LETTERATURA: STORIA: I MAESTRI: La baionetta su Cairoli22 Giugno 2017 di Carlo Laurenzi Villa Glori è il parco pub blico del mio quartiere; tal volta, in certi mattini grigi, ci vado a passeggio o meglio mi inerpico per i viali e i sen tieri di quel cocuzzolo bosco so che scoscende sul Tevere. Le memorie sono esplicita mente « sacre », un po’ tedio se. Però amo il piazzale del Mandorlo, la radura asfaltata che si apre prima della vetta. Qui, con una rassegnata sere nità, continuo a pormi la do manda per la quale nessuno ci aiuta. * Che cosa capì, cosa « sciol se » Enrico Cairoli quel gior no d’ottobre del 1867? Secondo la testimonianza di suo fratello Giovanni, dentro di lui fu la luce. Il mandorlo cui Enrico si appoggiò è oggi ridotto a un troncone, forse bruciato dal fulmine, tenuto su dal cemento, cintato da una ringhiera. Come per pietà, nella poca terra, sono cre sciuti fiori di campo. Enrico era stato colpito da due pallottole: agonizzava al piede dell’albero quando â— chi non ha in mente la tela di Gero lamo Induno? â— vide l’uni forme turchina dello zuavo, le uose bianche, il cinturone bianco, il kepi rosso, e la baionetta. Il fratello Giovan ni, ferito, si trascinava sul l’erba, tendendo una mano supplice: prima che lo zuavo trafiggesse Enrico, in quell’at timo, Giovanni udì Enrico parlare. La frase è riferita nei manuali di storia. Disse con chiarezza Enrico Cairoli: « Il problema è sciolto ». Mai, nelle oleografie del sentimento, le « ultime paro le » dei caduti per l’Idea so migliano a queste. E queste parole di Enrico sono vere. Giovanni, che gli sopravvisse due anni, in tempo per redigere e pubblicare la cronaca della spedizione, avrebbe preferito che la vita del fratello fuggisse con un altro grido â— Roma, Italia, Gari baldi â—, poiché Giovanni Cairoli restava immerso nel la passione risorgimentale. Tuttavia, da probo, rispettò quella frase non risorgimentale ma fredda e perenne. Per di più non ne forzò il senso probabile: paragonò la fine del fratello alla fine del «gran de Tebano » (è il meno che si possa concedere alla furia mi tologica di un cronista gari baldino) ma, illustrando la frase di commiato, opinò: « Alludeva all’enimma della vita ». Non poté essere che così; e ciò appare straziante, o con solante, a seconda dei punti di vista. Per me, straziante. Enrico Cairoli aveva venti sette anni: dall’adolescenza, quartogenito tra cinque pro di, aveva cospirato, combat tuto e vinto, amato la patria, gioiosamente odiato i nemici della patria. Cadere trafitto da uno zuavo pontificio, a pochi chilometri dal Campidoglio e dal Foro, avrebbe dovuto rap presentare il suo premio, sen za ombra di meditative ama rezze. Sarebbe stato giusto che Enrico Cairoli fosse mor to non solo « pugnando », co me gli avvenne, ma pugnan do ignaro. Quella spedizione sgangherata e audacissima, con quei settanta che avevano sce so clandestini il corso del Te vere per arroccarsi in una casa di vignaioli alle porte di Ro ma, l’impresa di Villa Glori era stata capeggiata da lui. Lui, Enrico Cairoli, aveva de ciso la sortita all’alba, desti nato a una sconfitta senza problemi: per gli zuavi si trattò di un’operazione di po lizia, nemmeno troppo cruen ta. Non più di due garibaldini caddero, ma uno dei caduti era lui, Enrico, e questa era infine la gloria. La gloria di chi muore in battaglia, però, non è qualcosa di virgineo che la lucidità del dubbio deflora? Enrico morendo avrebbe do vuto gridare: « Italia », o « Roma » o « Libertà »; la morte gli sarebbe stata lieve. Invece « capì ». Morì da filo sofo prima che da eroe: da filosofo, cioè da uomo che s’interroga se la condizione degli uomini non sia, dopo tutto, l’inutilità. * Confesso di non sapere dove Enrico Cairoli sia stato se polto; uno scheletro d’albero mi parla di lui. Villa Glori, che fu georgica, è mutata. E’ mutata perfino nelle ultime settimane: all’improvviso, una mattina, si sono visti pioli al l’imbocco delle vie, cosicché l’ingresso alle automobili è ora impedito. Per anni, la vil la era stata essenzialmente un parcheggio, e ogni automobi le un parlatorio, a seconda della confidenza delle coppie a bordo, o un’alcova. Senza dubbio i limiti della decenza erano stati violati. Il parco è artificioso e si lenzioso, con quel suo carat tere mesto. Ci sono bambini, ma tranquilli. Si incontrano uomini meditabondi o distrat ti, qualche prete, qualche marciatore che si allena, i soldati la domenica, i cani. La pace è turbata, ma di rado, da mo torette. Questo è il giardino pubblico di un quartiere ricco e pigro. E’ un giardino fron zuto, esposto non felicemen te, con pendii che ci sembra no troppo ripidi. La sua fun zione di « parco della rimem branza » lo aduggia. Enfatici belvedere, dai quali poi si ve de soprattutto il villaggio Olimpico, e are votive per tutti i romani morti in tutte le guerre comunicano una pe culiare tristezza; la cupola di San Pietro, all’orizzonte, è un miraggio nella foschia. La villa in sé, che dà il nome al parco ed è chiusa al pubblico e alla quale nessuno si spinge, è piuttosto un casale di campagna, simile a una torre, di linee settecentesche. Cairoli e i suoi vi passarono la notte che precedé la scaramuccia. Ora ospita suore, le quali accudiscono a una scuola comunale: la badessa mi ha mostrato una copia del libro “Ricordi e aneddoti dell’autunno 1867” di Pio Vittorio Ferrari (che fu uno dei settanta), con una calorosa, recentissima dedica di Celso Ferrari, figlio dell’autore. I vecchi odi sono davvero spenti: la badessa ammonisce che « siamo tutti fratelli » ed esalta, col pronto zelo delle monache, lo spirito del Concilio. Torbidamente, ecco di nuo vo la primavera, stagione che moltiplica le domande e le an sie. Il casale è invisibile dietro l’ultima fila degli alberi che rinverdiscono; il parco è tutto cipressi, pini, lauri, lec ci, steli commemorative, tar ghe marmoree. Nessuna tar ga, in questo cimitero dove l’erba torna lucente, comme mora (non ho capito perché) il secondo dei garibaldini uccisi nella scaramuccia, quel Mantovani che Pio Vittorio Ferrari definisce « l’infelice Mantovani » e di cui non ci si tramanda neppure il nome di battesimo. Non voglio dire che l’omissione abbia importanza. Po che cose hanno importanza; ogni problema si scioglie. Penso a un’odiosa e persuasiva conclusione di Sartre: « Se confino l’impossibile Salvezza nel ripostiglio, che cosa avanza di me? Tutto un uomo, fat to di tutti gli uomini: li vale tutti, chiunque lo vale ». (For se Enrico Cairoli pensò que sta medesima certezza quando la luce fu dentro di lui, ma è consentito sperare di no. Forse Enrico Cairoli si conob be inutile ma irripetibile, mentre la baionetta brillava su lui). Letto 1463 volte. 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