato, cancellato, pagina girata.
   – È un vero peccato – le dicevano.
  – Finirai come il Frenhofer di Balzac in Il capolavoro sconosciuto. Da un impiastro di colori farai spuntare solo un piede…
  –  Finirai sola. Sola con te stessa e nessun altro.
      Il minimo legame con la figura umana che ancora si concedeva era un frammento velato, un particolare del corpo come la scheggia di una vita vissuta.
    Con gli altri, ogni giorno, non scambiava solo poche parole?

    Poco a poco aveva abbandonato anche la figura. La considerava un intralcio, uno schermo, una maschera.
    Così era passata a tratteggiare forme, forme astratte che sempre alludevano a qualcos’altro, forme di ogni genere.
    Forse voleva scavare sotto la superficie. Come tornare indietro nella sua vita, sollevare apparenze e luoghi comuni, srotolare le trame delle vicende vissute, perché nel profondo – ne era sicura – avrebbe trovato la vera materia originaria: o   solo una scena della sua infanzia?
    – Cosa sono quelle lunghe strisce d’azzurro che traversano la tela? Il mare? – le chiedevano.
    – Sono quello che volete. O semplicemente una linea d’orizzonte.
    Dipinse linee e linee. Dipingerle era assumere una vista aerea. Lo sguardo degli dei. Nebbie, veli, sfondi a perdita d’occhio, dove immaginare o sperdersi.
    Poi, via i pennelli. Solo matita, carboncino. L’essenziale. Il bianco e il nero. La comunicazione più diretta tra la mano e il foglio. Tra le sue dita e il mondo, la materia. Poi solo le dita senza intermediari, intinte in qualcosa di grigio…
    Ma aveva paura di dimenticare. Se dimenticava, sarebbe morta. Tutto di lei sarebbe morto. Di quanto aveva visto, delle emozioni godute e sofferte. Doveva raccogliere tutto, concentrarsi dentro di sé, in uno sguardo acutissimo, prima di abbandonarsi al nulla come i monaci tibetani consegnano al vento i loro mandala.
    Per farlo, aveva bisogno della vicinanza del mare.
    Un punto cos’era? Un particolare infinitesimo della materia, visto con la lente di un entomologo? O un qualcosa visto dall’alto, così dall’alto e da lontano da sembrare un punto mentre poteva essere la terra intera – o, indifferentemente, la sua vita intera. E i bambini? Non scarabocchiano punti e linee, non ci ripassano sopra tante volte, prima di tratteggiare qualcosa di simile a una forma? Non è forse dipingere l’assoluto prima di cedere al relativo? Il caos: un insieme di linee e punti disordinati. I bambini ci sono vicini. Loro disegnano sempre il caos: perché l’assoluto è semplice e puro, il relativo no, è un groviglio di dettagli. Il primo ha a che fare con la lontananza, il secondo con la vicinanza. Poi, non si sa come, finiscono per congiungersi, rispecchiarsi.
    Allora si è già oltre, oltre il quadro.

    Voleva disegnare l’indistinto, con la pretesa di entrare in quella sfumatura, quel quasi-nulla che separa l’indistinto da un altro indistinto. Se osservava la notte, sapeva distinguere i diversi strati del buio, le sue sfumature variabili da un’ora all’altra, perché proprio la notte aveva sfumature infinite, il nero delle due non era quello delle tre, e non riusciva mai a calcolare la loro durata.
    Doveva entrare, disegnando, nelle loro profondità.
    E finalmente, sotto la superficie, aveva trovato la sua scena originaria: il mare, lei con le mani nella sabbia che mescolava all’acqua, pasticciando. Per ore e ore, la sabbia si illuminava o si incupiva, si separava, tornava compatta, a seconda dell’andare e venire delle onde. E le scivolava via tra le dita, e lei di nuovo a raccoglierla, pazientemente. Poi sua madre cominciava a chiamarla. La chiamava da lontano, tante volte. Non la sentiva. Guardava la sabbia. Era lei a smuoverla insieme al mare o a qualche altra forza che le sfuggiva e che per tutto il giorno – se avesse potuto, per tutta la notte – avrebbe voluto trattenere, dominare?
    Con quella scena si era spiegata molte cose. Poi non più. Aveva smesso di spiegarsi.  
  Intitolò una serie di fogli Stati di commozione. Nessuna forma, ma impercettibili strati di sfumature e sfumature, brividi di carboncino, di matita o acquarello, e di nuovo l’impasto di questi materiali con diversi altri.
    Le storie personali persero importanza. Si allontanavano, la abbandonavano, la dimenticavano. L’autobiografia si sfilacciava, come i profili delle persone incontrate, di quei luoghi visti o sognati che per poco o per molto tempo le avevano attraversato la vita.
    A volte però l’afferrava una intollerabile nostalgia che le esplodeva dentro come un uragano. Sul foglio, pennellate violente, tagli, squarci, duri colpi di matita e poi… strappava tutto. Invasa da una calma impotente, aspettava che quel momento così doloroso si esaurisse, perdesse forza. Il tempo ha uno strano modo di comportarsi. Precipita indietro o corre in avanti. Tenerlo lì, accanto a sé, come un animale domestico che sonnecchia senza dare fastidio ma si adegua agli umori del padrone quasi respirando lo stesso suo respiro, è assolutamente irreale.
    Ma gli stati di commozione, cos’erano, da dove venivano? La commozione non apparteneva solo agli uomini?
    Quello che per gli uomini era uno stato di commozione, forse in natura prendeva un altro nome. Il dolore poteva essere quello scontro tra pioggia che scendeva, umidità del mare che saliva, impatto e separazione, con elementi collaterali che rafforzavano o modificavano l’evento. E l’esito della commozione, del dolore della natura,   sarebbe poi diventato schiuma, vapore. La dinamica di questi fenomeni, l’esatta definizione di ogni cosa, di ogni elemento coinvolto, poteva indicargliela un libro di meteorologia, di geologia, di oceanografia, enciclopedie e dizionari. Per la filosofia umana prendeva ancora altri nomi. E prima ancora la fisiologia, la neurologia…

    I colori del tramonto o del mare, che lei traduceva in linee soffici sulla tela o sul foglio, non erano che emozioni dell’aria e di mille complesse combinazioni – caldo, umido, secco – secondo i mutamenti e le interferenze della luce, del passaggio delle stagioni e delle ore quotidiane.
    Così le piaceva immaginare. Quanti artisti come lei, prima di lei, avevano tentato di riprodurne il tremito, la vibrazione. I quattro elementi, per l’antica sapienza, hanno lo stesso impatto sulla terra dei corpi celesti sul corpo umano.
    Però adesso, l’importante è non commuoversi più. Non soffrire più, anche se ora soffre sempre un po’ di meno. Almeno così le sembra, così desidera.
    Guarda le foto di Marte. Come Valle Marineris, lei sta prosciugandosi, ossificandosi. I sensi affievoliti, allontanati, entrano in un altro tempo. Ogni giorno si fa accompagnare davanti al mare: le basta stare lì, respirare la sua aria e la sua naturale commozione. Quanto è lontana la scena marina dell’infanzia! La sabbia e le   mani che tentano di trattenerla, la madre che la chiama a lungo mentre lei non sente nulla, concentrata in quell’unico gioco.
    Alza la testa: strati lievissimi di nuvole traversati dagli aghi del sole e strati densi di viola blu e grigio su cui pesa un temporale imminente. Sa che in tutti i loro passaggi, sul vasto scenario celeste, forme di nuvole di ogni genere si susseguono, si intrecciano, slittano, disfacendosi e rifacendosi come per un’aerea partenogenesi. Qualche volta, per caso, vedrà formarsi qualcosa che le ricorderà qualcos’altro, ma non saprà cosa. Può sempre capitarle di vedere lassù, in quello spettacolo in movimento, vedere qualche contorno o profilo famigliare scivolare rapido sulla propria testa senza lasciare nessun messaggio, solo una voglia indefinita di seguirlo con lo sguardo –   prima che sparisca per sempre.


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A chi dovesse inviarmi propri libri, non ne assicuro la lettura e la recensione, anche per mancanza di tempo. Così pure vi prego di non invitarmi a convegni o presentazioni di libri. Ho problemi di sordità. Chiedo scusa.
Bart